giovedì 27 dicembre 2007

Depressione/nove/in società "il depresso" sta scomodo

Oltre alle discipline scientifiche-di cui ci occuperemo separatamente e diffusamente-tutte le discipline umane hanno cercato di spiegare il misterioso problema sociale della depressione: vi si sono applicati sociologi, psicologi, psicanalisti, economisti, statistici.
E sono proprio le cifre a definirlo come problema sociale. Cifre impressionanti.
Non le citerò per esteso, ma il rapporto Global Burden of Disease dell’ O.M.S.(Organizzazione Mondiale della Sanità) indica che la depressione, quarto problema di salute nel 1990, sarà il problema numero uno nel 2020, vale a dire che assorbirà il 6% del peso totale delle spese nel settore sanitario.
La posta culturale in gioco nel confronto tra le discipline umane e quelle scientifiche, è molto alta, poiché da essa dipende l'idea stessa di essere umano, in pratica tutta l’antropologia. Le domande cui si tenta da parte di queste discipline di dare risposta, sono: L’uomo è forse una macchina il cui comportamento è comandato esclusivamente dalle reazioni psicochimiche? Oppure è un animale sociale che dipende innanzitutto dall’organizzazione globale della società? O ancora: è forse una unità psicologica, governata da forze psichiche individuali sia a livello conscio che inconscio? E, se sì, qual è la natura di queste forze psichiche?

Queste domande trovano risposte diverse tra gli esperti delle varie discipline, ma a parte la consatatazione che la società moderna, caratterizzata da libertà, narcisismo, permessività e consumismo resta ansiogena, non si sono raggiunte altre certezze.
In ogni caso la società contemporanea non contribuisce ad alleggerire la condizione di vita della persona affetta da depressione.
L’atmosfera edonistica e narcisistica predominante, che erge a valore supremo la realizzazione di sé e la ricerca, se non della felicità, almeno del piacere immediato è radicalmente ostile a qualunque forma di tristezza, patologica o meno che sia.
La depressione è inoltre stigmatizzata in diversi modi, alla stregua di un AIDS spirituale. I colloqui per le assunzioni sono spesso mirati a rilevare i minimi segni di tristezza. La gioia di vivere e l’entusiasmo sembrano far parte delle competenze professionali. Inoltre il costo sociale della depressione (assenze dal lavoro, bassa produttività, cure continue) viene additato come peso della persona depressa sulla società. In più gli si fa carico della influenza nefasta che questi soggetti eserciterebbero sull’entourage sia familiare che professionale.
La persona affetta da depressione è una persona incompresa. Il linguaggio svela chiaramente il disvalore attribuito a questa patologia e a chi ne soffre. Il malato viene indicato sbrigativamente come “il depresso”. Nel linguaggio colloquiale capita di sentir dire: quello è un depresso, come facendo riferimento ad una sub-categoria umana. Ancora troppo spesso la società considera la depressione come una mancanza di volontà, un lasciarsi andare colpevole, un abbandono delle responsabilità. Si muovono le accuse di egocentrismo e incapacità di adattarsi alla realtà. Questa colpevolizzazione è un peso supplementare che la persona affetta da depressione deve sopportare.
La società dei vincenti è impietosa nei confronti dei loser. Contemporaneamente si passa sotto silenzio un fatto che continua ad essere vero dagli albori della civiltà della parola. E cioè che “Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno”. Lo affermava Antonin Artaud.

Antonin Artaud

Forse in questo atteggiamento della società c’è anche il riflesso di un timore. Il timore che “il depresso” possa avere ragione a proposito del mondo e della vita. Il sospetto che sia portatore di maggiore lucidità lo rende inviso, come una moderna Cassandra.
La nostra società non ha bisogno di dubbi o verità spiacevoli ma di efficienza.
È per questo che, al di là della estrema volgarizzazione, in decine di talk-show, della condizione esistenziale della persona depressa e di tutti gli ipocriti discorsi di accoglienza, le persone affette da depressione vengono stigmatizzate. In tutti i mezzi di informazione si sente continuamente definire “depressa” una persona che ha compiuto un omicidio in uno stato alterato.
Ed è anche a causa del timore che si passa a definire “depresso” chiunque denunci il male di vivere come condizione esistenziale dell’uomo. Categorizzare tutti e subito come “difettosi” significa rassicurarsi nelle proprie certezze. Le stesse che il malinconico definirebbe illusioni.
Nell’additare il dovere della superficialità e della felicità la società moderna contribuisce a generare stati di profonda insoddisfazione e depressione in senso lato in chi non riesce, anche per cause indipendenti dalla sua volontà e dal suo impegno, a raggiungere quegli ideali.
Noi non sapremo mai se i grandi malinconici e gli accidiosi dei secoli passati mancassero di serotonina come i depressi clinici dei nostri giorni, ma è evidente che in società che valorizzavano il sacrificio personale, l’austerità, la modestia e l’accettazione della propria realtà, solo i casi più gravi di malinconia attiravano davvero l’attenzione, mentre per gli altri l’inserimento nella società era possibile con sufficiente dignità.
La nostra società, al contrario, contribuisce a mettere “i depressi” come pure i malinconici, in non bella evidenza, li smaschera come disfattisti, li addita come elemento di disturbo nell’atmosfera di gioia convenzionale e superficiale.
Sono accomunati in questo anche ai semplici pessimisti, perché i pessimisti possono essere agenti disgregatori del morale generale.
Il pessimista guarda in faccia la realtà, ma la descrizione che ne fa è spaventosa e inaccettabile per il senso comune.
Eppure l’unico cammino possibile per l’uomo è quello sulla via della consapevolezza di sé, cammino che l’uomo ha percorso, faticosamente, nei millenni della sua storia e che la scienza stessa farebbe bene a non considerare compiuto.
Questa consapevolezza, frutto dell’esercizio della sua ragione, è quello che rende l’animale uomo così speciale tra gli altri animali.
Se il mal di vivere è il prezzo che l’uomo paga a questa sua speciale condizione io penso che valga la pena pagarlo. La dignità dell’uomo non consistendo nella felicità, cui pure ha ogni diritto di aspirare, ma nel pensiero e nella coscienza.

2 commenti:

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