domenica 17 febbraio 2008

prima della 194/racconto

Ho osservato che ogni tanto qualcuno torna a pubblicare un suo vecchio post. Mi chiedevo quale ne fosse lo scopo. Ho capito che è perché alcune cose tornano di attualità e si sente il bisogno di ricordarle.
Così ho deciso di ripubblicare un post che risale a cinque mesi fa'. È un racconto, ma è fatto solo di verità.

Le femministe.

“Non andarci da quel macellaio- le disse Daniela- dammi retta. Non è per i soldi, te li presto volentieri, ma da quel macellaio no, non ci devi andare. Quello ci si ingrassa e ti tratta pure male.Vai dalle femministe, ti aiuteranno loro.” E le dette l’indirizzo. “Le femministe? Quelle che gridano per le strade, che vanno sui giornali? Sei pazza, te e loro” le disse suo marito. Ma R. gli rispose che costava poco e poi almeno era una vera clinica. “Fa’ come vuoi, sei tu che ci devi andare” chiuse lui.
Era una strada tranquilla, vicino al fiume. Un piccolo appartamento al piano terra. Prima di entrare R. esitò. Come erano le femministe? C’erano già altre donne. Stavano messe come lei, lo capì subito dagli sguardi. Erano come il suo, c'era dolore, paura, vergogna. Le femministe, invece, non erano come se le aspettava, erano normali, ecco. La accolsero sorridendo, pratiche, allegre. Le sembrarono così forti, così sicure.
Lei invece aveva paura. Di tutto. Aveva paura e si sentiva male, non vomitava ma tutto il giorno aveva la nausea. Si svegliava all’alba, per un rigurgito di acidi fino in gola, si tirava su e piangeva, in silenzio. Suo marito dormiva. Anche il bambino dormiva. La casa era fredda e silenziosa. Lei piangeva un po’, poi si alzava. Non mangiava quasi niente e dimagriva. Era pallida e sempre sudata. Il medico della mutua l’aveva rimproverata. “Ti avevo detto che per te figli basta! Benedette donne, ma che avete al posto del cervello?” Però quando lei gli aveva chiesto un nome, qualcuno da cui andare, uno bravo, ma che non prendesse troppo, si era scurito, le aveva risposto che lui non conosceva nessuno, colleghi che facessero aborti, no, lui non li conosceva. E le aveva segnato il ferro. “Mangia -le aveva detto- e fatti cambiare turno.”
Loro, le femministe, le fecero poche domande: “Quante settimane? Hai bisogno di soldi? Ce la fai? Sì, ce la faceva, le sembrò anzi poco. Com’era possibile? Quel dottore voleva quattro volte di più.
“La settimana prossima allora. Appuntamento in aeroporto, alle nove. La nostra compagna M. vi accompagnerà, non dovete preoccuparvi di niente. Se non avete il passaporto ci pensiamo noi. C’è una cosa, importante: non dovete farvi accompagnare da uomini. Né mariti, né compagni, fratelli, amanti, padri. Niente uomini, è chiaro?” Sì, era chiaro.
Partì sola. La sua amica Daniela avrebbe voluto accompagnarla, ma come faceva con i bambini? Era la prima volta che R. prendeva un aereo, che entrava in un aeroporto. Era grande, pieno di voci. Si sentiva stordita. Ma M. la loro accompagnatrice, era sorridente, e aveva già imparato i loro nomi. Le fece ridere: "Non vomitate tutte insieme perché se no ci arrestano!"
A Londra faceva freddo, il pullman che le aspettava aveva i finestrini appannati e non si vedeva niente. La clinica era fuori città, intorno tutte costruzioni di mattoni rossi. Le fecero aspettare in una stanza mentre M. parlava con una impiegata, consegnava le schede con i nomi, i documenti e il certificato con le settimane indicate. Loro non dovettero fare niente: seguivano come un piccolo gregge spaventato. Un’infermiera che parlava un po’ di italiano le accompagnò al piano di sopra. Scherzava: qui niente O ssole mio, vero? Le divisero, quattro per stanza. Erano stanze grandi, molto calde, con enormi finestre, le pareti e i pavimenti erano verdi. In ogni stanza c’era un telefono a gettoni. M. portò i gettoni. “Volete telefonare a casa?” Ma R. non telefonò. Suo marito era in officina e sua madre non sapeva niente di niente.
Passarono il pomeriggio chiacchierando, leggendo qualche giornale, raccontandosi le loro storie. Qualcuna pianse, qualcun’altra spavalda rideva. Verso le sei portarono il tè e dei panini, della frutta sciroppata, troppo dolce. Lei si girò nel letto tutta la notte, senza riuscire a dormire. Sentiva le altre sospirare e girarsi, ma nessuna parlò.
Gli interventi iniziarono il mattino dopo, molto presto. Scesero nella sala operatoria due per volta. A ognuna di loro avevano dato una specie di grembiule di cotone bianco, che si chiudeva dietro con dei laccetti e ognuna portava la sua scheda con sé. Sotto il grembiule solo le mutandine. Lei sentiva freddo o forse era la paura. Ma sul pianerottolo, M. le abbracciò, una per una. A lei tirò leggermente la coda di cavallo. “Tranquilla- le disse- fra poco ci rivediamo”.
Si svegliò sentendo cantare. Non capì dove era, poi si ricordò. Sentì le lacrime scorrerle sulla faccia e richiuse gli occhi. C’era un sole pallido che entrava dai finestroni e la ragazza nel letto accanto al suo si lamentava, ancora mezza addormentata. R. Restò così, con le braccia sotto le coperte, ferma, piangendo in silenzio. Quando portarono il pranzo lei disse “No, non ho fame”. Ma l’infermiera restò accanto al letto finché non ebbe mangiato tutto il pollo e le carote lesse.
Passò il pomeriggio senza pensare a niente, le altre si erano un po’ rianimate, solo quella vicino a lei pianse fino a sera. Tornò M. con i gettoni e lei chiamò suo marito. “Come stai?-le chiese- Fa freddo? Il bambino sta bene.” Più tardi passarono con delle gocce per aiutarle a dormire. R. le mandò giù senza dire niente, ma lo sapeva che tanto era inutile, non le facevano nessun effetto. Sentiva un peso sul petto ma non piangeva più. Pensava al suo bambino, che l'aspettava a casa. "Gli voglio comprare quell’astuccio con la lampo". Fu l’ultimo pensiero, poi si addormentò, di botto.
Il mattino dopo, alle otto, erano già sul pullman per l’aeroporto e a mezzogiorno sbarcarono a Fiumicino. Al momento di salutare le altre R. si sentì sola, non avrebbe voluto lasciarle. Alcune presero un tassì, altre trovarono i mariti ad aspettarle. Lei ed M. presero il pullman per il terminal. In città si salutarono e questa volta le venne da piangere. M. l’abbracciò: "Pensa solo a stare bene- le disse guardandola negli occhi- solo a stare bene". Sorrideva, incoraggiante, ma anche lei aveva gli ochi lucidi.
“Questi viaggi non li posso più fare” si disse, guardando la figuretta di R. che si allontanava.

11 commenti:

  1. Non sapevo che tu scrivessi racconti. Forse perché 5 mesi fa non ti conoscevo ancora.
    E' molto bello e, purtroppo per tutte noi, molto attuale.

    Un abbraccio.

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  2. Grazie Dama verde, sei una vera dama ;-)
    marina

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  3. Grazie per questo racconto. Spero non ti dispiaccia ma l'ho copiato e penso di pubblicarlo domani o comunque nei prossimi giorni anche sul mio blog.

    Non so se conosci il blog di Gianluca Pistore, un ragazzino con idee... diciamo molto diverse dalle nostre...

    Oggi ha promesso di pubblicare un articolo contro l'aborto sul suo blog www.gianlucapistore.com e penso sia giusto contrastarlo civilmente.

    Puoi anche vedere la nostra discussione sul blog di Alessio (vedi post di ieri su Berlusconi).

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  4. Sì, molto bello, ma soprattutto straziante. Alle donne è stato dato un dono e una condanna.

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  5. Ciao Marina, come preannunciato Gianluca Pistore ha appena pubblicato il suo post contro l'aborto. Sarebbe bello se tu postessi aggiungere un commento, io non sono molto esperto in materia.

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  6. ciao Marcouk, vado a leggere e commentare
    marina

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  7. a Marcouk, ho letto il post che mi hai segnalato e ho lasciato un commento. Che modo orribile di fare propaganda contro la 194!
    ciao marina

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  8. Grazie Marina, l'ho letto e sono pienamente d'accordo; come non esserlo! Domani copierò il tuo racconto (con il tuo permesso), anche sul mio blog.
    Buona serata.

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  9. Non mi devi ringraziare Marco, l'ho fatto volentieri.
    E grazie di pubblicare il mio racconto.
    buona serata anche a te marina

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