lunedì 1 settembre 2008

storia della felicità/dodici/John Stuart Mill e Max Weber: ti odio capitale


John Stuart Mill fu tirato su a pane e Bentham. Di conseguenza niente felicità trascendente per lui, ma democrazia e utilitarismo. Eppure una fede Mill la ebbe: proprio la fede nella felicità, nel "principio di utilità" tanto che ne fece, giovanissimo, lo scopo della sua attività intellettuale.

Su questa fede si abbattè come un'onda una depressione clinica, che egli combatté con un sistema assolutamente originale. Si crogiolò e impastoiò ben bene nelle più disperate, sconsolate e deprimenti poesie del romanticismo inglese: Coleridge e Wordsworth.
Un anno di questa cura e la depressione, inorridita, rinculò.
In realtà, e tornando seria, la poesia gli servì per coltivare la sua emotività, per metterlo in armonia con il lato sentimentale ed immaginativo del suo spirito.
Scoprì inoltre che è meglio essere un essere umano insoddisfatto che un maiale soddisfatto: "è meglio essere Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto". (C'è poco Bentham in questo).
La felicità ha per Mill un presupposto: la libertà. E' la libertà che ci consente di progettare la nostra vita e di indirizzarla verso la felicità. Per questo scrive a sostegno della liberazione delle donne: essa comporterebbe un "indicibile aumento della felicità privata di metà dell'umanità, finalmente liberata." Grazie, dear.
Mill mette in guardia contro una pericolosa categoria di pensiero che attenta alla nostra felicità: il mercato. "Diffondiamo l'idea che il pericolo più serio, per le prospettive future dell'umanità sta nell'influenza non contrastata dello spirito commerciale..."
Ciò che davvero voleva contrastare era l'appiattimento su immagini di felicità eterodirette, capaci di rendere gli individui massa indistinta tesa solo ad aumentare la sua fortuna e a compiacersi dei propri beni.
C'era ancora spazio per combattere questa tendenza?
Quanti davvero avrebbero preferito, con lui, essere Socrate?

E' sorprendente quanti studiosi della felicità abbiano vissuto periodi, più o meno lunghi, di depressione clinica. Un altro è Max Weber.



L'America vista da Max Weber , che vi soggiornò nel 1904, era percorsa da una cultura pervasiva e ineluttabile: lo spirito del capitalismo. La previsione di Weber è lapidaria: qualunque cosa avesse tentato di opporsi "alla cultura del capitalismo sarebbe stato distrutto con forza irresistibile."

Ne "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", come è noto, Weber individua l'origine di quest'ultimo nell'idea protestante che il lavoro è una missione divina e che il successo, rappresentato spesso dall'accumulazione di capitale, costituisce un segno del favore divino. La tendenza a rimandare il godimento dei beni, l'uso della parsimonia e l'operosità crea capitale.
Ma quando si godranno i frutti del proprio lavoro? L'etica protestante rimanda questo godimento ad un futuro indefinito, perché la felicità che il lavoro promette di guadagnare finisce con il coincidere con il lavoro e il sacrificio stesso; in questa concezione "un uomo esiste per il proprio lavoro e non viceversa", osserva, criticamente, Weber.
Egli intuisce anche che la continua produzione di beni, oggetti, macchine, comodità varie, che il lavoro indefesso consente, sta trasformando, se non addirittura sostituendo, il concetto di felicità.
Al termine della sua opera, lucidamente descrive la società del consumo che nasceva in quegli anni: "I beni materiali hanno acquisito un crescente e infine un inesorabile potere sulla vita degli uomini, come in nessun altro periodo della storia."
Eppure per Weber non sarà la legislazione sociale a darci la felicità. Essa pone solo le basi per un vivere senza angosce materiali. E la politica deve solo creare le condizioni di libertà che garantiscano a tutti il perseguimento della felicità.
Quello che può sollevare l'animo umano e fargli realizzare il suo vero scopo è "la sua responsabilità personale, la sua profonda dedizione alle cose più alte, ai valori spirituali e morali dell'umanità...". Non ci sono però ricette né scientifiche, né filosofiche, né sociali per il raggiungimento di questo scopo.

8 commenti:

  1. "un uomo esiste per il proprio lavoro e non viceversa", osserva Weber

    Sbagliato: non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere...

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  2. Per quanto ami Max Weber per l'acuto sociologo che fu, la mia simpatia va tutta a Mill. Saranno pochi quelli che preferirebbero essere un "Socrate insoddisfatto" piuttosto che un "maiale soddisfatto". Ma è di quei pochi che vorrei essere amica...
    V

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  3. @Franca: mi sa che non sono stata chiara. Hai ragione tu, e infatti il povero Weber lo diceva sconsolato!
    forse debbo correggere qualche cosa
    ciao, marina

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  4. @Franca: ci ho aggiunto un "criticamente", è più chiaro?
    ari-ciao marina

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  5. Marina, vorrei una lezione così-chiara e esauriente-ogni giorno sul tuo blog!
    Grazie per la tua cultura
    angelaesiste

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  6. Io spero che poi unirai tutte queste splendide lezioni in un libro... Davvero interessante sai? Giulia

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  7. Mi unisco a giulia per il libro. Merita proprio

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  8. Allora siamo in tre a spingere per il libro.. :-)

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