lunedì 14 luglio 2008

storia della felicità/undici/"Capitale" felicità in America




Siamo in America e Adam Smith, considerato il padre del capitalismo, nella sua opera "La ricchezza delle nazioni", constata che "l'aumento della fortuna è il mezzo che la maggior parte degli uomini auspica e desidera per migliorare la propria condizione."
Padre del capitalismo sì, ma perplesso, Smith sembra dubitare che la ricerca della ricchezza possa garantire una soddisfazione durevole.
Concordano con lui Jefferson e Franklin: la ricerca della ricchezza è un potente motore di crescita individuale e sociale, ma rispetto alla felicità appare insufficiente. Inoltre introduce un elemento di sfasatura tra la felicità privata e quella pubblica, che, in una società giusta, debbono potersi conciliare. Come ottenere questo fondamentale equilibrio?
Jefferson pensa, ottimisticamente, che l'educazione alla razionalità e all'autocontrollo frenerà gli appetiti individuali, facendo sì che la ricerca dei piaceri privati non entri in conflitto con il bene pubblico nel suo complesso.
Secondo Hannah Arendt invece, la fiduciosa intenzione di Jefferson muore prima ancora di nascere. Nella società capitalistica la ricerca dei due beni entra subito in conflitto e l'aspetto privato della ricerca della felicità relega in secondo piano l'aspetto pubblico.
Prevale "il diritto dei cittadini a perseguire i propri interessi personali e ad agire quindi secondo le regole dell'egoismo privato".
La storia degli USA sembra dare ragione ad Hanna.
Nonostante le buone intenzioni dei padri della patria americana, i neri, strappati con la violenza alla terra d'Africa, non facevano parte degli uomini "tutti creati uguali e dotati di inalienabili diritti". Costituivano anzi le palate di carbone da gettare nella locomotiva del progresso del paese.
Inoltre la promessa di felicità che l'America costituì per milioni di uomini e donne che la raggiunsero nel XIX e XX secolo, non fu mantenuta se non a prezzo di lotte e sofferenze.
Dal punto di vista di queste grandi masse di uomini e donne, la ricerca della felicità in America è la storia della ricerca di uguaglianza e libertà. Storia lunga, faticosa e appassionante.

In America, secondo Alexis de Toqueville, la ricerca della felicità ha un aspetto paradossale. Nel suo "La democrazia in America" egli osserva che "nessuno potrebbe lavorare più duramente (degli Americani) per essere felice" eppure essi conducono una vita di insoddisfazione.
Corrono tutta la vita dietro un nuovo bene che gli possa garantire la felicità per disfarsene a favore di un altro e poi di un altro. Così per tutta la vita.
Ciò nonostante, almeno a tratti, de Toqueville continua a nutrire fiducia in un "egoismo illuminato" che assista la società americana e, assieme allo spirito religioso, la convinca che "essere buono è nell'interesse di ciascuno".
Questi momenti di ottimismo lasciano però spazio ad una inquietudine che percorre l'ultima parte dell'opera di de Toqueville e che entra nel cuore del discorso sulla felicità.
Scrive Alexis:
"Sto cercando di immaginare sotto quale nuova forma il dispotismo potrebbe riapparire nel mondo. In primo luogo vedo una moltitudine di uomini, simili e uguali, che girano continuamente alla ricerca dei piccoli e banali piaceri con cui nutrono la propria anima. Ciascuno di loro chiuso in se stesso è quasi indifferente al destino degli altri. Al di sopra di uomini simili c'è un potere immenso, protettivo, unico responsabile della loro gioia e del loro destino. Questo potere è assoluto, attento ai dettagli, ordinato, previdente e gentile. [...] Gli fa piacere vedere che i cittadini si divertono, purché non pensino ad altro che a divertirsi. Lavora volentieri per la loro felicità, ma vuole essere l'unico agente e giudice di essa."
Il minimo che si possa dire di questo straordinario osservatore è che de Toqueville aveva una grande capacità di spingere il suo sguardo avanti nel tempo.

Le foto ritraggono, in senso orario, Adam Smith, Alexis de Toqueville, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson.
Qui sotto invece, Hanna Arendt.

Di Hanna Arendt si ricordano tante frasi famose, ma negli anni in cui insegnavo, io portavo sempre con me, incollato sul diario un suo pensiero: "L'insegnante, di fronte al fanciullo, è una specie di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, e la indica loro in ogni particolare, dicendo: ecco il nostro mondo. L'insegnante è responsabile del mondo che mostra."

2 commenti:

  1. grande Hanna, altra stella spesso offuscata da un uomo non meritevole...maledetto Martin...

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