lunedì 31 marzo 2008

il segreto di Irmgard


La mia città mi dà tanto conforto. Davvero.
La mia città è straordinariamente bella. E la bellezza consola.
Io mi raccolgo nella mia città. E lei mi tiene stretta.
La mia città è famosa in tutto il mondo per la sua bellezza.
Sono molte le belle città al mondo.
La bellezza della mia città, però, è una bellezza speciale. Perché ha a che fare con il tempo, con il passato, con la morte, con il ricordo. É una bellezza speciale perché è una bellezza filosofica.
Io vivo in questa città come attraverso il tempo. E il tempo, tutto questo, così tanto, tempo, che ha la mia città, è tutto presente per me, sempre.
Io vivo in un punto della mia città che fa diventare filosofi anche i cardi.
La mattina, appena sveglia, i miei occhi si posano sul Colosseo –prende la luce dall’est e lo vedi chiaro, potresti toccarlo.
Ecco, da adesso non puoi guardare alla mattina se non con la consapevolezza del tempo, della profondità del tempo.
Quando guardo il Colosseo io non vedo il monumento celebre, che presto i turisti assedieranno.
Io vedo il mio passato, il mio popolo, la mia gente, la mia cultura. La mia storia. E tutti quelli che lo hanno guardato prima di me. Io risento la loro lezione. Sento suonare la loro lingua. Li incontro. Il Colosseo sono ancora io. Io appartengo a quelle pietre, loro appartengono a me. Io cammino sui passi di altri che sono stati romani prima di me. Intorno a me, vivono ancora i loro resti, ora intatti, ora infranti. Non importa.
Se mi va, in trenta metri arrivo a passeggiare negli orti di Mecenate. In duecento, tocco il suo Auditorium.

Perché questo è così importante per me? Perché ha questo potere su di me? Non lo so.
So che un senso così forte della stratificazione della vita mi consola. Mi rassicura. E mi fa compagnia.
Non sono sola. Sto qui. Queste mura mi raccolgono. Sto nel mio posto. Un posto che accoglie solitudini e spaventi da tanto, tanto tempo. Che sarà un posto per accoglierne ancora domani. E poi. E poi.
E l’idea di non esserci più non ha alcun potere di spaventarmi.
Io so il segreto, Irmgard. Non so se riuscirò ad esprimerlo. Ma lo so. So quale è il potere di questa città. E so quel "perché" che tu indaghi.
Questo posto agisce su di me, come la stretta forte, amorosa, consolante, di un corpo amato. Io mi affido a questo abbraccio. L’abbraccio di questa città -emblema stesso del Tempo- spazza via ogni paura. Di che posso avere paura? Sto qui. Qui il Tempo passa, la vita continua.
La città viene imbrattata, ma è ancora più bella. Nessuno e niente riesce a sfregiarla. C’è qualche cosa di refrattario alla bruttezza in questa città. Guardatela in un momento di particolare sconcezza. Guardatela sommersa di rifiuti, di disordine, di manifesti, di mali odori, di corpi volgari, di voci chiassose. Niente. Non la altera niente. Qualche cosa di più tenace la protegge e tutto il brutto le scivola via di dosso. Non attecchisce.
È il Tempo che la protegge.
Di fronte a questa città-Tempo o tremi o ti senti assolutamente rassicurata.
Sì, le cose finiscono. Le vite finiscono. Ma no, la vita non finisce. Roma è in piedi. Il mondo resterà in piedi.


In questi giorni non riesco a separarmi dalla riflessione sul tempo.
Sul tempo ho cominciato a riflettere da quando ero una ragazzina. Non ho mai smesso. Al Tempo mi affido sempre. Quando mi sembra di essere chiusa dentro un labirinto di dolore e di impotenza, io mi dico: c’è il Tempo.
E se da un tipo di tempo non riesco ad uscire non ha alcuna importanza. Perché c’è un altro Tempo che mi consumerà. Ci penserà lui. Io non ho paura. Sto nella mia città. Sto a Roma. Che cosa potrebbe accadermi che non sia già per millenni accaduto?

domenica 30 marzo 2008

sfogliando La Rivelazione del Buddha

Anuradhapura-1980



Sedakasutta
(il discorso di Sedaka)
da: SamyuttaNikaya, 47.19

Un tenpo il Beato soggiornava tra i Sumbha, in una loro città chiamata Sedaka.
Ivi il Beato si rivolse ai monaci dicendo: [...]O monaci, colui che si prende cura di se stesso si prende cura degli altri e colui che si prende cura degli altri si prende cura di se stesso.



tra Kandy e Badulla-1980

Questo passo è di cruciale importanza per una giusta comprensione dell’etica buddhista.
Questo è il commento che ne ha fatto Nyanaponika Thera*

“Queste due affermazioni sono complementari e non debbono essere considerate o citate separatamente. [...]La protezione di se stessi costituisce l’indispensabile fondamento della protezione e dell’aiuto che che si possono dare agli altri.La protezione di se stessi non ha alcuna implicazione egoistica: essa significa autocontrollo, maturazione morale e spirituale. [...] Ma una vera protezione di se stessi è possibile solamente se non è in conflitto con la protezione degli altri; chi cerca la propria protezione a spese degli altri si espone alla violenza e al pericolo;
[...] La protezione di se stessi e la protezione degli altri corrispondomno alle due grandi virtù complementari del buddhismo, la saggezza e la compassione. La giusta protezione di sé è l’espressione della saggezza, la giusta protezione degli altri è l’espressione della compassione.”


nella campagna di Anuradhapura-1980

Proseguendo, nel discorso di Sedaka, il Beato, Buddha, spiega anche in che modo ci si prenda cura di se stessi e degli altri.
Alcune di queste pratiche alludono ad una forma di contemplazione che mi riesce di difficile comprensione. Ma le altre sono: la pazienza, il non nuocere, l’amore, e la solidarietà. Tutte pratiche comprensibilissime. Non sempre facili da attuare, certo.



ninfee sulla strada di Batticaloa-1980

*Nyanaponika Thera = Monaco “Theravada,” la più antica scuola buddhista.
Tedesco di nascita (il suo nome era Siegmund Feniger-1901 Hanau), ma di cultura orientale. Morì nel 1994 a Kandy, nello Sri Lanka, dove viveva dagli anni '30.

P.S. Vorrei specificare che del Buddhismo so veramente poco. Ma di buddhisti ne ho incontrati molti. In India, nello Sri Lanka, ad Hong Kong, in Thailandia e, nascostamente, a Takht-i-Rustam (Samangan) in Afghanistan.

sabato 29 marzo 2008

giardini



Due pini sono stati resi pericolanti al Colle Oppio, dalla tromba d’aria di qualche giorno fa’. Ora li hanno abbattuti. Ma peschi e mandorli fioriscono.

Da “ Scritto in un giardino” di Marguerite Yourcenar


“Le radici affondate nel suolo, i rami che proteggono i giochi degli scoiattoli, i rivi e il cinguettio degli uccelli; l’ombra per gli animali e gli uomini; il capo in pieno cielo. Conosci un modo di esistere più saggio e foriero di buone azioni?
E quindi il soprassalto di rivolta in presenza del taglialegna e l’orrore, mille volte maggiore, davanti alla sega meccanica. Abbattere e uccidere chi non può fuggire.”



Il minuscolo libro (edizioni il melangolo), termina così:

“Il tuo corpo per tre quarti composto d’ acqua, con in più un po’ di minerali terrestri, minuscola manciata. E questa grande fiamma dentro di te di cui non conosci la natura. E nei tuoi polmoni, che senza una pausa si contraggono e si distendono nella cassa toracica, l’aria, questa bella straniera, senza la quale non puoi vivere.”

venerdì 28 marzo 2008

LA POLITICA E LE TORTURE DI BOLZANETO


La Repubblica
STEFANO RODOTÀ
28-03-2008

Quando a Bruxelles si scriveva la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, qualcuno osservò che forse non era il caso di fare un riferimento esplicito alla tortura. La prima dichiarazione dei diritti del nuovo millennio, si diceva, doveva guardare al futuro, non attardarsi su anacronismi, certamente nobili, ma che l´Occidente civilizzato si era ormai lasciati alle spalle. Saggiamente si decise di resistere a questa tentazione, e così il divieto, già con forza ribadito dalla Convenzione dell´Onu del 1984, è stato mantenuto nell´articolo 4 della Carta: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a trattamenti inumani o degradanti». Si era alla fine del 2000. Di lì a poco sarebbero venuti Guantanamo e Abu Ghraib, le deportazioni verso compiacenti paesi torturatori, i suggerimenti del professor Dershowitz per una tortura "legalizzata" e il veto del presidente Bush contro una sia pur limitata legge antitortura. E Bolzaneto, Italia. L´Occidente ha dovuto di nuovo fare i conti con il suo lato più oscuro, rimosso non cancellato. In Italia tutti sapevano, o comunque si era di fronte ad una vicenda per la quale davvero l´ignoranza non si scusa. Voci diverse si erano levate, le testimonianze si moltiplicavano, ricordo tra le tante la narrazione di un noto giornalista sportivo che, con una straordinaria freddezza di cronista, riferiva lo stato in cui aveva ritrovato suo figlio. Ma i fatti della Diaz e di Bolzaneto venivano progressivamente respinti sullo sfondo, sopraffatti dalle violenze dei black block e dall´uccisione di Carlo Giuliani. Sembrava quasi che le violenze dei manifestanti e la reazione mortale d´un carabiniere appartenessero ad una normalità perversa, ma governata da una sorta d´invincibile fatalità; e descrivessero comunque qualcosa che può accadere quando pulsioni e paure si fanno troppo forti. Bolzaneto no. Da lì si voleva distogliere lo sguardo. In quelle stanze s´era manifestata all´estremo la "degradazione dell´individuo" tante volte ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale. Ufficialità, perbenismo, cattiva coscienza rifiutavano di specchiarsi nella negazione dell´umano. Proprio quella negazione è svelata dal tremendo catalogo compilato dai magistrati genovesi, e squadernato davanti all´opinione pubblica dall´iniziativa di questo giornale, dagli implacabili reportage di Giuseppe D´Avanzo. Il silenzio istituzionale è stato rotto, la stampa ha ritrovato la sua funzione di ombudsman diffuso, l´opinione pubblica non può più trincerarsi dietro il "non sapevo". E tuttavia la reazione già appare attutita, inadeguata. Non è venuta un´attenzione corale del sistema dell´informazione: rispetto della regola gelosa per cui non si riprendono le notizie lanciate dagli altri? Non è venuta un´attenzione vera e intensa dall´intero sistema politico: l´eterno gioco delle convenienze, l´eterna vocazione a minimizzare? Sta di fatto che, dopo i fuochi dei primi giorni, è tutto un troncare, sopire. Le norme non ci sono, si dice. Al massimo ci saranno stati comportamenti "devianti" di qualche sconsiderato. E ci si acquieta. Ma i Paesi davvero civili, le democrazie non ancora perdute dietro riti televisivi insensati reagiscono quando scoprono i loro vuoti, le loro inadeguatezze. S´interrogano sulle ragioni, si mettono in discussione. Proprio il trovarsi nel cuore d´una campagna elettorale avrebbe dovuto favorire il parlar chiaro, gli impegni netti, la sfida alle proprie pigrizie. Perché non dire subito che la prima proposta di legge (o la seconda o la terza, non importa) sarebbe stata proprio quella volta a colmare la vergognosa lacuna dell´assenza di una norma sulla tortura, che rende inadempiente l´Italia non di fronte a un trattato tra i tanti, ma di fronte all´umanità intera? Perché, tra le varie iniziative e commissioni annunciate con fragore di trombe, non ne è stata inclusa una incaricata di preparare proprio quel testo? Perché tra gli impegni bipartisan su temi di grande e comune interesse, che dovrebbero vedere dopo le elezioni gli sforzi congiunti di maggioranza e opposizione, non compare la questione della tortura, l´impegno a rendere finalmente operante in Italia la Convenzione dell´Onu dopo un quarto di secolo di disattenzioni e di ritardi? Non basta tornare sulla proposta di una commissione parlamentare d´inchiesta. Conosciamo, purtroppo, il degrado di questo strumento: non sono più i tempi della Commissione De Martino sul caso Sindona o della Commissione Anselmi sulla P2. E, comunque, si tratta di qualcosa di là da venire, che può assumere il sapore del rinvio. Mentre già oggi, pur con le lacune della legislazione penale, sono possibili impegni istituzionali e politici, vincolanti almeno per il futuro ministro dell´Interno: ricorso a tutti gli strumenti amministrativi disponibili per emarginare chi è stato protagonista di quelle vicende; pubblica condanna, senza troppi distinguo, nel momento stesso dell´assunzione dell´incarico. Una difesa della polizia in quanto tale può essere intesa come una promessa di copertura, la banalizzazione degli atti di violenza assomiglia ad una sorta di annuncio di una loro inevitabile ripetizione. Che cosa dire di fronte all´affermazione di un ex-ministro della Giustizia che, parlando di persone obbligate tra l´altro a stare in piedi per ore, si sente autorizzato a fare battute di pessimo gusto sui metalmeccanici che sono in questa condizione ogni giorno per otto ore? Ma l´irresponsabilità politica viene da lontano. Ricordo un sottosegretario alla Giustizia, poi transitato nelle schiere garantiste quando le inchieste giudiziarie cominciarono a riguardare il ceto politico, che venne alla Camera dei deputati a parlare di violenze carcerarie sostenendo che, avvertiti di un trasferimento, alcuni detenuti si erano «sporcati il viso con vernice rossa». Giuliano Amato ha sottolineato che «si è strillato molto più per Guantanamo che non per Genova. Siamo più sensibili ai diritti umani nel mondo che al loro rispetto in casa nostra». Chiediamoci perché, allora. E la risposta va cercata proprio nell´eclissi sempre più totale della cultura dei diritti, sopraffatta da un´enfasi sproporzionata e strumentale sul bisogno di sicurezza. I diritti disturbano, possono essere sospesi, com´è appunto accaduto a Bolzaneto. La fabbrica della paura è divenuta parte integrante della fabbrica del consenso. Basta girare per il centro di Roma, dove si circola senza particolari problemi, invaso da manifesti davvero bipartisan che ossessivamente promettono sicurezza, e solo sicurezza. Quale enorme responsabilità assume in questo modo la politica, creando un clima che induce a ritenere giustificata qualsiasi reazione. E non si insiste, come sarebbe doveroso, sul fatto che la magistratura, una volta di più, sia stata l´unica istituzione capace di vera e civile reazione. Si colgono, anzi, atteggiamenti stizziti, dietro i quali non è difficile scorgere il disagio di chi avverte che l´inchiesta di Genova non rivela soltanto comportamenti inqualificabili, ma mette a nudo i limiti della politica. Si celebrano i giudici lontani, com´è giustamente accaduto quando la Corte Suprema degli Stati Uniti condannò le violazioni dei diritti a Guantanamo. Troppi dimenticano di dire che la vergogna di Genova può cominciare ad essere riscattata solo contrapponendo la civiltà giuridica e la lealtà istituzionale dei magistrati genovesi alla violenza contro l´umano e la legalità consumata a Bolzaneto.

uno, due, tre....



Per il momento sono al tappeto. Date tempo all'arbitro di contarmi...

giovedì 27 marzo 2008

messaggio personale

Caro compagno Pasquale, se sei il compagno Pasquale che penso io -e io ho conosciuto un solo compagno Pasquale-mi farebbe davvero piacere leggerti o avere tue notizie. Esci fuori dalla tana. La compagna Marina.

nel loop infinito


Giorgio De Chirico

Se sapete già che cosa sia il tempo circolare questo post NON è per voi.
Se invece non sapete che cosa sia il tempo circolare, questo post NON è per voi.
In ogni caso questo post NON è per voi.
Infatti è per me.


Dal 1991 io vivo l’esperienza del tempo circolare.
Vale a dire che dal 1991, mentre corre prepotentemente in avanti, nello stesso tempo, il tempo (scusate il bisticcio) ritorna su se stesso.
In pratica io giro su una pista, un circuito di Formula Uno -per gli amanti del genere- o la pista dei tremila siepi per gli altri, e nel mentre, il circuito di Formula Uno o la pista dei tremila siepi, viaggiano in avanti velocissimamente.
Significa che quando è febbraio io torno al febbraio del 1991 e così nel marzo e via via e ripercorro tutto il 1991, ma non entro mai nel 1992, perché riparto sempre dal febbraio del 1991 e ruoto e ruoto. Spiacevole, se si tiene conto che il 1991 è stato l’anno più brutto della mia vita.
Intanto però il Tempo di tutti, che contiene anche me, galoppa in avanti e io mi ritrovo nel 2008, pur restando nel 1991.
È chiaro? No? Non lo è?
Vi avevo detto che questo post NON era per voi.


Salvador Dalì

mercoledì 26 marzo 2008

chi si rivede, professò!

Sono lì dal mio macellaio, laziale irredimibile, che scambio qualche vivace punto di vista sulla prossima partita Lazio-Inter. Devo premettere, per chi non segue le sorti del campionato di calcio, che la prossima partita dell’Inter è importantissima per la Roma. Si tratta di rosicchiare qualche punto all’Inter prima in classifica, sperando che la Lazio la batta. In questo caso la Roma, vincendo, si spera, a Cagliari, la tallonerebbe a un solo punto di distanza. In via eccezionale noi romanisti tifiamo Lazio, mentre i laziali, loro, sarebbero felici di perdere per non vederci avvicinare allo scudetto.
Mentre siamo lì che scherziamo arriva il fornitore di carne bovina. È un po’ chino sotto un quarto di bue e quasi avvolto da un grosso sacco di juta. Mi sposto di lato per farlo passare. Scarica la carne nella cella frigorifera e torna indietro, mentre tira fuori la bolla di consegna. Mi sposto di nuovo per fargli spazio, perché il negozio è stretto e lungo. Ma lui mi guarda in faccia con espressione corrucciata. Indietreggio ancora un po’, ma l’uomo, grossi baffi, sui quaranta, continua a fissarmi. Comincio ad irritarmi: a meno di uscire dal negozio, più spazio di così non posso farne. Poi l’uomo si apre in un sorriso e mi fa, un po’ esitante: “Lei è la professoressa P.” Ho l’incertezza della sorpresa. “Sì”, fa il macellaio, al posto mio. “Professoressa, so’ D.”. Ora, pur avendo considerato tutti ed ognuno dei miei alunni come un singolo individuo, i loro nomi sono fuggiti dalla mia memoria, uno solo escluso, e inoltre questo ipotetico alunno è un uomo fatto e rifinito, il cui aspetto non può in nessun modo coincidere con qualche pre-adolescente di trenta o più anni fa’. Con cautela, dandogli del lei, inizio a scusarmi. “Mi dispiace, ma il suo nome non mi dice niente al momento...” “So’ Marco, professoressa, Marco D., la terza A, a Marino”. Allora passo al tu. “Dammi un momento, e soprattutto dimmi quando”. “Allora, -e lui passa al professoré- doveva esse’ l’81 o l’82”. “Aripijali” commenta il macellaio, interessato alla vicenda.
Intanto io mi butto indietro nel tempo, cercando di ricostruire in qualche modo quella terza A. Ma non li vedo, mi sento mortificata, ma non riesco a vederli. È lui che me li riporta alla mente, di botto, con una frase: “Si ricorda Vermicino, Professoré?” Altroché se ricordo Vermicino! Tutta Italia, credo, se ne ricorda. E così ricordo anche la Terza A. “Quanto s’è incazzata, Professoré!”
Effettivamente, mi incazzai molto. Il piccolo Alfredo Rampi, che divenne Alfredino per tutti gli italiani, cadde in un pozzo artesiano, e dopo tre giorni, vi morì. Nonostante ogni sforzo, non si riuscì a salvarlo. Quella storia accadeva lì vicino, nella campagna tra Marino e Frascati. I ragazzi la sentivano come una storia di casa loro.
Tutti seguivamo in pena la sua sorte, ma Rai Uno fece qualche cosa di orrendo. Oggi è pratica comune, ma quella fu la prima volta. Una diretta per tre giorni intorno all’agonia di quel bambino di cinque, sei anni. Direttore del telegiornale di Rai Uno era Emilio Fede, talento precoce. C’erano gli esami di Licenza Media, ma in corridoio la televisione era sempre accesa e insegnanti, alunni, bidelli passeggiavano lì davanti, affascinati da quell’orrore in diretta. Non ero certo migliore di loro, né indifferente e peggiore, né più avanti dei tempi, non avevo idea di che cosa fosse o potesse diventare lo spettacolo del dolore, ma ad un certo punto non ce la feci più. Così lasciai il mio posto al tavolo degli orali e piombai in corridoio. “Questa è una scuola o un cinema? Fuori, tutti fuori! E adesso basta! e spensi la televisione. “Ha detto il Commissario che possiamo tenerla accesa”. “Il Commissario, ha capito male e adesso glielo dico io.” “Ma noi vogliamo sapere se lo salvano!” “Volete sapere se lo salvano o volete vederlo morire? Tu, vuoi sapere se lo salvano o vuoi vederlo morire? E tu? e tu? Se lo salvano, lo sapremo immediatamente, state sicuri.”
Brontolavano, puntavano i piedi, il bidello si diresse in presidenza, i colleghi protestavano. “Se tu non lo vuoi guardare, non lo guardare, ma a noi faccelo vedere!” e qualcuno riaccese la televisione. “La televisione te la guardi a casa, qui ci stiamo per fare gli esami non per guardare la tv”. E la spensi di nuovo. Intervenne a darmi man forte la collega di Educazione artistica. “Ha ragione, mica stiamo al cinema. Basta, o state in fondo all’aula ad assistere in silenzio o ve ne andate e tornate quando avete l’orale!” I ragazzi furono sbattuti tutti fuori, i colleghi mugugnarono ma si arresero, il bidello resistette. Il televisore era il suo e andò a protestare dal Commissario Ministeriale. Lo seguii in Presidenza. “Vuole per cortesia darci istruzioni? Dobbiamo svolgere gli esami o guardare la televisione? perché, se dobbiamo guardare la televisione, basta che me lo dica e scrivo ottimo a tutti, senza neanche farli, gli orali!” “Lei ha ragione, professoressa, ma cerchi di capire, siamo tutti coinvolti.. “Va bene, ho capito, vado a scrivere i giudizi”. “Ma no, no, spegnete quel televisore e facciamola finita.”
Rivedo questa scena nella mia mente e mi viene ancora rabbia. “Che str...! penso retrospettivamente tra me e me.
Il mio alunno quarantenne racconta ridendo “È schizzata via come un razzo, si ricorda? E mi ha lasciato seduto davanti alla cattedra un quarto d’ora.” “Oh Dio, eri tu? Quello che stavo interrogando?" “Ma un quarto d’ora, dai non è possibile". “Sì, professoré, la sentivo strillare e non tornava mai” "E poi, com’è andato l’orale?" "Ah, bene. Quando è tornata ha guardato il mio tema, mi ha chiesto di riscrivere un pezzo e mi ha lasciato andare. So’ stato fortunato”. Gli confesso che ricordo l’episodio, ma non la sua faccia. Non se la prende. Anzi insiste per offrirmi un caffè nel bar accanto.
Mi racconta un po’ della sua storia. Ha quarantuno anni, due figli. Lavora in Umbria in un piccolo allevamento di bovini. Fa su e giù col camion per le consegne. Ha fatto due anni di Ragioneria e poi ha lasciato la scuola. Mi chiede qualche notizia dei colleghi di allora, ma non ne ho. “Certo che era tremenda, professoressa!” Protesto. “Tremenda? e perché?” “Strillava a tutti”. “A tutti? Ma va, ma quando mai...”
“Ma mica a noi, agli altri professori!” “Si ricorda quella volta che non ha fatto entrare in classe quella di matematica?”. Non ricordo e chiedo chiarimenti. Sembra che io mi sia rifiutata di uscire di classe durante un tema, non è chiaro il perché. Resto perplessa, ma lui è sicuro del fatto suo. “E j’a detto: Se eri presente nelle tue di ore, non c’avevi bisogno di quelle degli altri!E se voleva chiude dentro a chiave!”. Mi sa che esagera, come facciamo tutti con i nostri ricordi. Comunque: “Oh Dio, allora ero davvero tremenda!”e dentro di me spero di avere almeno usato congiuntivi e condizionali al posto loro.
“E che je sto’ a di’, era tremenda!”
Concordo, mentre scruto i suoi lineamenti in cerca di un particolare almeno che me lo restituisca ragazzino di quattordici anni. Niente da fare. Però un particolare di lui vagamente affiora quando mi saluta. “Tanti auguri Professoré e...Forza Inter!” mi fa con aria di sfottò.
“Forza Inter!?” Ai Castelli romani il tifo calcistico si distribuisce tra la Roma e la Lazio, con una prevalenza bianco azzurra. Avevo spesso amichevoli scambi di vedute calcistiche con i miei alunni laziali e c’era, sì, un provocatore incallito, che sfotteva, con questa stessa aria impunita. Era lui? Era un altro? Non posso saperlo, ma, ad ogni buon conto, gli rispondo pronta: “Forza Lazio, D., Forza Lazio!”.

martedì 25 marzo 2008

radici resistenti


È bellissima l’iniziativa del blog mondine! Festeggiare il prossimo 25 aprile a Casa Cervi con un mega coro che si unisca a quello delle Mondine di Novi, ai Fiamma Fumana, Cisco e La casa del vento.
Ma non basta. Sperano che per quella data 100 bloggers offrano un piccolo spazio al ricordo del 25 aprile, perché questa data non sia retorica e polvere, ma una cosa vera, presente nella nostra memoria.
Chiunque può partecipare: con un post, o semplicemente mettendo sul blog il banner (scaricabile qui) o il link al sito delle mondine o in qualunque altro modo gli venga in mente.
Mentre preparo il mio post metto il link e il banner.

giunchiglie al sole


Il clima tempestoso di ieri mattina, mi ha invitata alla pigrizia, liberando il ricordo verso le Pasque della mia vita.
Di stampata nella mia memoria ce n’è una, di quando ero una bambina che muoveva incontro alla vita fiduciosa e incuriosita.
La passai a casa di nonna Agnese, la mia nonna materna, perché mia sorella, di soli due anni più grande di me, aveva una delle classiche malattie infettive da cui sul momento ero indenne e in quel periodo ero stata allontanata da casa precauzionalmente.
Per me era insieme una festa ed un’avventura. Adoravo, letteralmente, mio nonno Giulio, che faceva blocco, per me, con il suo cane Fido II, un pastore tedesco di natali un po’ incerti ma di cuore e mente gagliardi. Volevo bene anche a nonna Agnese, ma di fronte alla personalità di quel suo grande e autorevole marito, ai miei occhi sbiadiva un po’. Nonna era la sfoglia di pasta all’uovo stesa ad asciugare, l’odore del sugo con la carne in umido, il mormorio dei suoi rimbrotti, e la cura per gli animali che ospitava sul terrazzo.
Aveva una bellezza delicata, dei tratti aristocratici, un corpo minuto ed una fede cristiana molto scrupolosa. Amava tutte le tradizioni, che le comprendesse o no, e conduceva una infaticabile battaglia per la conversione di quell’uomo di fede comunista, che al cospetto di un prete digrignava i denti e che, di origine toscana, considerava la bestemmia un semplice modo di dar sfogo alle irritazioni provocate dalla vita quotidiana. Nonna era molto operosa, sempre intenta a qualche faccenda, si prendeva cura delle piante, di svariati animali, tra cui una tartaruga e, per un certo periodo, di una scimmietta, e aveva un sorriso felice per accogliere ognuno dei suoi otto nipoti. Quando mi svegliai, quella mattina di Pasqua, era già lì che trafficava intorno al tavolo della colazione, apparecchiato di bianco, con il giallo delle sue giunchiglie in un vaso e le uova colorate sul piatto con il bordino dorato, circondate dal salame in fette sottili. Aveva fatto il pane, evento eccezionale, e la casa ne restituiva il profumo.Non tradii il mio prediletto caffellatte, ma la tavola variopinta mi conquistò.
Dopo la colazione, uscii con mio nonno e con il cane, un giro nel quartiere, naso all’aria, la mano in quella di mio nonno, che aveva un concetto della sicurezza personale di sua nipote che manco Rudolph Giuliani. Qualunque sconosciuto si avvicinasse a meno di un metro di distanza dalla mia persona veniva fulminato dalla più minacciosa delle occhiate, mentre la mano stringeva un po’ più la mia.
Ci si sentiva importanti, anzi preziosi, oltre che assolutamente al sicuro, con nonno Giulio. Ma il giro doveva terminare presto, nonna era stata tassativa: quando si scioglievano le campane dovevamo essere a casa. Mio nonno era ateo ma tollerante, considerava la fede di mia nonna una pratica bislacca ma innocente e, amandola senza riserve, si assoggettava ai suoi imperativi. Almeno finché non scoppiava nelle sue famose collere che rimbombavano fin nelle scale del palazzo.
Tornammo con il giornale, puntuali, e passammo un po’ di tempo a spazzolare Fido in terrazzo. Questa era una pratica cui mi dedicavo ogni volta con entusiasmo. “Sul tavolo!”, comandava nonno e Fido con un balzo elegante montava sul tavolo di marmo. “A te la spazzola” e io iniziavo l’operazione che eseguivo con scrupolo ed orgoglio, scambiando, ma senza farmi vedere, qualche bacio con il cane entusiasta. Questo fatto delle campane che si scioglievano aveva del misterioso, ma chiestane spiegazione a nonno ne ricevetti il segno, accompagnato dallo scuotimento del capo, che riservava alle bizzarrie mistiche della moglie: un gesto arioso della mano nell'aria, che io interpretavo come "cose vaghe, fumose".
Poi nonna mi chiamò e mi fece inginocchiare accanto a lei, davanti alla finestra aperta. Entrava il sole, l’aria di aprile, e prima una, poi due, poi cento campane presero a suonare. Segno della croce e una preghiera che non ricordo ripetuta al seguito di nonna, finché nonno passando davanti alla stanza lanciò un grido: “Fai alzare quella bambina di lì!” Ricordo nonna che fa spallucce e la mano ferma di nonno sulla mia testa: “Vuoi alzarti?” Veramente stare in ginocchio non è che mi piacesse tanto, ma nel complesso era una pratica nuova e mi incuriosiva. “Ecco, è finita” protestò nonna e mi lasciò libera. “Lascia in pace le ragazzine, Agnese, te l’ho detto mille volte!” e nonna che borbottava, a bassa voce: “Ateo, peccatore, neanche a Pasqua!”
L’ateo e peccatore era un uomo onesto, leale, generoso, pulito nell’anima, scrupoloso verso il prossimo suo e dotato di una grande capacità di amore. Lei era docile, un po’ pettegola, maliziosa, ma buona e dotata anche lei di una grande capacità di amore.
Io li trovavo divertenti, quelle diatribe non mi impressionavano punto. A casa mia non accadeva nulla di simile. Questioni sul recitare o meno le preghiere, sull’inginocchiarsi o no, non si ponevano.
Mio padre considerava la Chiesa faccenda che non lo riguardava, mia madre, cattolica non praticante, ammesso che significhi qualche cosa e non sia solo una squisita ipocrisia, spediva noi a Messa, con la cameriera da bambine e poi da sole.
Tutto quel dramma familiare intorno a gesti e parole era per me interessante e movimentava i soggiorni in casa dei miei nonni. Infatti la sera nonna Agnese recitava il rosario e tentava di includermi nella sua pratica. Ma nonno minaccioso vegliava sulla libertà del mio spirito: “Se vorrà recitare il rosario lo farà a diciotto anni!” tuonava.

Il ricordo della mia Pasqua finisce qui. Immagino ci sarà stato il pranzo con gli zii ed i cugini, ma nella mia mente si è inciso solo quel frammento, io inginocchiata accanto a nonna davanti alla finestra aperta e l’onda del suono delle campane che viaggiava sul sole. Inserirò tra le mie Pasque "diverse" questa appena trascorsa.Il pranzo di Pasqua l'ho fatto in piedi, mentre sollecitavo il mio nipotino Tommaso, un po' influenzato, che sbocconcellava di malavoglia il suo. Lui ed io soli, còre a còre.
Se le campane ad un certo momento si siano sciolte, non lo so. Per me hanno suonato tutta la mattina.

lunedì 24 marzo 2008

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/otto


Sulle corna mettetevi il cuore in pace.
Le statistiche dicono che l’uomo tradisce più volte la stessa donna
mentre la donna tradisce una sola volta uomini diversi.
Fatevi due calcoli: i conti tornano.

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/sette


Se non riuscite a farci ridere, almeno fateci piangere.

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/sei



Non svenatevi per comprare Viagra.
Svenatevi e basta.

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/cinque


Se decidete di comprarci fateci un’offerta chiara.
La valuteremo tra le altre.

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/quattro


Non ci preoccupa che non abbiate la minima idea di come siamo fatte.
Ci preoccupa che non abbiate la minima idea.

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/tre


Se vi sembriamo irraggiungibili è il momento di osare.
Ci piace darvi torto.
Quando invece vi sembra fatta, è il momento di preoccuparsi.
Ci piace darvi torto.

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/due


Non preoccupatevi di sembrarci impacciati.
La vostra insipienza ci fa tenerezza.
Preoccupatevi piuttosto di sembrarci troppo disinvolti.
Non siamo pratiche da sbrigare.

a grande richiesta/consigli ai giovani uomini/uno


Volete corteggiare la nostra migliore amica?
Per garantirvi il successo assicuratevi che sia davvero la nostra migliore amica.

domenica 23 marzo 2008

consigli alle giovani donne/sei


Non ostinatevi a cambiarli. Non sono perfettibili.

consigli alle giovani donne/cinque


Se è molto più vecchio di voi, che il suo patrimonio sia almeno altrettanto antico.

consigli alle giovani donne/quattro


Se esita e traccheggia, spolveratevelo di dosso senza rimpianti.
Se non sa cosa fare di voi non sa neanche che cosa fare di se stesso.

Buona Pasqua con Dorothy "Dottie" Parker.



La storia di Dorothy Parker (1893-1967) è la storia di un double fâce letterario.

Da un lato la Dottie frivola ed eccentrica, tutta boa di struzzo e battute al vetriolo, che scrive articoli per Vanity Fair e Vogue e sceneggiature per Hollywood, beve Martini dal mattino presto ed ama i bei ragazzi più giovani di lei.
Dall’altro Dorothy, che scrive racconti feroci contro l’ipocrisia, la stupidità, la volgarità del mondo dei privilegiati, si batte per Sacco e Vanzetti e lascia i suoi beni a Martin Luther King.
E mentre Dottie scherza sulla sua fame di denaro, Dorothy muore con il cassetto colmo di assegni dimenticati lì e mai incassati.
Dorothy Parker è rimasta infilzata allo spillo del suo fascino, dei suoi sorrisi ironici e dei suoi cappelli stravaganti, mentre è stata un critico severo del suo lavoro di scrittrice ed una intelligenza lucida e persino severa. La sua costante tentazione per il suicidio (due veri tentativi) non fu meno vera per il fatto che ci scherzasse su.
Come in questa poesia, strafamosa.

Resumé.

I rasoi fanno male,
I fiumi sono umidi,
L’acido lascia tracce,
E le pillole danno i crampi.
Le pistole sono illegali,
I cappi cedono,
Il gas ha una puzza orrenda,
Tanto vale vivere.


Dorothy non l’avrebbe chiamata poesia. “Sono solo versi”, diceva, “buoni per una stagione”.
In Italia sono stati tradotti anche da Montale.


Io amo soprattutto i suoi racconti, dove l’ironia spumeggiante dei suoi “solo versi” diventa gelida e l’occhio che si posa sulla società americana è privo di indulgenza, scevro di ogni complicità.
Ma confesso che amo anche le sue poesie.
Semberebbero così leggere, se non fosse che Dorothy faticava a vivere e frequentava la scena letteraria americana come uno spettacolo obbligato.

Nel mio uovo di Pasqua per voi ci sono queste:
(Traduzione di Marisa Caramella)
Sintomi

Non mi piace il mio stato mentale,
Sono amara, querula e sgarbata.
Odio i miei piedi, odio le mie mani,
Non mi interessano le terre lontane.
Temo la luce dell’alba;
La notte, odio andare a letto.
Maltratto la gente per bene.
Non sopporto lo scherzo più blando.
Non trovo pace né in quadri né in libri.
Il mondo per me è spazzatura.
Sono disillusa, vuota e confusa.
Per quel che penso, dovrei stare in galera.
Non sto male, non sto bene.
I sogni di un tempo sono andati.
La mia anima è a pezzi, lo spirito duole,
Non mi piaccio neanche un po’.
Cavillo, litigo, mi lagno e mi lamento.
La casa mi sta stretta.
L’idea di un uomo mi fa star male...
Sono certo sul punto di innamorarmi di nuovo.


Epitaffio per una bella signora

Per lei il tempo era sabbia
Sospinta in vane spire,
Che le scivolava tiepida di mano
Ammucchiandosi qua e là.

Giorni luminosi, uno dopo l’altro
Rotolavano in un groviglio d’arcobaleno
Lei li sprecava con disinvoltura
E li gettava nella spazzatura.

Lasciate per lei una fresca rosa
Passate oltre e risparmiate la vostra pietà;
Lei è felice perché sa
Quanto le sue ceneri siano graziose.



So di essere stata felice

So di essere stata felice al tuo fianco;
Ma quel che è stato è stato, e basta.
Non fa bene crogiolarsi nel pianto...
Quel che lietamente visse, coraggiosamente morì.
Non comporrò canzoni per cuori infranti.
E tu, che sei uomo, non vuoi lacrime,
E se dovessi offrirti la mia fedeltà,
Saresti, credo, un po’ terrorizzato.

È questo il bisogno della donna, la sua condanna:
Allineare i suoi piccoli doni, e dare, dare,
Perché il palpito del dare è dolce.
A te, che non hai chiesto né voti né versi,
Il mio dono, finché avrò vita, sarà l’assenza,
Ma per dopo, amore mio, non posso prometterti nulla.

Il vestito di satin

Ago, ago, vieni e vai,
Dentro e fuori,
Quale uomo può renderti felice
Come un bel vestito di satin?

Ecco i punti serpeggiare
Intorno alle delicate cuciture...
Disegni teneri e piccoli
Come sogni di donna.

Il broccato è per le sfrontate;
L’organdis per le spose,
La cotonina per le fidanzate,
Il satin per le donne libere!

La lana fascia il petto dell’avaro,
Il crespo calma le vecchie,
Il velluto nasconde un seno vuoto
Il satin è per le donne audaci!

La batista è per il vescovo;
Il lino per la monaca:
Il satin per gente più in gamba...
Se il vestito fosse già pronto!

Il satin splende a lume di candela...
Il satin è per le orgogliose!
Chi lo vedrà nella notte
dirà, che bel sudario!


Dorothy si è meritata i suoi vestiti di satin.

sabato 22 marzo 2008

consigli alle giovani donne/tre


Sbirciate il passo con cui si allontana dopo avervi salutata.
Se è troppo sicuro, traditelo subito. Possibilmente la sera stessa.

consigli alle giovani donne/due


Non dimenticatelo mai.
Smettete di amarlo se volete, ma non dimenticatelo.
Più avanti nella vita vi sarà utile per chiacchierare con le amiche.

consigli alle giovani donne/uno


Diffidate.
Avrete sempre tempo per indulgere.
Intanto diffidate.
Ma prima di tutto diffidate di voi stesse.

venerdì 21 marzo 2008

tattiche e stategia


Finte. Tredici modi per sopravvivere ai morti.Di Paolo Teobaldi.
È un libro smilzo, un centinaio di pagine, uscito nel 1995.
Mi rivelò uno scrittore che dalla sua provincia, Pesaro, osservava il nostro paese e il suo trasformarsi, il suo farsi diverso che è così simile ad un disfarsi.
Il libro mi è tornato in mente passando sul Ponte Palatino, dove negli ultimi mesi in due differenti incidenti automobilistici hanno perso la vita due giovani.
Dopo il primo incidente dei mazzi di fiori furono appoggiati al muro del ponte; poi vi fu attaccata una foto. Poi un piccolo lumino comparve davanti alla foto. Poco distante apparvero altri mazzi di fiori, finti, per durare. Sabato scorso ho notato un piccolo tavolinetto, coperto di un drappo rosso. Sopra vi era una cornice con una foto, un vasetto con dei fiori e il lumino a forma di candela. Il piccolo altare occupa metà della profondità del marciapiede, già molto stretto. Immagino che anche qualche passante presto andrà a fare compagnia ai due sfortunati ragazzi, perché le macchine che vengono dal Lungotevere entrano a velocità sul ponte, diviso a metà nei due sensi di marcia e piuttosto pericoloso.
A me non piacciono gli innumerevoli sepolcri improvvisati che costellano le nostre strade. Capisco perfettamente il sentimento che spinge a questi gesti ma gli altarini non mi piacciono ugualmente. Inoltre spesso gli stessi che eressero i piccoli monumenti finiscono con il trascurarli e quelli diventano di una desolazione straziante.
Quando li vedo penso sempre a Finte.

Sono tredici storie che esemplificano il modo in cui, quando si perde qualcuno, si tenta di sopravvivere alla persona perduta. Il libro non si tuffa e non ci tuffa nel dolore, ci descrive invece delle tattiche, piccole tattiche fantasiose, in vista della grande strategia: come continuare a vivere.
Ci sono quelli che, perso un figlio, si riuniscono periodicamente con altri genitori per stabilire dei contatti con i figli morti.
Ci sono quelli che immobilizzano il tempo, lasciando la stanza del defunto come sotto vetro, in ogni minimo particolare.
Ci sono quelli che apparecchiano la tavola anche per il morto.
Ci sono quelli che portano sulle tombe piccoli oggetti cari al defunto e le addobbano continuamente.
Ci sono quelli che costruiscono cippi lungo le strade, attaccano mazzi di fiori agli alberi e foto sulle pietre miliari.
Non ve ne dico altri, li scoprirete da voi.
Il libro è scritto in un modo apparentemente non meditato, è una specie di inventario scritto in una lingua quasi colloquiale e dimessa, ma proprio per questo capace di prenderti dentro il suo ritmo pacato, di irretirti.

Da allora non ho mancato nessuno dei libri di Teobaldi.
“La discarica” -una satira impietosa della nostra società di consumatori, in cui per la prima volta appare una ironia sardonica- e poi “Il padre dei nomi”, “La badante”, “Il mio manicomio”.
Se pensate di leggerne uno solo, leggete il primo, Finte. Tanto so che poi leggerete anche il secondo. E per secondo leggete La discarica. C’è un uomo che si dedica minuziosamente ad una pulizia a fondo di una casa: pagine irresistibili.


Paolo Teobaldi

giovedì 20 marzo 2008

ancora Tibet



Petition to Chinese President Hu Jintao:

As citizens around the world, we call on you to show restraint and respect for human rights in your response to the protests in Tibet, and to address the concerns of all Tibetans by opening meaningful dialogue with the Dalai Lama. Only dialogue and reform will bring lasting stability. China's brightest future, and its most positive relationship with the world, lies in harmonious development, dialogue and respect.


E' possibile firmarla QUI

tibet



La diplomazia è una partita a scacchi in cui si dà scacco matto ai popoli.(Karl Kraus)

Accadrà così in Cina? In poche mosse tutto ripiomberà nel silenzio? Consegnata l'ultima medaglia d'oro delle Olimpiadi e firmato l'ultimo contratto (d'oro anche questo) i Tibetani saranno riavvolti dalle nebbie delle loro valli?

ricette e diritti umani

Martedì sera, passando davanti alla tv ho sentito la voce del papa dire "pasta con le straci" e mi sono fermata. Ma che sta dicendo? ho chiesto a mio marito. Ma quando il papa parla in tv mio marito dalla sua poltrona impreca preventivamente e pertanto non aveva sentito nulla. Me ne sono quindi andata al mio computer chiedendomi perché il Papa parlasse di cucina dal suo pulpito e come fosse questa pasta alle straci. E le straci, che erano? Straccetti? Boh.
Ho poi letto sul giornale che il povero (si fa per dire) uomo, aveva lanciato un meritevole appello al mondo: Basta con le stragi!
La cosa mi ha divertita, perché, politicamente corretto o meno, questi qui-pro-quo sollazzano reciprocamente tutti i popoli.

Però questa idea di una pasta con le straci mi intriga, devo trovare il modo di ricavarne un buon piatto.
Si accettano suggerimenti.

mercoledì 19 marzo 2008

i miei amici libri

Voglio presentarvi alcuni dei miei amici libri.
Fate finta di non vedere la foto di Totti accanto a quella dell'Efebo di Anticytera: avrete contraddizioni anche voi, no?











Che cosa dire dei miei libri? Che sento il bisogno di tenermeli vicini, che non li presto e non ne voglio in prestito, che li sottolineo e ci scrivo, rigorosamente a matita, che li catalogo religiosamente e che è l'unico lusso cui non potrei MAI rinunciare. Meglio la fame. Ah, sì: che non so più dove metterli.
Tanto per cambiare ne approfitto per consigliarvi un libretto delizioso. Si tratta di "La lettrice" di Annie François edito da Guanda.
Il sottotitolo è: Biografia di una passione.
Parla anche di me.

martedì 18 marzo 2008

Eddie Vedder - Into the Wild


Society


Society
hmmm ooh hooo hooo
It's a mistery to me
we have a greed
with which we have agreed

You think you have to want
more than you need
until you have it all you won't be free

society, you're a crazy breed
I hope you're not lonely without me

When you want more than you have
you think you need
and when you think more than you want
your thoughts begin to bleed

I think I need to find a bigger place
'cos when you have more than you think
you need more space

society you're a crazy breed
I hope you're not lonely without me
society, crazy and deep
I hope you're not lonely without me

There's those thinking more or less less is more
but if less is more how you're keeping score?
Means for every point you make
your level drops
kind like its starting from the top
you can't do that...

society you're a crazy breed
I hope you're not lonely without me
society, crazy and deep
I hope you're not lonely without me

society you're a crazy breed
I hope you're not lonely without me
society, crazy and deep
I hope you're not lonely without me


(From Lyrics Mania)

è del blogger il fin la maraviglia?

Di Cristina Comencini non avevo mai letto niente. Poi su consiglio di Chiara ho letto “Il cappotto del turco” e subito dopo “L’illusione del bene”.
In entrambi ho trovato qualche cosa che ha sollecitato la mia riflessione.
De “L’illusione del bene" parlerò in un’altra occasione”.


“Il cappotto del turco” è la storia del rapporto speciale tra due sorelle che la vita spesso separa ma che tornano sempre tenacemente ad aver bisogno l’una dell’altra.
In un dialogo fra di loro, verso l’inizio del libro, due battute le descrivono nella loro sostanziale differenza.
Dice Isabella a Maria: “Mi piacciono le persone diverse da me, Maria; voglio avere freddo per la strada e poi caldo accanto a Occhiobello e ascoltarlo parlare; mi piace sentire che non tolgo niente a nessuno, che la vita è di tutti; lì lo sento più che qui”. “Però lui non è molto gentile con te- le dissi, URTATA DAL SUO LIRISMO.”
E Maria tronca il discorso infastidita.
In quel momento delle due sorelle ne ho amata una sola. Quella che come me si era sentita urtata da quel lirismo. Quella che si esprimeva con la prosa e teneva i suoi slanci lirici per le briglie.
La frase che ha deviato di botto la mia potenziale identificazione da Isabella verso Maria, è proprio quella piccola frase, quel minuscolo inciso: “urtata dal suo lirismo”.

Il lirismo, al di fuori della lirica, in effetti mi irrita. Mi irrita nel profondo, non è solo una piccola idiosincrasia estetica, una prevalenza di gusto, una scelta letteraria o di stile. Non so bene perché. Il lirismo mi urta come mi urta l’enfasi, come mi urta lo stile fiorito e gli svolazzi, come mi irrita mio marito quando invece di dire “salgo in terrazzo” dice “mi arrampico” e se un minuto prima ridevamo in perfetto accordo mi viene istantaneamente voglia di farlo ruzzolare per le scale. Come mi urtano gli aloni, sia che siano fatti di bagliori di luce, sia che siano fatti di zone opache. Vado in cerca di esattezza, di chiarezza e di verità. Di misura.

Una ipotesi per questa mia idiosincrasia è che io senta nell’enfasi altrui una mia possibile tentazione, un’eco di un mio eccesso.
Quello che è certo è che io amo tutte le parole del mio vocabolario e ne amo l’uso libero e creativo, le dilatazioni o i capovolgimenti di senso. Ma nello stesso tempo sono infastidita fino nel profondo da quelli che io chiamo arzigogoli, dagli svolazzi, dalle fantasmagorie, dai luccichii, dal linguaggio che usa le parole come se fossero farfalle o fiori che si posano ad adornare il ramo del discorso. Soprattutto quando il ramo è sovraccarico e sembra troppo esile per sostenere tutto quel peso.
Mi piacciono le metafore, le similitudini, gli ossimori, non c’è figura retorica che non trovi ai miei occhi la sua ragione e il suo uso appropriato, ma mi capita di ritrarmi con una impazienza, un fastidio, un rifiuto decisi, da testi che sembrano tesi ad adornare, ad abbellire, a decorare. Il cui scopo finale sembra essere “la maraviglia”.



Giovan Battista Marino (1569-1625)

Ho scoperto recentemente che per me stabilire rapporti attraverso la scrittura comporta un piccolo passaggio in più. C’è un ponte da attraversare ed è la scrittura stessa. Una persona che si esprime attraverso quello che a me appare come uno stile fiorito mantiene una distanza forte da me. E solo a prezzo di grossi sforzi riesco a superare una istintiva diffidenza, un piccolo segnale che mi dice: attenzione ponte traballante, non procedere.
L’ho scoperto girando per blog. Apro la prima pagina, leggo un post, due.
Trovo scritture anche molto belle, temi interessanti, originali. Apprezzo, lascio un commento. Non apprezzo e abbandono lì, in una dimensione che non so immaginare.
Sicuramente è così per tutti. Tutti scegliamo sulla base di affinità, o, se abbiamo voglia di confronto e polemica, sulla base di opposizioni. Tutti ne abbandoniamo alcuni e torniamo su altri.
A posteriori io ho scoperto che quelli che abbandono hanno quasi sempre una caratteristica in comune: il tipo di linguaggio. Sia chiaro: non si tratta di scrivere bene o scrivere male. Ma di scelta linguistica.
Non c’è niente che riesca a farmi superare questo scoglio. Non una vicinanza politica, di storia personale, di sesso o di psicologia; non una comunanza di temi, di idee, di formazione. È sempre sul linguaggio che, anche inconsapevolmente, si sofferma la mia attenzione. Ed è sul linguaggio che si arena il feeling.

Se cerco nella mia storia personale credo di poter rintracciare almeno un paio di motivi.
Uno è che, essendo stata un’adolescente molto “lirica”, crescere ha significato per me anche abbandonare il lirismo e imparare che la realtà è di per sé così complessa e ricca che non ha bisogno di ulteriori “orpelli”.
Un altro è che, sballottolata fin da bambina da una circostante irrazionalità, ho da subito ricercato conferme e rassicurazioni nella limpidezza del linguaggio; come se la sua razionalità potesse compensare quella che mancava intorno a me.

Ma al di là di questo aspetto così personale mi colpisce la potenza del linguaggio anche nello stabilire nessi significativi tra le persone o nell’impedirli.
E mi chiedo: è così anche per gli altri?

lunedì 17 marzo 2008

figlia di mezzo/cinque/litania

Ho deciso di riprendere la serie "figlia di mezzo" che pubblicai nei primi giorni del mio blog.
Per tutti gli amici che sono venuti a farmi visita solo in seguito metto qui il link ai primi quattro, minuscoli, episodi.
Vi renderete conto che non seguono nessun ordine, né cronologico, né logico.
Vengono come e quando vogliono e li scrivo quando e come posso.

Nel grande ospedale cattolico dove l’urgenza e un consiglio amico avevano fatto ricoverare il Comandante, all’alba e al tramonto una preghiera litanica risuonava in ogni camera, a conforto di molti e a turbamento di alcuni.
Temendo che quel rito tecnologico fosse di fastidio per il paziente, la figlia di mezzo tentò maldestramente di manomettere l’impianto per ridurne il volume nella stanza. Infastidito dal suo trafficare il Comandante ne chiese spiegazioni e ottenutele liquidò rapidamente la faccenda dichiarando di aver già provveduto, attraverso l’astrazione, al suo personale silenzio.
Da quel giorno uscendo all’alba o entrando al tramonto nell’ospedale, mentre risuonava ovunque la preghiera, anche la figlia di mezzo smise semplicemente di sentirla e il più perfetto, il più assoluto e il più fresco dei silenzi ne lenì il tormento.
Della straordinarietà di quell’esperienza molto tempo dopo chiese spiegazione ad uno psichiatra che le confermò come in situazioni di estrema necessità, l’io umano possa ritirarsi in regioni irraggiungibili da qualunque suono.
Ma si mostrò comunque colpito dalla evidente estensione di quella forma di autotutela dal Comandante alla figlia di mezzo.

domenica 16 marzo 2008

free tibet


C'è sempre un popolo, una minoranza, un semplice, singolo, essere umano per il quale occorre chiedere libertà.
A Nord, a Sud, a Ovest e ad Est. Qualcuno ascolta?

arriva il Norouz



Nel blog della mia amica Nazanin troverete due bei post sul Capodanno iraniano, il Norouz, che si avvicina.
Sotto cultura iraniana
Uno, in data 18 marzo 2007 "felice anno nuovo(persiano) a tutti...
e uno in data 19 marzo 2007 "Norouz: anno nuovo iraniano"

Troverete anche la foto che ho scelto come introduzione.
Intanto approfitto per fare gli auguri di Norouz a Nazanin, alla sua famiglia, ai suoi amici, a tutte le/ i giovani iraniani in giro per il mondo, e a quel bellissimo paese. 

Se volete potrete rallegrarvi la tavola con almeno alcuni dei simboli del Norouz:
i primi teneri germogli di lenticchie, orzo o grano (se li mettete subito in un fondo di ovatta ed acqua, fate ancora in tempo), l'aglio, una mela rossa, l'aceto, il giacinto, qualche centesimo, uno specchio, una candela, qualche dolce e qualche frutto, un libro di poesia,(Nazanin autorizza a sostituire così il Corano) e al posto del budino iraniano magari una creme caramelle. Cavolo, mancano le giuggiole! Questo è grave perché rappresentano l'amore! Secondo me quelle caramelle di zucchero colorato che si danno ai bambini e che si chiamano appunto giuggiole, possono essere un buon sostituto. 
Manca anche il sommacco (Rhus), ma sinceramente non saprei con che cosa sostituirlo.
Ve lo metto in foto.


sommacco carsiano


giuggiolo e giuggiole

Poesia gentilmente offerta da Wislawa Szymborska


nuvole sulle Alpi-1986


Nuvole

Dovrei essere molto veloce
nel descrivere le nuvole-
già dopo una frazione di secondo
non sono più quelle, stanno diventando altre.

La loro caratteristica è
non ripetersi mai
in forme, sfumature, pose, disposizione.

Non gravate dalla memoria di nulla,
si librano senza sforzo sui fatti.

Ma quali testimoni di alcunché-
si disperdono all’istante da tutte le parti.

In confronto alle nuvole
la vita sembra solida,
pressoché duratura e quasi eterna.

Di fronte alle nuvole
perfino un sasso sembra un fratello
su cui si può contare,
loro invece sono solo cugine lontane e volubili.

Gli uomini esistano pure, se vogliono,
e poi uno dopo l’altro muoiano,
loro, le nuvole, non hanno niente a che vedere
con tutta questa faccenda
molto strana.

Al di sopra di tutta la tua vita
e della mia, ancora incompleta,
sfilano fastose così come già sfilavano.

Non devono insieme a noi morire,
né devono essere viste per fluttuare.

il sasso, le nuvole e la Picci- 1976