mercoledì 5 dicembre 2007

lacrime pubbliche dolore privato

Ieri mattina, in strada, ho visto venire verso di me una donna bionda di una quarantina di anni. Le lacrime le scorrevano sulle guance, aveva gli occhi rossi e la faccia stravolta. Negli ultimi due passi, prima di incrociarla, d’istinto ho pensato di fermarla, di chiederle se stesse bene e se potessi fare qualche cosa per lei; nell’ultimo metro ho pensato che forse voleva solo essere lasciata sola al suo pianto e non essere infastidita da una perfetta sconosciuta. Quando ci siamo incrociate, io ho abbassato lo sguardo per non metterla in imbarazzo. Nei due passi successivi, dopo essermela lasciata alle spalle, mi sono chiesta, come sempre in circostanze analoghe, quale sia davvero il comportamento giusto e come sempre non sono riuscita a darmi una risposta. Penso che se camminassi per strada piangente (mi succedeva un tempo, lacrime silenziose, niente singhiozzi) vorrei solo diventare invisibile ai più. Ma non siamo tutti uguali e possono esserci persone sollevate dalla parola gentile di un’estranea. Ogni volta comunque resto scontenta di me.

Mi è poi tornata in mente una mattina in cui uno sconosciuto si è rivolto a me e al mio pianto con atteggiamento empatico. Nell’ospedale molto cattolico in cui mio padre moriva, dove due volte al giorno risuonava l’Ave Maria, avevo un’ennesima volta sbattuta la faccia contro la perfetta disumanità del personale tutto, dai medici, agli infermieri, agli inservienti, alle religiose. Un supplemento di crudeltà da cui era impossibile non essere sopraffatti. Un ospedale, ho imparato in quell’occasione, è un luogo perfetto in cui i sadici possono sfogare il proprio istinto.
Seduta su una panca a margine del bar dell’ospedale, abbandonata contro la parete, piangevo in un crollo psicologico, né mi accorsi che qualcuno mi si era seduto vicino. Poi una mano si posò sulla mia. E una voce gentile mi interpellò: Che succede signora? Posso aiutarla? La frase ebbe l’effetto di far aumentare il mio pianto, mentre scuotevo la testa in un No, no, muto. L’uomo aveva ritirata la sua mano, ma era chino verso di me. È sola? mi chiese. Feci cenno di sì. Ha qualcuno malato qui? Ancora -sì, mio padre-. Mi dispiace-. E non sembrava una frase di circostanza. Non ricordo le altre battute di apertura del nostro dialogo, ma so che piano piano gli parlai della mia vicenda. E gli dissi quanta mancanza di sensibilità, rispetto, compassione, quanta crudeltà in definitiva, incontrassi ogni giorno in quel posto. -La capisco mi disse. Ha ragione.- Era un giovane medico, specializzando in psichiatria. Mi disse: "Sa che ci sono giorni in cui penso di non voler avere più niente a che fare con questo ambiente, di buttare via tutti gli anni di studio per non trovarmi più tra questa gente? Eppure io sto a psichiatria, dove in teoria dovremmo capire il dolore delle persone!". Parlammo forse una decina di minuti, non di più, ma mi bastarono per ritrovare il controllo delle mie emozioni e un po’ di fiducia negli esseri umani. Quindi lo ringraziai e ripresi la via delle scale. Prima di presentarmi a mio padre, mi lavai la faccia e, grazie a quel breve incontro, riuscii a sorridere.

Dopo sedici anni di quell'uomo ricordo perfettamente gli occhi, la faccia e la voce. Ma soprattutto la cura delicata con cui si occupò di me. Quanto mi dispiacque in seguito di non aver chiesto il nome a quel medico così “medico”!
La parola “medico” è una parola bellissima. Significa, “che ha potere curativo”, viene dal latino “medèri” medicare, curare, ma anche “venire in aiuto, provvedere, rimediare, lenire”. È questo secondo significato che, coloro che hanno a che fare con i corpi sofferenti di uomini e donne, dovrebbero tenere a mente. Perché quei corpi sono abitati da qualcosa che ognuno può chiamare come vuole ma che nessuno dovrebbe ignorare.

Il ricordo mi ha fatto pentire di non aver interpellato quella donna piangente.

7 commenti:

  1. Neanche io l' avrei fermata la signora piangente, perchè a me, nelle sue condizioni, non avrebbe fatto piacere. Io detesto mostrare il mio dolore, mi fa sentire ancora più fragile. Non ho paura di soffrire, ma forse dovrei imparare a non vergognarmi del mio dolore. Comunque, per la cronaca, sto molto meglioooooooooo!!!!!!
    E sono contentissima di questo....quasi felice :-)

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  2. L'ultima volta che hai soccorso qualcuno, ti ha trascinata in tribunale.

    La penultima, ti sei beccata una denuncia per omissione di soccorso.

    Ancor non sei tu paga?
    ancor non prendi a schivo?

    ammirevole! e lo dico senza ironia. Mi ricordi "la cambio io la vita che, non ce la fa a cambiare me....là là là ..." do you remember Patti Pravo?

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  3. E' davvero impressionante quando ci piomba addosso come un tir il dolore degli sconosciuti e non possiamo far nulla per schivarlo (tipo spegnere il televisore oppure cambiar canale).
    Ci rendiamo conto di quello che già sappiamo (e che tendiamo a dimenticare): la linea di confine tra il benessere e il dolore si varca in un attimo, basta un momento per oltrepassarla. http://lucianoidefix.typepad.com

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  4. Come al solito quando scrivi emozioni moltissimo. Trasmetti tutto e benissimo.

    Purtroppo molte persone non sono portate per certi lavori (un altro delicatissimo è l'insegnante, ma di lavori delicati ce ne son moltissimi) e finiscono con l'umiliare l'altro valore morale di una professione. Quel medico gentile e sensibile invece sarà sicuramente un grandissimo psichiatra.

    L'atteggiamento giusto da adottare purtroppo ahimè non esiste. Lo dico un po' con delusione, ma al contempo anche con accettazione serena di questo dato di fatto.
    Non esiste. Perché nei rapporti umani le variabili sono infinite, quindi non si può fare mai uuna regola che vale sempre. Cambia la persona che sta male e cambiano quindi sia il carattere che il mmento che vive. Ma può essere diversissima anche la persona che invece dovrebbe consolare.
    Non è da escludere che un tentativo più rozzo di quello messo in atto dal gentile specializzando ti avrebbe potuto irritare e far fuggire via.

    E' difficile. Forse dovremmo avere solo cuore, tatto estremo e sensibilità, agendo di conseguenza.
    L'umanità vince quasi sempre.

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  5. Siete tutti molto saggi, ognuno ha detto almeno una frase importante.Oggi voglio proprio credere che l'umanità vinca sempre, e tolgo pure il "quasi" di Luigi.

    Mi terrò a mente la sottigliezza della "linea di confine" di cui parla Luciano e mi sentirò assolta dal commento di Anna. Intanto mi congratulo con lei perché sta bene e va alla grande.

    Quanto a Blonde, debbo ammettere che io ho sempre avuto , di fondo, questo atteggiamento di onnipotenza e di testardaggine insieme che mi fa dire proprio così: La cambio, IO, la vita che/non ce la fa a cambiare ME.
    La vita non l'ho cambiata, ma neanche lei ha cambiato me. A questo ci tengo.

    abbracci a tutti marina

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  6. Non so se l'avrei avvicinata, dipende... Spesso è importante essere nella situazione e se tu non l'hai fatto è perchè lei, in qualche modo, non te l'ha chiesto.Un abbraccio, Giulia

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  7. Capisco perfettamente il dilemma. Io penso che avrei sempre piacere che qualcuno mi dicesse qualcosa pero' capisco che talvolta invece non si voglia parlare.
    Secondo me voler intervenire non e' onnipotenza, secondo me e' umana solidarieta'.
    E'vero che si puo' non essere apprezzati...

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