sabato 2 febbraio 2008

il contributo di Zagrebelsky

L'ex Presidente della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, è intervenuto, con un articolo su la Repubblica, sulla polemica creatasi intorno alla legge 194.


"In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della democrazia, quale è propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è, per ciò stesso, indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò stesso una posizione dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di sicurezza circa le proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio, riguarda dunque anche la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, "la 194", che pur ha dalla sua due sentenze della Corte costituzionale e un referendum popolare.

Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario delle parole d’ordine a effetto, che fanno confusione, servono per "crociate" che finiscono per mettere le persone le une contro le altre. Lo slogan "moratoria dell’aborto", stabilendo una "stringente analogia" (cardinal Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto, accomunati come assassinii legali, ha sì riaperto il problema, ma in modo tale da riaprire anche uno scontro sociale e culturale che vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della vita contro i fautori della morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i secondi, intossicati dal famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un nuovo fronte di quello "scontro di civiltà" che, molti insofferenti della difficile tolleranza, mentre dicono di paventarlo, auspicano.

Siamo di fronte, come si è detto, a una "iniziativa amica delle donne"? Vediamo. La questione aborto è un intreccio di violenze. Innanzitutto, indubitabilmente, la violenza sull’essere umano in formazione, privato del diritto alla vita.

Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa, questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione, solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è l’orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello scandalo, scartata e male o punto tollerata. D’altra parte, non solo la gravidanza, ma l’aborto stesso, percepito come via d’uscita da situazioni di necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna, costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C’è poi un potenziale di somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L’iniqua ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si avvalgono, come loro mezzo, dell’aborto.

Violenze su violenze d’ogni origine, dunque: violenza della natura sulle società; delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull’essere indifeso ch’essa porta in sé. E’ certamente una tragica condizione quella in cui il concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza. Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire che l’aborto, nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli, provocata da una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a quando essa patisce la crudeltà della natura e l’ingiustizia della società; una condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo all’ultimo anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai potuto cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un ulteriore carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.

In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è capitale per capire di che cosa parliamo.

Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l’aborto come strumento di controllo demografico e di selezione "di genere". Un celebre scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review of Books del 1991, ha richiamato l’attenzione sul fatto che «più di 100 milioni di donne mancano all’appello». Si mostrava lo squilibrio esistente e crescente tra maschi e femmine in Paesi come l’India e la Cina (ma la questione riguarda tutto l’estremo Oriente: quasi la metà degli abitanti del pianeta). Si prevede, ad esempio, che in Cina, nel 2030, l’eccesso di uomini sul "mercato matrimoniale" potrebbe raggiungere il 20%, con drammatiche conseguenze sociali. Le ragioni sono economiche, sociali e culturali molto profonde, radicate e differenziate. Le cause immediate, però, sono l’aborto selettivo e l’infanticidio a danno delle bambine, oltre che l’abbandono nei primi anni di vita. In quanto, però, vi siano politiche pubbliche di incentivazione o, addirittura, di imposizione, la richiesta di "moratoria" ha certamente un senso. Si interromperebbe la catena della violenza al livello della cosiddetta bio-politica, con effetti liberatori.

E diverso, in riferimento alle società dove l’aborto non è imposto, ma è, sotto certe condizioni, ammesso. "Moratoria" non può significare che divieto. Per noi, sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe sanzioni. Questo esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non consentirlo. Ci si limita a chiedere la "revisione" della legge che "regola" l’aborto. Ma l’obbiettivo è quello, come la "stringente analogia" con l’abolizione della pena di morte mostra e come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna legge giusta che regoli l’aborto».

Qual è il punto della catena di violenza che la "moratoria" mira a colpire? E’ l’ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e il concepito. Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è facile dire: l’inerme, il fragile, l’incolpevole deve essere protetto dalla legge, contro l’arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto debole rispetto a tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali, economiche, incombenti su di lei. La legge che vietasse l’aborto finirebbe per caricarla integralmente dell’intero peso della violenza di cui la società è intrisa: un peso in molti casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di chi concepisce la maternità come preminente funzione biologico-sociale che ha nell’apparato riproduttivo della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze», appunto. Si comprende, così, che la questione dell’aborto ha sullo sfondo la concezione primaria delle donne come persone oppure come strumenti di riproduzione. E si comprende altresì la ribellione femminile a questa visione della loro sessualità come ufficio sociale.

«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto gravarla di tanto peso, ha detto la Corte costituzionale in una sua sentenza del 1975, la n. 27. Convivono due soggetti, l’uno dipendente dall’altro, entrambi titolari di diritti, potenzialmente in contraddizione: tragicamente, la donna può diventare nemica del concepito; il concepito, della donna. Da un lato, sta la tutela del concepito fondata sul riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie», trattandosi di chi «persona deve ancora diventare». Dall’altro, sta il diritto all’esistenza e alla salute della donna, che «è già persona». Il riconoscimento pieno del diritto di uno si traduce necessariamente nella negazione del diritto dell’altro. Per questo, è incostituzionale l’obbligo giuridico di portare a termine la gravidanza, "costi quel che costi"; ma, per il verso opposto, è incostituzionale anche la pura e semplice volontà della donna, cioè il suo "diritto potestativo" sul concepito (sent. n. 35 del 1997). Si sono cercate soluzioni, per così dire, intermedie, ed è ciò che ha fatto "la 194", prevedendo assistenza sanitaria, limiti di tempo, ipotesi specifiche (stupro o malformazioni) e procedure presso centri ad hoc che accompagnano la donna nella sua decisione: una decisione che, a parte casi particolari (ragazze minorenni), è sua. La donna, dunque, alla fine, è sola di fronte al concepito e, secondo le circostanze, può essere tragicamente contro di lui. Qui, una mediazione tra i due diritti in conflitto (della donna e del concepito) non è più possibile: aut aut.

Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice "non negoziabili": l’autodeterminazione della donna contro l’imposizione dello Stato; la procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o principalmente pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato o come persona umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei disastri sociali (l’aborto clandestino) o come testimonianza di una visione morale della vita. Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della società incentrata sui suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità, e un’altra concezione incentrata sull’organismo sociale, i cui componenti sono organi gravati di doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire, allo stato puro nel caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto, quando non possibile salvare e l’una e l’altra: la sensibilità non cattolica più diffusa dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale cattolica dice: prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.

Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la nascita d’un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di tutto questo dipende l’aborto "di necessità", che – si dirà - è però una parte soltanto del problema. Ma l’altra parte, l’aborto "per leggerezza", troverà comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di procurarselo, indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile che di necessità e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più deboli, spinti dalla necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale della criminalizzazione e delle intimidazioni morali, come l’equiparazione dell’aborto all’omicidio e della donna all’omicida. La sorte dei concepiti non voluti si consumerà ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine, nell’umiliazione e nel rischio per l’incolumità. L’esito del referendum del 1981 che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato "la 194", dipese di certo dal ricordo ancora vivo di ciò che era stato l’aborto clandestino. Ci si può augurare che non se ne debba rifare l’esperienza, per ravvivare il ricordo.


A me sembra un intervento molto ragionevole. Ho sussultato all'accenno all'aborto "per leggerezza". E ho cercato di ricordare almeno un caso, di cui sia venuta a conoscenza, di aborto "per leggerezza". O "con leggerezza". O "da leggerezza". O che comunque avesse qualche cosa a che fare con la leggerezza. Ma ringrazio ugualmente l'ex Presidente della Corte Costituzionale per il suo intervento a favore, non dell'aborto, ma della dignità della donna come persona e non come mezzo di riproduzione della specie.

9 commenti:

  1. la moratoria sull'aborto e' un tema molto delicato...
    personalmente sono a favore solo nei casi di aborti per leggerezza, ma se si parla di gravidanze dovute a : violenza carnale, mancata possibilita' economica, e tanti altri problemi che spingono le madri ad abortire, sono a favore dell'aborto..
    credo che se una donna vuole abortire nessuna religione ne' legge puo' farle cambiare idea,tutto dipende dai propri valori morali..

    ciao marina

    buon week end...

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  2. L'avevo letto. E' un intellettuale molto serio. Ho avuto modo di sentirlo qui a Torino e mi è piaciuto molto, Giulia

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  3. Il ragionamento, ridotto ai minimi termini, mi sembra si possa esprimere così: "A parità di diritti, vengo prima io (donna) di te (embrione)". Questioni di prospettiva.

    Però ammetto che suona molto meglio come la esprime Gustavo. Tutta un'altra figura :P

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  4. Lettura interessante con riflessioni da tenere in considerazione.
    Roberto

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  5. A fine anni '60 e primi anni '70,nacquero i movimenti femminili e femministi....tra le varie esigenze che avevano, una primaria era espressa dalla frase "il personale è politico!".Sulla scia di qsta affermazione crebbero (semplificando molto il discorso)tutti i movimenti di autodeterminazione femminile.
    Nn c'è niente di + xsonale x 1 donna,il suo "essere donna" la sua capacità generativa,su cui credo nn vi si possano mettere leggi che limitino la sua possibilità di scelta.
    E credo che nn dimenticare la tragica "normalità delle "mammane" di quei tempi dovrebbe farci riflettere.
    Io credo che difficicilmente si possa parlare di leggerezza,xchè l'aborto cmq è 1 taglio che avviene nella vita di 1 donna,che le lascia il segno.
    Su una maggiore educazione....qlla ne avremmo tutti di bisogno.

    Grazie x la tua ospitalità e x il post che scatena tante riflessioni.
    buon fine settimana!

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  6. ciaooo....sappi che tu non hai bisogno di autorizzazioni;) sai come siamo noi iraniani, quindi, il mio blog e' anche tuo. un bacione

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  7. ciao master, forse il tuo pensiero suona ancora meglio detto così: io affermo il mio principio di generico diritto alla vita, sulla pelle del feto e della donna. E mi dà pure gusto.
    temo che siamo arrivati a questo se non si riconoscono neanche le posizioni più aperte e problematiche! ogni volta che due diritti vengono in conflitto operiamo una scelta. Ammesso e NON concesso che i due soggetti in causa siano portatori dello stesso diritto, ti sei chiesto perché preferisci che quello della donna venga subordinato?
    ciao marina

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  8. cara desaparecida, mi chiedo se questi tuoi concetti diventeranno mai senso comune nel nostro paese. Forse lo sono fra la maggior parte delle donne, ma chi fa le politiche va dritto per la sua strada e le donne preferisce usarle. Se poi occorre, si calpestano!
    ciao marina

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  9. Ciao Marina! Questo post è di qualche giorno fa, ma, pur avendo letto avidamente (e tutto d'un fiato tutti gli altri tuoi ultimi post, tutti molto interesanti, ti commento qua, perchè il tema che poni qui in evidenza è di quelli che mi prendono..nel profondo..Le argomentazioni di G. Zagrebelsky sono sempre ineccepibili..ponderate..razionali e autorevoli..Di solito compro e leggo sempre "la Repubblica"..ma proprio quel giorno no..Dunque grazie per aver riportato tu, qui, questo articolo..Non c'è bisogno di dire che sono d'accordo con quanto Z. afferma su tutta la linea..Io, oltre a non saper argomentare così bene, sarei troppo emotivamente coinvolta, come donna, e..userei toni involontariamente eccessivi..dunque poco utili ad un dialogo..Ma, al di là dei modi che io, o altre donne, potremmo avere, la cosa importante è che si aprano gli occhi su questi tentativi di strumentalizzazione, anche da parte della chiesa, del sacrosanto diritto alla vita, per imporre un controllo sulla donna.. donna/contenitore a contenuto "obbligato"..
    Un caro saluto,
    Frida

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