mercoledì 5 marzo 2008

storia della felicità/quattro/arriva il Cristianesimo

Fondata com’è sul racconto originario di una sofferenza, la religione cristiana non evoca certo il concetto di felicità. Eppure la promessa di felicità fu al centro della predicazione del primo Cristianesimo.
“La buona novella del messaggio di Cristo era precisamente la promessa della redenzione attraverso la sofferenza e del passaggio, sempre attraverso la sofferenza, ad una felicità eterna diversa da qualsiasi cosa conosciuta.”(Mc Mahon)

Mentre i saggi prima di Cristo, sia Ebrei che Greci, avevano consigliato di evitare le sofferenze, invitando i loro seguaci a fuggirle, a disprezzarle o al massimo a sopportarle, Cristo raccomandava di abbracciarle volontariamente: coloro che patiscono dolore adesso godranno nel futuro.
La rottura culturale rispetto al carpe diem e alla felicitas tardo-romana è totale.
Mentre nella concezione classica la felicità riguardava la sola durata della vita, la beatitudine cristiana era senza fine e aveva principio dopo la morte.



S. Agostino intitolerà un capitolo del “De civitate dei “ La vera felicità che è inattingibile in questa vita.”
La felicità è del tutto sottratta al nostro controllo. E’ un dono di Dio che viene concesso solo con la morte e solo a pochi eletti (libro 5, cap. 17,18).

Questa visione della vita era essenzialmente tragica, svalutava il ruolo dell’azione umana nel determinare il proprio destino e rappresentava l’esistenza terrena come immersa nella sofferenza e nel dolore.
La contraddizione che vibra in Agostino è che, a dispetto della sua intima tristezza, la vita è un dono prezioso e la nostra coscienza della sua transitorietà non può che rendercela ancora più preziosa. Egli parla della “bellezza e utilità della creazione naturale”.
Nel XII sec. i cristiani tentano un’ uscita laterale rispetto al tragico pellegrinaggio di Agostino.
Cominciano a concepire un nuovo modo per pervenire alla felicità.
Si sale cioè, lungo quella che Tommaso d’Aquino nel 4° libro della “Summa contro gentiles” chiama “la scala dell’essere”.



Tommaso considera la vita come un lungo processo di guarigione o come un continuo percorso di ascesa, in cui ci si porta sempre più vicini a Dio.
Si partecipa a questo processo, seguendo Cristo. I cristiani fidano dapprima sulle loro capacità, rispettando le regole e i precetti della chiesa, ma è solo quando avranno ricevuto le virtù teologali (carità, speranza e fede), che troveranno la forza per raggiungere la meta finale. Queste virtù sono doni dati dal Signore a coloro che egli considera degni.
Tommaso riconosce che per raggiungere il fine ultimo occorre aver soddisfatto le necessità fondamentali dell’esistenza -la salute, il benessere, la sicurezza ecc.- ma sottolinea sempre che queste “felicità” non sono fini ma solo mezzi.

Nella visione cristiana del mondo non c’era spazio per la fortuna o per il caso, e poco per l’azione umana: la provvidenza di Dio governava tutto.

Eppure qualche cosa di simile agli antichi resisteva: la felicità, summum bonum, restava un telos, un fine, e la virtù il mezzo principale per guidarci. Ma mentre gli antichi intendevano la virtù come risultato quasi esclusivo dell’attività umana, e opera così impervia che poteva essere conquistata solo dagli sforzi di pochi saggi, i cristiani la consideravano un dono di Dio, in teoria ottenibile da tutti.

La felicità cioè, si sposta nell’al di là ma può essere di tutti.
A me sembra un concetto che tanto si allarga quanto si allontana.
Gli uomini vivono la loro vita terrena, tra un passato felice, l’ Eden, e un futuro di possibile paradiso riconquistato. Se nel suo rifiuto della felicitas pagana il cristianesimo aveva negato le cose di questo mondo, gettando discredito sul sesso, sulla sensualità, sul benessere, sull’ambizione, in pratica su tutte le molle motivazionali dell’uomo, nelle promesse del Paradiso, così come lo dipingeva, i sensi tornavano da padroni. La beatitudine avrebbe soddisfatto la fame, placato la sete, soddisfatto tutti i desideri.
Nel paradiso i meritevoli avrebbero trovato ”ciò che nessun occhio ha mai visto, nessun orecchio ha mai sentito”.
Intanto il presente è un fardello da sopportare con l’aiuto di Dio.
La felicità è una speranza.

10 commenti:

  1. A questi principi è stata ispirata l'educazione che ho "subito". La vita terrena come sofferenza e viatico per la felicità eterna.
    Io son venuta su epicurea:il piacere e la felicità li cerco in questa vita.E provo a raggiungere la serenità dominando le mie paure.

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  2. A questi principi è stata ispirata l'educazione che ho "subito". La vita terrena come sofferenza e viatico per la felicità eterna.
    Io son venuta su epicurea:il piacere e la felicità li cerco in questa vita.E provo a raggiungere la serenità dominando le mie paure.

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  3. La cosa che più mi fa raccapriccio della religione cristiana è il martirio e il sacrificio fine a se stesso. E' contro l'umano. Ma diventa parte di noi in secoli di indottrinamento, soprattutto delle donne.
    Veneriamo un branco di crocifissi, carbonizzati, torturati come se questo sacrificio fino a se stesso fosse davvero qualcosa di giusto...
    E la critica più aspra che si può fare a questa religione macabra è proprio il tuo "la felicità è una speranza".

    Un giorno in mercato un signore anziano litigava con sua moglie perché aveva comprato un bel pezzo di lardo anche se aveva il colesterolo alto. La moglie lo rimproverava di comprare cose più consone al suo stato di salute (chesoio, magari una bresaola), o sarebbe morto.
    Gli ha risposto: "Dammi qua, dammi qua. Le cose buone le mangio di qui, quelle cattive le lascio per di là.

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  4. Con la scusa dell'al di là hanno compiuto le più grandi efferatezze... Bellissimo e molto interessante post. Un caro saluto, Giulia

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  5. Eccellente, questa serie della storia della Felicità mi appassiona. Purtroppo è rimasta e resta solo una parola: felicità.

    Felicità, interiore.

    Rino.

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  6. Tornerò al più presto a rileggere questo tuo post, Marina.
    Mi sembra molto interessante, mi spiace perché sono in ritardo.

    Per ora un saluto e un A presto!

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  7. ah, guccia, mi hai fatto così ridere, con la storia del supermercato! dammi qua, ecc. Ha proprio ragione!
    l'idea di sacrificio è orribile. Io ricordo mia nonna e poi mia madre: hanno accumulato rancore verso il mondo per aver sempre dovuto sacrificarsi.
    ciao marina

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  8. simpatico il vecchino, c'è più filosofia nella sua frase... poi in dialetto la scena è stata ancora più spassosa ;)

    Sì, le donne sono le prime vittime. Mogli e madri.

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  9. Abbi fiducia Artemisia, il carpe diem tornerà ;-)
    ciao marina

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