venerdì 30 novembre 2007

ancora corpo

Prendo spunto da un libro che non ho ancora terminato di leggere ma che mi ha sollecitata ad affrontare il discorso “rappresentazione e auto-rappresentazione femminile”.
Il libro è: “Ancora dalla parte delle bambine” di Loredana Lipperini e indaga-sulla falsariga di quello storico di Elena Gianini Belotti “Dalla parte delle bambine” del 1973- i modelli culturali delle nuove bambine.
Per ora posso solo dirne che è pieno di dati e di riferimenti interessanti, ma avremo sicuramente modo di parlarne ancora.

Io ne approfitto per fare le mie osservazioni. Nascono dal basso, dalle cose che io osservo quotidianamente. Parlando con mia figlia, sentendo le storie delle sue amiche e colleghe, quelle delle figlie delle mie amiche e dei loro figli, ascoltando i discorsi delle donne, delle ragazze e delle ragazzine, nei negozi, negli autobus, fuori della scuola sotto casa, leggendo la posta sui giornali, guardando la televisione, passando sui blog personali femminili, guardando le pubblicità, i libri che escono, i servizi sulle riviste, le merci nei negozi ecc. Insomma come tutti noi, vivendo nella società, senza pretese di studiosa. Ma con un occhio allenato a guardare la realtà femminile.
In queste mie osservazioni delle volte mi sento davvero scoraggiata e tento di sottrarmi ad uno spettacolo che mi pesa sul cuore. E mi dico: lascia stare, non guardare, non ci pensare, ormai hai 64 anni, la tua vita l’hai fatta, tua figlia è “salva”, tuo nipote è maschio, fregatene. Lo so, è meschino, ma mi dico proprio così. Delle volte. Altre volte mi sento oppressa e insieme insofferente e ho voglia di fare qualche cosa di eclatante, di insultare qualcuno per strada, di scrivere lettere ai giornali, di fondare gruppi, di battermi ancora per le donne. Le donne le amo. Così come sono. Nella loro imperfezione. Anche quando mi fanno imbufalire. Le amo sempre, non ci posso fare niente.

Eppure io non volevo essere donna. Io volevo essere un maschio. Già da piccolissima. Per due ragioni: innanzitutto ho pensato da subito che essere femmina era una sfiga colossale e che essere maschio comportava tutt’altra considerazione, libertà e opportunità e secondo perché volevo attenzione da mio padre e coltivavo la tenace speranza che per un maschio ne avrebbe avuta di più.
Mi sono quindi applicata per fare di me un maschio, fin da piccola. Li ho osservati bene e ho deciso che quello che facevano loro lo avrei fatto anche io. Essenzialmente che cosa facevano? A botte. Le davano e le prendevano. Le detti e le presi. Facevano i famosi giochi “da maschio”, giochi fisici, tutti puntati sul corpo in movimento e in manifestazioni di forza. Li feci anche io. Con grande dispetto di mia madre. Non piangevano ( non potevano poveretti!). Non piansi. (Per molti anni, poi divenni una fontana). Mostravano coraggio. (Se poi lo avessero davvero era ed è tutt’altro discorso). Mostravo coraggio. Non si curavano del loro aspetto. Non me ne curai. Insomma, ce la misi tutta. Naturalmente fallii, non si sfugge alla propria natura. Ma fu una buona, un’ottima palestra.
Mi servì per scoprire che, dopotutto, NON volevo essere un maschio, che nonostante tutto essere femmina era MOLTO MEGLIO e che mi PIACEVANO molto di più le donne. (Piacevano non va inteso in senso sessuale).

Una volta riconvertita al mio sesso ho fatto tutte le regolamentari battaglie che la condizione femminile, a mio avviso, imponeva. Non ho disertato, in un conflitto il cui esito sentivo vitale per le donne.
Adesso mi guardo intorno e cerco di vederne i risultati. Sono sconfortanti. E certo, in quanto femminista, non posso non interrogarmi su me stessa e le mie compagne di allora. Ma andiamo per ordine. Che cosa vedo?
-Le donne sono ancora considerate ed ancora si considerano essenzialmente corpo.
Puntano tutto sul corpo. Lo mettono in gioco continuamente. Sono disposte a fargli di tutto. E a farsi fare di tutto. Lo manipolano secondo un gusto ed un immaginario esclusivamente maschile.
Su questo punto dunque abbiamo fallito. Dicevamo che il nostro corpo era bello, di per sé, che non aveva bisogno di piegarsi alle fantasie maschili. Tagliammo le nostre gonne, buttammo i reggiseni e mettemmo al vento i nostri seni. Lo svelammo, non per usarlo come tentazione, strumento di ascesa sociale e merce sessuale, ma per rivendicarne la bellezza, la nostra proprietà e l’uso libero.
Oggi le donne si gonfiano le labbra, trasformandole in un foro gonfio (a che cosa allude secondo voi?). Scoprono l’ombelico e la divisione delle natiche, velano/ svelano i capezzoli, in un gioco di copri/scopri che avevamo rifiutato, si iniettano di tutto, si tagliano perfino le ossa. Muoiono per essere più magre o più piene. Spogliano i loro corpi e li esibiscono sempre più volgarmente.
Non sto parlando di mancanza di pudore, di moralità, spero non ci sia bisogno di dirlo! Sto parlando di una aderenza totale al desiderio maschile, al modello di donna preda e oggetto di pratiche sessuali che l’uomo ha in mente. Non è tornato il reggiseno, ma le guepière delle nostre antenate, le giarrettiere, i bustini che strizzano il seno, e, come sempre, in un gioco al rialzo. E allora i tanga o niente del tutto sotto le minigonne. E camminano arrampicate su tacchi di 10, 12 centimetri, leggermente inclinate in avanti, rigide, fanno piccoli passi nelle gonne che le stringono. In compenso sono tutte uno spacco, o fori distribuiti qua e là. Naturalmente dicono di vestirsi così “perché così mi va”, ma il punto è questo: perché ti va? Perché ti piaci così? E’ una gara, una rincorsa a chi sollecita di più e meglio e prima l’appetito sessuale dei maschi. Corpi in offerta libera. Questa è la risposta. E poi l’altra risposta: perché così mi inducono a piacermi fin da piccola.
Questo è sotto i nostri occhi quotidianamente.
Alla scuola elementare sotto casa vedo arrivare bambine in minigonne leopardate, con le pancine scoperte e indossano minuscoli reggiseni che traspaiono sotto le magliette già a sette/otto anni. Hanno fretta. Mettono loro fretta. Serve carne fresca.
Al mare le bambine, benché senza seno, indossano allusivi costumini due pezzi. Per loro esiste già tutta una moda ammiccante, allusiva, di richiamo. Le ragazzine che incontro sugli autobus, undicenni, dodicenni, sembrano “piccole puttane crescono”, lo dico con il cuore addolorato.
Il corpo è ancora lo strumento, il mezzo, la carta vincente che aprirà le porte del successo. E l’uso libero è diventato abuso. Il sospetto di anni fa’ non è più un sospetto: la liberazione sessuale è stata usata dal maschio per avere liberamente e senza la vecchia contropartita (Tu mi dai accesso al tuo corpo io ti sposo) tutto il sesso che vuole. E non ha neppure più bisogno della vecchia contropartita. L’uso libero del nostro corpo doveva servire alla nostra gioia e alla nostra libertà, non ad aumentare le possibilità di far sesso dei maschi. Anche qui abbiamo fallito.
Il corpo femminile è ancora (dovrei dire di nuovo, perché ci sono stati anni di speranza, anni in cui le cose stavano cambiando) mezzo. Mezzo verso che cosa? Come sempre: catturare un maschio da tenersi accanto. Se poi il maschio valga la pena, o quanto valga la pena, le donne sembrano non chiederselo. Sembrano. Sono certa che-poi-se lo chiedono. Abbiamo ancora paura della solitudine e bisogno di affetto. Ma il problema non è qui. Cosa c’è di più umano della paura della solitudine e del desiderio di affetto? Il problema è che cosa siamo disposte a fare per rispondere (per tentare di rispondere) a questi bisogni. Quanto siamo disposte a svilirci per rispondere a questi bisogni.
Per sapere quanto siamo disposte a svilirci basta guardare.
Così, ho deciso di invitarvi a guardare. Lo farò più volte, ci tornerò e ci tornerò.
Non per emettere giudizi sulle donne di oggi, ma per indicare alle madri di bambine e bambini, le trappole che l’intero sistema della nostra società tende alla persona donna. Trappole mortali.

giovedì 29 novembre 2007

primo amore all'indicativo

Prima o poi dovevamo arrivarci. Si plana sempre sulla realtà. Volenti o nolenti.
Eccoci quindi all’ indicativo.
Per tradizione, in ogni grammatica è definito il modo della realtà e, addirittura, dell’obiettività.
Si tratta di obiettività grammaticale, va da sé, perché come si mente bene con l’indicativo non si mente bene con nessun altro modo. (Per quanto, anche il gerundio, è un bel mentitore. Ma ne parleremo più in là).
Ora, poiché la realtà non solo predomina, ma spesso opprime anche le nostre vite, l’indicativo dispone di otto-tempi-otto, fra semplici e composti. Vale a dire che c’è sempre un tempo per la realtà. Per richiamarci a...per ricordarci la...per metterci di fronte alla...
Secondo me, che noi si usi l’indicativo per mentire è un semplice riflesso di autodifesa da tutta questa dose massiccia di realtà che ci vuole sopraffare. È quasi una sfida: “Sei il modo della realtà? Beh, ti faccio vedere io come ti piego bene alle mie esigenze menzognere”.
In pratica il presente indicativo dice semplicemente questo: ciò di cui ti parlo accade mentre te ne parlo. Semplicemente?
Mentire al presente indicativo è semplicemente uno spasso. Proviamo?
Ti amo. Dico, statisticamente, quante volte questo bell’indicativo presente sarà stato il modo della realtà? Non aggiungo altro.
Appena un cenno, perché mi affascina, al presente storico. Quando narriamo fatti, accaduti nel passato, parlandone al presente. Tecnica sia del racconto orale che della narrazione scritta, con cui rendiamo coinvolgenti gli avvenimenti di cui parliamo.
Il presente storico è una specie di zoom su un avvenimento passato, o un flash-back, inserito nel racconto.
“La Camera era al completo. Tutti i seggi dei parlamentari occupati. Il solito brusio passava di banco in banco. Ed ecco, si alza Giacomo Matteotti e chiede la parola...” Efficace, vero? Di botto, te lo vedi davanti, l’alta figura, il viso magro e nobile, l’atteggiamento determinato. Sì, il presente storico è un bell’espediente linguistico.
Un presente che invece odio è quello acronico. Quello delle sentenze, delle leggi, dei proclami. Tutti i E’ fatto divieto di...”, tutti i “Chiunque omette il pagamento di..., tutti i “Chi troppo vuole nulla stringe...ecc tutti gli “Alleanza Nazionale difende le donne dalla violenza” (letto stamattina sui muri di via Labicana): Insopportabili, no?

Dell’imperfetto dell’indicativo, voglio solo sottolineare l’aspetto fantastico. Imperfetto ludico o onirico lo chiamano i linguisti.
Quando i bambini nei loro giochi si dicono: allora io ero il capo degli indiani e..No, il capo degli Indiani ero io..No, ero io, e via così, discutendo. Come mi ha detto ieri sera Tommasino, ma in forma interrogativa: Tu eri Power ranger rosa, nonna? E io (che a vedermi attribuire il rosa come colore di riferimento normalmente mi incavolo) “Certo! E tu eri Power ranger verde?” “No, io ero Power ranger rosso, il capo”. Mica scemo, il piccoletto.
E poi, quando ci raccontiamo i sogni: E allora il Che veniva verso di me, mi tendeva il suo fucile e mi diceva: tienilo tu. (Sogno che feci davvero. Non fate commenti).
Di tempi ce ne sono ancora sei, ‘sta realtà è davvero invasiva.
Di futuro ne ho letto uno simpatico sul giornale stamattina: Giordano PRC: Valuteremo a gennaio la nostra permanenza nel governo. Chiediamo di definire a gennaio le nuove priorità dell’esecutivo e da queste dipenderà la nostra collaborazione futura. Bel futuro roseo, per il Governo, n’est pas?
Potrei rispondere con un futuro anteriore con valore “suppositivo”: Avrà avuto il via libera da Bertinotti, per fare questa affermazione.

Coraggio, ancora quattro tempi e ci liberiamo dell’indicativo. Dei due Trapassati, il Remoto è ormai “remoto” anche nello scritto. Abbandoniamolo al suo destino o a quegli autori che ancora si pongono il problema di scandire la realtà, di indagare nelle sue pieghe, nei polizieschi-dove stabilire i tempi al millesimo comporta avere o non avere un alibi- o nei romanzi di ambientazione ottocentesca, dove anche i sentimenti hanno una successione standard: Come l’ebbe vista si sentì infiammare. Quando lo ebbe salutato chinò gli occhi a terra e arrossì. Nel leggerlo o ci tuffiamo nell’onda romantica o ci spazientiamo. Ma insomma quanto sarà durato mai questo scambio di sguardi?!
Il Trapassato Prossimo è spesso velato di rimpianto o di pentimento: ti avevo telefonato per invitarti a cena, ma non ti ho trovato..Ti avevo cercata su Google, ma poi non ho avuto il coraggio di chiamarti..(Intanto erano passati sei anni, lei era incinta di un altro e lui andava al cinema da solo).
Riepilogando: presente, imperfetto, futuro semplice e anteriore, trapassato prossimo e remoto fatti.

Ed eccoci alla mia passione: I passati, il prossimo e il remoto.
Spia infallibile di molte magagne.
Ormai lo avrete capito che mi piace indagare, sia pure scherzosamente, le relazioni d’amore.
E allora vediamone una. Richiamiamo in gioco anche l’imperfetto, qui ne vale la pena.
Che cosa rende questi tre tempi così differenti? La prospettiva del parlante, l’atteggiamento con cui si guarda al passato, con cui questo viene percepito. Solo questo. Ma è tutto. E il parlante, lui, lo sa, e molto bene. O, se non lo sa, è il suo inconscio a saperlo.

Indicativo Imperfetto.
Io ti amavo. Storia passata? Manco per idea! Questo imperfetto è una patente contraddizione in termini. Nessuno che si sia davvero scrollato di dosso un sentimento usa questo imperfetto accorato e/o accusatorio. Non sentite l’eco di quell’amore in quelle tre sillabe? E la vena di rimpianto, il dire: “se tu... se io... se noi.. O anche: “Che cosa hai fatto? Perché hai rovinato tutto? Oppure: Perché non abbiamo capito?”
Quel “Ti amavo” è un imperfetto che è un presente e se non è un presente è solo perché non può, perché qualche cosa glielo impedisce..
Va bene, mi sto facendo trasportare, il fatto è che già nella mia testa si è presentata tutta una storia, con i suoi personaggi...

Indicativo Passato Prossimo.
Io ti ho amato. Bello, pulito, il passato prossimo rivive il processo nei suoi riflessi successivi, collegando il fatto di aver amato con un implicito risultato attuale: ti ho amato, ma ora amo mia moglie/mio marito. Ti ho amato, poi qualcosa non ha funzionato, ma mi fa piacere ricordare il nostro amore, ti penso con affetto, il nostro amore è stato un momento importante della mia vita e tu una figura cara. Il passato prossimo è il vero tempo del vero passato, il tempo del vero distacco, del disamoramento vero. E’ quello che consente la possibilità di rivivere la storia, parlandone con l’altro o dentro di noi, senza sofferenza, rimpianto, rancore, solo con la tenerezza del ricordo. Io ti ho amato. Non serve aggiungere “ma non ti amo più”: è già in quel passato prossimo.

Io ti amai. La rigidità, la drammaticità, l’enfasi di questo passato remoto, grida menzogna! menzogna! lontano un chilometro. Chi usa il passato remoto “vuole inserire l’azione entro coordinate temporali nette, ha bisogno di marcarne la compiutezza, lo stacco rispetto al presente.”(Serianni). Il passato remoto è enfatico e proprio per questo è spia di una insicurezza di fondo. “Ti amai. Ecco, glielo dico così, perché è più netto. Più passato. Ti amai. Sì, suona definitivo.” E invece il parlante è caduto nell’autoinganno. Il bisogno di chiudere quell’azione tra due termini, sia pure non espliciti (Ti amai tra l’80 e l’84) è il bisogno di tappare dentro un contenitore quell’amore che potrebbe ritornare a galla, come un cadavere mai davvero zavorrato per bene. Il parlante non PUO’ fare ricorso al passato prossimo: non è pronto ad usarlo, perché il passato prossimo segnerebbe un’ accettazione del fatto trascorso che invece non ci si può permettere. Dico “ti amai,, perché ho paura che quell’amore dal passato stinga sul mio presente. In pratica il parlante tampona il passato per paura che si rovesci sul presente.
Infatti è solo il superamento che può consentirci di parlare di qualche momento della nostra vita al passato prossimo. Perché, non fatevi ingannare dal termine, il passato prossimo è il meno “prossimo” che ci sia. E’ prossimo al nostro presente ma nella sua veste di passato, è prossimo al nostro cuore come i ricordi da cui abbiamo imparato, quelli che possiamo tenerci stretti, non quelli di cui ci dobbiamo liberare perchè ci fanno male, non quelli che dobbiamo negare...
Il Passato Remoto è un tempo pericoloso. Lo usiamo per nasconderci qualche cosa e invece ci tradisce. Ma, evidentemente, per chi lo ascolta, è un tempo speranzoso. La spia, cui, eventualmente, può attaccarsi. "Ha detto ti amai. Perché? Forse in fondo, in fondo, mi ama ancora, o può tornare ad amarmi!" Qui sto facendomi prendere la mano di nuovo, un’altra storia mi si sta presentando alla mente..
Perciò basta, la faccio finita.
Ma voglio terminare con una domanda: del vostro primo amore che cosa direste? L’ho amata? L’ amai? L’ amavo? NON MENTITE! Tanto vi sgamo.

mercoledì 28 novembre 2007

italiani brava gente

Per chi fosse interessato segnalo l'appello IL TRIANGOLO NERO-NESSUN POPOLO E' ILLEGALE.
Riporto da Giap

"Diffuso a partire dal 15 novembre scorso, è nato dall'incazzatura nel vedere un intero paese comportarsi da cane rabbioso.
Non che sia la prima volta: da anni sfrigola nell'aria la voglia di linciaggio, e in certe occasioni si fa desiderio violento. Ogni tot mesi, per qualche giorno sembra di stare in 28 giorni dopo, con le città in preda a un'epidemia di collera.
Solo che ogni volta è peggio: uno scoppio di xenofobia tanto esplicito e privo di pudore - e per giunta trasversale, senza distinzioni tra destra e "sinistra" - non pare avere precedenti nella storia recente del paese. E da un mese a questa parte sembra del tutto normale, accettabile e "di sinistra" (!) parlare dei rumeni come Borghezio, ed è diventato chic rivendicarlo.
Insomma, alcuni scrittori e artisti hanno cominciato a discutere al telefono e via e-mail, e in 48 ore è nato l'appello. Promosso da una ventina di persone, in un battibaleno ha raccolto oltre cinquecento firme, tra cui molti esponenti noti della cultura e dell'informazione, da Gad Lerner a Moni Ovadia, da Andrea Camilleri a Chiara Ingrao, da Bernardo Bertolucci a Franca Rame, da Sandro Veronesi a Erri De Luca, da Lidia Ravera a Nanni Balestrini, da Enrico Ghezzi a Giuseppe Pederiali, da Melissa Panarello a Sandrone Dazieri. Spedito in giro, l'appello si è trasformato in cometa dalla lunga coda. Mentre scriviamo sta per toccare le seimila firme. Compare integrale su centinaia di blog e siti, google restituisce oltre 25.000 risultati. Inoltre è disponibile in diverse lingue: rumeno - spagnolo - francese - catalano.
Da quest'appello forse nasceranno altre iniziative pubbliche. Se ne sta discutendo tra i promotori, che si sono dati un nome temporaneo: "Nei campi".

Se volete, potete firmarlo a: http://www.petitiononline.com/trianero/petition.html

avere vent'anni nel 1963

Ho letto, tutto d’un fiato “Chesil Beach” di Ian McEwan edito da Einaudi. Non vi racconterò la trama. Vi anticiperò solo che la vicenda si svolge in Inghilterra nel 1962, un anno come un altro, che come un altro non è stato, perché si situa ad di qua di uno spartiacque epocale, quello tra la morale chiusa e opprimente del conservatorismo e quella della rivoluzione sessuale. Tra prima e dopo il primo LP dei Beatles. Benché le cesure siano sempre un po’ arbitrarie, è innegabile che dal 1963 si assistette ad un’esplosione di vitalità e ad una vera e propria liberazione. Un “Libera tutti!” in grande stile.
La storia che ci racconta McEwan si svolge come si svolge proprio perché i protagonisti si trovano a viverla stando al di qua di quello spartiacque. Prigionieri di quella morale soffocante, vittime di quella oppressione. Il libro mi ha colpito molto perché, oltre ad essere scritto magistralmente, come tutti i libri di Ian McEwan, rende chiaro fino alla esemplarità il meccanismo per cui una vita, o due vite insieme, possono essere segnate da un solo giorno, da un solo atto.
Io ho vissuto la mia giovinezza a cavallo di quello spartiacque, sentendo il richiamo del “Libera tutti!” ma ancora tenuta stretta dagli imperativi categorici della mia epoca.
Nel 1963, quando i Beatles cantavano Love me do, io avevo vent’anni e per i miei pensieri, le mie idee, i miei desideri e i miei giudizi mi collocavo al di là dei conformismi del mio ambiente e mordevo il freno di un’educazione severa e forse ipocrita. Alla quale avevo obbedito, sforzandomi di aderirvi con un'opera di autoconvincimento negli anni immediatamente precedenti.
Nel 1963 l’avevo ormai catalogata come sbagliata, e mi preparavo a buttarla via.
Ma gli occhiuti guardiani della morale sessuofobica vigilavano. Io incappai in uno di loro, nella persona di una mia coetanea che mi alienò, per pruderie e forse invidia e gelosia, l’affetto e la stima di un vasto ambiente intorno a me. Non è questo il punto che mi preme raccontare-a quei tempi di storie così ne accadevano continuamente-ma il fatto che, per una frase spavalda e ingenua insieme, per un piccolo, innocente atto di ribellione, l’intera mia vita piegò in una direzione, si plasmarono rapporti, si irrigidirono preconcetti, si pietrificarono giudizi. In fondo la mia storia è una storia pirandelliana. Sapete, quando Pirandello apre uno squarcio nella vita di qualcuno e ci fa vedere come questa possa essere tutta inghiottita da quello squarcio? E la storia di Chesil Beach è, in questo senso, pirandelliana. Anche qui i due protagonisti vedono la loro vita piegare in una direzione piuttosto che in un’altra a causa di una sola, solissima notte. Resteranno prigionieri di quella notte che porterà via loro la possibilità di una vita ricca di amore e di gioia. Ciò nonostante non è un libro triste. Siamo troppo presi dal succedersi dei minuscoli avvenimenti che indirizzeranno la vita dei protagonisti per rattristarci per loro. E troppo incatenati alla scrittura perfetta dell'autore.
Solo dopo, scuotendo il capo, ci verrà di dire: Peccato!
Va letto. Anche o forse soprattutto da chi è venuto al mondo molto dopo quel 1962.


Idea! Mi raccontereste i vostri vent’anni?
Qui vi sintetizzo i miei.
I miei vent’anni sono stati molto lirici e poco epici.
Dopo una piccola indagine ho scoperto che il 1963 era l’anno in cui la Cinquetti cantava “Non ho l’età”. Io la trovavo melensa. Mi elettrizzai invece per Love me do dei Beatles, come se li aspettassi.
E’ anche l’anno della Pacem in terris, ma io l’ho letta dopo.
È l’anno della uccisione di Kennedy, ma non chiedetemi dove ero quando lo appresi perché non lo so.
Ricordo invece il Vajont. Un’immagine in bianco e nero che strappava il cuore. Senza colpe. La fatalità della natura. Così credetti. Molto dopo ho scoperto che di fatale non c’era proprio niente.
Per circa un anno ho vissuto in un mio mondo privato. Il mio ventesimo anno è stato il culmine di un processo di focalizzazione sui miei sentimenti.
Poi entrata all’Università sono tornata a volgere il mio sguardo al mondo fuori di me e non l’ho più distolto.
Ma quell’anno lo ricordo come un tuffo nel profondo di me stessa.
Da cui emersi senza aver capito niente. Né dopo migliorai.
Non mi sentivo immortale, come dicono che si sentano i giovani. Avevo una punta di amaro già allora. Sono stata una ventenne atipica. O tipica del secondo tipo.

martedì 27 novembre 2007

Una notte con Wislawa

Mia figlia è all’estero, Tommasino è con me. È bellissimo vederlo addormentarsi, un’esperienza per la quale non ho parole.Per la prima volta ha voluto che lasciassi accesa una luce. “Hai paura?” gli ho domandato. “No, ma con la luce vedo meglio” mi ha risposto. Non è un bambino spiritoso? Ma io non riesco a dormire con il più piccolo chiarore, così eccomi qui a scrivere post e andrò avanti, penso, tutta la notte. Non a scrivere post, tranquilli.

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Wislawa Szymborska
Non hanno sbagliato a darle il Nobel, no di certo.
Poetessa con ironia. Con uno sguardo intatto, da primo mattino del mondo, sulla vita.
Ma sotto senti quanto profondamente stia “dentro” le cose della vita, come le guardi da dentro.
E inoltre, è semplicemente deliziosa!

IL 16 MAGGIO 1973
Una delle tante date
che non mi dicono più nulla.

Dove sono aandata quel giorno,
che cosa ho fatto-non lo so.

Se lì vicino fosse stato commesso un delitto
-non avrei un alibi.

Il sole sfolgorò e si spense
senza che ci facessi caso.
La terra ruotò
e non ne presi nota.

Mi sarebbe più lieve pensare
di essere morta per poco,
piuttosto di ammettere di non ricordare nulla
benché sia vissuta senza interruzioni.

Non ero un fantasma, dopotutto,
respiravo, mangiavo,
si sentiva
il rumore dei miei passi,
e le impronte delle mie dita
dovevano restare sulle maniglie.

Lo specchio rifletteva la mia immagine.
Indossavo qualcosa di un qualche colore.
Certamente più d’uno mi vide.

Forse quel giorno
trovai una cosa andata perduta.
Forse ne persi una trovata poi.

Ero colma di emozioni e impressioni.
Adesso tutto questo è come
dei puntini fra parentesi.

Dove mi ero rintanata,
dove mi ero cacciata-
niente male come scherzetto
perdermi di vista così.

Scuoto la mia memoria-
forse tra i suoi rami qualcosa
addormentato da anni
si leverà con un frullo.

No.
Evidentemente chiedo troppo,
addirittura un intero secondo.




AMORE A PRIMA VISTA
Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano-
una volta un faccia a faccia
in qualche porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
-ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio tempo
il caso giocava con loro.

Non ancora pronto del tutto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando una risata
con un salto si scansava.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa’
o lo scorso martedì
una fogliolina volò via
da una spalla a un’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, forse già la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
su cui anzitempo
un tocco si posava su un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al riveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.



ALLEGRO MA NON TROPPO
Sei bella-dico alla vita-
è impensabile più rigoglio,
più rane e più usignoli,
più formiche e più germogli.

Cerco di accattivarmela,
di blandirla, vezzeggiarla.
La saluto sempre per prima
con umile espressione.

Le taglio la strada da sinistra,
le taglio la strada da destra,
e mi innalzo nell’incanto,
e cado per lo stupore.

Quanto è di campo questo grillo,
e di bosco questo frutto-
mai l’avrei creduto
se non avessi vissuto!

Non trovo nulla-le dico-
a cui paragonarti.
Nessuno ha fatto un’altra pigna
né migliore, né peggiore.

Lodo la tua larghezza,
inventiva ed esattezza,
e cos’altro- e cosa più-
magia, stregoneria.

Mai vorrei recarti offesa,
né adirarti per dileggio.
Da centomila anni almeno
sorridendo ti corteggio.

Tiro la vita per una foglia:
si è fermata? Se n’è accorta?
Si è scordata dove corre,
almeno per una volta?



SORRISI
Il mondo vuol vedere la speranza sul viso.
Per gli statisti diventa d’obbligo il sorriso.
Sorridere vuol dire non darsi allo sconforto.
Anche se il gioco è complesso, l’esito incerto,
gli interessi contrastanti-è sempre consolante
che la dentatura sia bianca e ben smagliante.

Devono mostrare una fronte rasserenata
sulla pista e nella sala delle conferenze.
Un’andatura svelta, un’espressione distesa.
Quello dà il benvenuto, quest’altro si accomiata.
È quanto mai necessario un volto sorridente
per gli obiettivi e tutta la gente lì in attesa.

La stomatologia in forza alla diplomazia
garantisce sempre un risultato impressionante.
Canini di buona volontà e incisivi lieti
non possono mancare quando l’aria è pesante.
I nostri tempi non sono ancora così allegri
perché sui visi traspaia la malinconia.

Un’umanità fraterna, dicono i sognatori,
tresformerà la terra nel paese del sorriso.
Ho qualche dubbio. Gli statisti, se fosse vero,
non dovrebbero sorridere il giorno intero.
Solo a volte: perché è primavera, tanti i fiori,
non c’è fretta alcuna, né tensione in viso.
Gli esseri umani sono tristi per natura.
È quanto mi aspetto, e non è poi così dura.

da "Vista con granello di sabbia" Adelphi 1998

lunedì 26 novembre 2007

Depressione/sei/ Primo Romanticismo, oh my God!

Il mal di vivere del primo Romanticismo ha una sua complessa originalità: è un insieme di disillusione (Il Congresso di Vienna del 1815 dichiara archiviato ogni sogno politico di libertà, mentre sull’Europa si distende la cappa soffocante della Santa Alleanza), di noia e di impazienza, di sentimenti morbosi e di fame di vita.

Arthur Rimbaud
Sono i poeti a farsi portavoce di questi umori. Prima si esaltano per le grandi imprese libertarie che sembrano a portata di mano, poi delusi ripiegano sull’amore.
Noi diremmo dal politico al personale. Ma anche il personale è doloroso. Gli amori sono tragici, minacciati dal tempo, dal tradimento, dalla morte. I poeti muoiono giovani. Così Shelley, Keats, Burns, Byron, l’intera famiglia Bronte, Novalis, von Kleist. Se tardano a morire invocano la morte. Thomas Gray è il poeta dei cimiteri, Wordsworth e Coleridge rovesciano i loro pensieri oscuri in ognuno dei loro versi.

John Keats
Di Giacomo Leopardi parlerò a parte perché la sua lezione è non solo poetica ma anche filosofica e costituisce un unicum.
Con Francois-René de Chateaubriand e Benjamin Constant si affaccia una prima interpretazione “moderna” del mal di vivere. Entrambi malinconici patologici, denunciano le frustrazioni generate in noi dai nostri limiti. Mentre il progresso infiamma la fantasia e l’immaginazione e i sogni e le aspirazioni crescono, la scienza rende sempre più chiaro il senso dei nostri limiti e della nostra finitezza: Il primo Ottocento intuisce il disagio esistenziale.

Mentre i poeti muoiono, i filosofi si deprimono (gravemente come John Stuart Mill),e i caricaturisti coprono di sarcasmo i “malfelici”. Ingiustamente, perché il mal di vivere continua a devastare anche la seconda generazione del secolo. Ogni grande poeta lo esprime con la sua voce personale. Stéphane Mallarmé: “profumo di tristezza”, Paul Verlaine: “il languore monotono”, Arthur Rimbaud il suo definitivo: “Io mi credo all’inferno, dunque vi sono”. Leconte de Lisle alla Morte: “rendici il riposo che la vita ha disturbato”. Gerard de Nerval, “io sono il tenebroso, lo sconsolato”, Théophile Gautier: “acre voluttà del male”.
L’angoscia di vita ha mille sfumature. Tra queste ‘la noia esistenziale’ che Flaubert descrive anatomicamente nelle lettere agli amici e Baudelaire canta regalmente.
Siamo dunque allo spleen, angoscia sia fisica che metafisica, soffocamento e disgusto, apatia e scoramento, che Baudelaire, in una lettera alla madre, sintetizza così: “Mi domando continuamente: a che pro questo? a che pro quello? E’ questa la vera essenza dello spleen.”
I grandi musicisti del secolo non soffrono meno: così Schumann-tormentato fino alla follia-Ciaikovskij e Berlioz. Così pure i pittori: William Blake, gli scultori-Rodin con Il pensatore scolpisce l’equivalente della Melancholia I di Durer. E i romanzieri: Edgar Allan Poe e Lev Tolstoj. Tutti preda dello stesso mal di vivere.
Se la malinconia delle prime generazioni di romantici era congiunturale, il fenomeno si innesta ora sulla modernità e diviene autonomo dagli eventi storici, ed endemico. Colpisce individui al di fuori di qualsiasi contesto culturale o sociopolitico: non è più il male del secolo, come lo aveva definito Alfred de Musset, ma si avvia ad essere il male della modernità.

depressione/Charles e lo spleen

LXXVIII - Spleen

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle

Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,

Et que de l'horizon embrassant tout le cercle

II nous verse un jour noir plus triste que les nuits;

Quand la terre est changée en un cachot humide,

Où l'Espérance, comme une chauve-souris,

S'en va battant les murs de son aile timide

Et se cognant la tête à des plafonds pourris;

Quand la pluie étalant ses immenses traînées

D'une vaste prison imite les barreaux,

Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées

Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,

Des cloches tout à coup sautent avec furie

Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,

Ainsi que des esprits errants et sans patrie

Qui se mettent à geindre opiniâtrement.

Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,

Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,

Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio
sullo spirito che geme in preda ai lunghi tedii,
e-abbracciando tutto il cerchio dell’orizzonte-
versa su di noi una luce nera più triste delle notti;

quando la terra è mutata in un’ umida segreta
dove la Speranza, come un pipistrello,
va battendo i muri con l’ala timorosa
e picchiando la testa contro i soffitti marci;

quando la pioggia sciorinando le sue immense strisce
imita le sbarre d’una vasta prigione,
e un popolo muto d’infami ragni
viene a tendere le sue reti in fondo ai nostri cervelli,

campane a un tratto bàlzano su con furia
e lanciano verso il cielo un terribile urlìo,
come spiriti erranti e senza patria
che si mettano a gemere ostinatamente.

E lunghi carri funebri, senza tamburi né musica,
sfilano lenti nell’anima mia; la Speranza,
vinta, piange, e l’Angoscia atroce, dispotica,
sul mio cranio chino pianta il suo nero vessillo.









La traduzione è di Clemente Fusero.
Sicuramente, ognuno di noi, ne ha una diversa.
Le leggerei volentieri.

sabato 24 novembre 2007

al tè delle cinque?

ROMA 8 marzo 1979



ROMA 24 novembre 2007




























Leggo i primi commenti.
Che violente queste donne! Scandalo! Contestate le Ministre Pollastrini, Turco e Melandri! E allora? Succede in tutti i cortei che i ministri si prendano i fischi. E' fisiologico. E poi, care ministre, davvero il pacchetto Amato ci serve? Ci aiuterà? Davvero è la risposta al nostro problema?

Cacciate dal corteo la Carfagna e la Prestigiacomo! La Carfagna mi è sfuggita, ma la Prestigiacomo me la sono trovata accanto. Circondata da quattro guardaspalle che la proteggevano. Da chi? Ma va a c...E poi il corteo era contro la violenza degli uomini sulle donne, mica contro la violenza tra donne. ;-)

Esclusi i maschi dal corteo! Ohibò! Eccheduepalle! Ancora questa storia! Se volevano potevano sfilare accanto al corteo, come molti hanno fatto. Sorriderci, parlarci, come i più intelligenti hanno fatto. Ma è mai possibile che non possano sopportare la ferita narcisistica di non essere protagonisti per lo spazio di un pomeriggio? Giusto o non giusto, il coordinamento delle donne ha deciso così: corteo separatista. Imporsi è da maleducati. O da provocatori? Comunque, al fondo del corteo ce n'erano tanti di uomini, un po' defilati e senza imporsi e nessuna li ha aggrediti.
Ah, ne ho una per la Maraini, che si sdegna e dice che tutti vanno accolti nei cortei. Guarda che io ti ricordo bene quando teorizzavi la separatezza e gridavi "fuori, fuori, fuori" ai maschi. Se lasciassimo in pace queste giovani donne incazzate, senza voler far loro la lezione? Mi pare che se la cavino piuttosto bene...
Del resto è sempre stato così: dalle manifestazioni di sole donne ci si aspetta la dimostrazione plastica, la definitiva consacrazione della loro indole dolce, comprensiva, accogliente. Manifestare sì, ma con eleganza, tolleranza, ragionevolezza.
Sorridere e cantare va bene. Se poi balliamo, anche meglio! Come siamo belle! Che calore, che vitalità, che creatività!
Ma, cavolo, gli slogan duri, no! E i fischi, poi! Ad altre donne! e spintonarne un paio fuori dal corteo, ma siete matte?
Quando diciamo di essere diverse, scuotono il capo: ma che diverse,che è questa storia della vostra "differenza"? Quando ci comportiamo allo stesso modo: eh, no, cavolo! Voi siete donne! Non potete essere intolleranti e furiose e aggressive! Voi dovete essere diverse. A qualcuno è davvero entrato in mente che quelle donne erano lì per ricordare alla società che vengono giornalmente brutalizzate, stuprate ed uccise? Mentre la società, in ognuna delle sue istituzioni,considera questo fatto alla stregua di cronaca nera? Non erano in piazza per fare evento, per regalare ai passanti e poi alle tv un bello spettacolo, chiassoso, allegro e colorato. Ognuna di quelle donne, tornando a casa la sera, per un riflesso antico si è gettata un'occhiata intorno, ha scelto la strada più frequentata e più illuminata. Questo se la paura non l'aspettava dentro casa, naturalmente. Venendo via ho risalito l'Esquilino, accanto a me altre due donne, con grosse coccarde colorate appuntate al bavero. Io li ho visti prima di loro. Un gruppetto di ragazzotti, sui vent'anni, che uscivano dal negozio della Roma, e che vedendole e riconoscendole come partecipenti al corteo che aveva reso scomodo il loro pomeriggio di shopping, le hanno gentilmente apostrofate: "Ve siete tolte dai cojoni, finalmente. Ma annatevene a casa!" E giù a ridere.
Li abbiamo ignorati. Sappiamo ignorare, lo abbiamo imparato da bambine. Ma non veniteci a dire, a noi che sappiamo che "per noi nessun posto è sicuro" come dobbiamo sfilare.
Se "una rivoluzione non è un pranzo di gala" , un corteo di protesta non è un tè delle cinque. Anche se a protestare sono le donne.

madri e figlie

Eravamo tutto un gruppo di amiche intente a preparare i cartelli per la manifestazione del pomeriggio. Un 8 marzo '79, credo. E mia figlia disse: "Anche io voglio fare un cartello." "Bene, che cosa ci vuoi scrivere?" Ci pensò un po' su e poi: "Io sono Francesca." Approvammo. "Prendi il cartone, tieni i pennarelli." Mentre cominciava a scrivere si arrestò."Siamo proprio tutte donne?" "Tutte donne", le confermai. "Va bene allora aggiungo: Ma potete chiamarmi Picci".
Il suo cartello alla fine diceva proprio così: "Io sono Francesca. Ma potete chiamarmi Picci". A me sembrò allora e sembra ancora oggi, un bellissimo cartello.

Oggi pomeriggio sarò alla manifestazione contro la violenza sulle donne e devo ancora preparare il mio cartello. Non so ancora che cosa ci scriverò.
Non è un 8 marzo e non c'è niente da festeggiare. Tranne il fatto che mia figlia ed io torniamo in piazza insieme.



est modus in rebus

Il primo è stato bip, diverso tempo fa’. Mi ha fatto osservare che i miei post erano troppo lunghi e che, volendoli lui leggere con la colazione del mattino, lo mettevano in difficoltà.
Un’osservazione analoga mi viene ora da Anna. Mi ha fatto notare che i miei post, presentandosi così lunghi, tendono a scoraggiare. Hanno ragione entrambi. Del resto io stessa, poco tempo fa’ ho chiesto a Polle di dividere in puntate più brevi un suo bellissimo racconto per renderne più agevole la lettura.(classico caso di bue che dice cornuto all'asino).
Mi impegnerò per scrivere post più brevi o vedrò di dividerli in sotto-post.
Secondo voi, qual è la lunghezza ideale di un post?

venerdì 23 novembre 2007

black-out

Primo giorno di black-out.
Di primo acchito m’è parsa una catastrofe. Peggio: la rivolta dell’esistente e del razionale. Peggio, un complotto. Non potendosi trattare, nel mio caso, dei post, vetero o neo comunisti, dev’essere stata la P2 di Gelli, mi sono detta.
Arrivata a questo punto sono tornata in me e ho telefonato al mio provider. Il mio provider è “persona” squisitissima, sempre pronta ad intervenire in aiuto dei suoi clienti e quindi mi ha fatto eseguire la manovra, altamente spericolata, del cosiddetto “stacco e riattacco”. Che consiste nel togliere temporaneamente la corrente elettrica al router e ridargliela dopo aver lasciato passare trenta secondi. Non ventotto o trentacinque, ma trenta. Questo perché l’operazione non ha natura razionale, scientifica, ma semplicemente apotropaica. Contare quei trenta secondi, in uno stato di sospensione delle proprie funzioni vitali, ha lo scopo di convogliare l’attenzione benevola degli dei su di te, distogliendo in contemporanea quella delle parche dal tuo router.
Quando lo “stacco e riattacco” fallisce, non resta che la Speranza. Nel mio caso l’operazione ha fallito e il mio provider è passato a verificare l’ultima ipotesi benigna e cioè che nella vasta e intricata rete dei collegamenti, non ci fosse una zona fallace, momentaneamente in panne, comprendente anche la mia linea.
Ma, “anche la Speme, ultima dea, fugge” i router. Nessun guasto, in nessun settore. Ergo, è la mia personale linea a non rispondere. Il verdetto- c’è un guasto sulla sua linea- mi è stato comunicato con tutta la cautela del caso, come si comunica un male potenzialmente incurabile ad un paziente ancora lucido. Circa la prognosi la vaghezza si impone. “Domani forse, ma più probabilmente dopo domani-la terremo informata-.
E infatti, dato che il mio provider è “persona” di parola, il mattino dopo mi ha telefonato per dirmi che, no, non si era potuto intervenire. Veramente io lo sapevo già perché il mio programma di posta, su mia indicazione, continuava testardamente a tentare di collegarsi e regolarmente mi comunicava: Error while checking mail. Mi ha comunque fatto piacere vedere che qualcuno seguiva il mio caso e che non ero stata abbandonata al mio destino. Mi sono quindi guardata intorno e mi sono chiesta: che cosa si fa, nell’era di Internet, quando si viene improvvisamente separati dal mondo? Ho anche interrogato le mie emozioni, per poterle, se del caso, riferire ad uno psicoterapeuta. Ho avuto conferma che reggo bene i colpi del destino: infatti, benché notevolmente infastidita, sentivo che il mondo era ancora appetibile per me e la mia giornata potenzialmente attraente. Rassicurata circa una mia possibile dipendenza dal medium, ho indirizzato la mia attenzione al cassetto dei “sospesi”. I “sospesi” sono tutti quei lavoretti che inizio di slancio e abbandono distrattamente nel corso delle mie giornate. Si accumulano lì e, per non vederli, li tengo appunto in un cassetto apposito. Ne ho così portati ad esecuzione un certo numero: riattacando spalline a due sottovesti in seta di mia figlia (sì, è quel tipo di donna), facendo l’orlo ad un paio di pantaloni di mio marito acquistati l’estate scorsa e mai più presi in mano (sì, sono quel tipo di moglie), e rinforzando i bottoni ad una giacca di mia sorella “piccola”(sì, è quel tipo di sorella “piccola”). Il mio senso del dovere si è però presto dileguato e mi sono volta a qualche cosa di un po’ più creativo. Ho perciò messo mano alle mie lane. Le mie lane sono qualche cosa di difficilmente immaginabile.
Io posseggo lane di ogni e qualunque colore, in ogni e qualunque tonalità, e di ogni e qualunque sfumatura. Chiedete e avrete. O meglio, vi mostrerò, perché delle mie lane sono molto, molto gelosa e solo in casi di vero amore potrei far dono di un mio gomitolo di lana. Comunque: vi interessa un rosso Magenta? Ce l’ho. Si tratta solo di cercarlo tra i ventisette rossi diversi, nella scatola dei rossi. Un verde Nilo? Ce l’ho. Aspettate un attimo che io lo districhi di tra i quindici verdi nella scatola dei verdi. Un giallo ocra? Ce l’ho e questo è facile, perché di gialli ne ho solo una decina. Per il blu di Prussia, dovrete invece avere un po’ di pazienza, perché di azzurri ne ho almeno una trentina. Vi state spazientendo, me ne rendo conto. Ma le mie lane sono questo e cioè il più vasto, completo e ordinato campionario di lane presente su Roma ad esclusione del negozio di Lana Gatto di Piazza S. Lorenzo in Lucina. Infatti, alla mia personale collezione di lane, un anno fa’si è aggiunta quella, semplicemente sontuosa di mia mamma, che ho ereditato tutta io, (insieme alla sua passione per le lane, come è evidente) in quanto le mie sorelle sono, per mia fortuna, una totalmente inetta, e l’altra mortalmente pigra.
Nel complesso, ho una dotazione di lane così corposa che, anche se lavorassi a maglia tutti i giorni della mia vita da qui in avanti, non riuscirei a finirle per il giorno del mio trapasso. A meno di campare fino a centoventi anni. E mi fermo qui per non infierire, perché potrei passare all’inventario dei cotoni, che pure mi dà delle grandi soddisfazioni. Messa dunque mano alle mie lane, ho scelto una lana adatta allo spirito della giornata. Una grossa lana, di un bel color grigio-cielo, di diametro irregolare, con la quale ho iniziato, detto fatto, una sciarpa a coste. Tralascio la spiegazione del punto, sia perché è un classico ed ogni signora lo conosce, sia perché sento che, nei signori, l’irritazione monta.
Ho lavorato un’oretta almeno, portando un bel po’ avanti la mia sciarpa, dato che la lavoravo con i ferri del n. 10 (Oops, scusate!) e mi sono quindi rivolta ad altra attività. Sono infatti costante nel dovere ma stufarella nello svago. Mi piace concedermi piaceri diversi. Honni soit qui mal y pense.
Ho quindi tuffato le mani nella mia personale grotta di Alì Babà. Vale a dire un enorme scatolone dove miriadi di perle, perline, ciondoli- in vetro, plastica, legno, resina-e inoltre bottoni, ganci, tubicini, clips, minuscole chiavi e bulloni (semplifico e tralascio per non annoiarvi), ordinatamente suddivisi, attendono, insieme a rocchetti di fili in rame, argento e ottone di ogni e qualunque colore, spaghi, lacci in cuoio ecc. un mio momento di ispirazione. L’ora ics dei monili. Quando l’ora ics scatta, assemblo, artisticamente, vecchi lembi di chiffon colorato, o di velluto o di raso con rame e perle o bottoni o gocce di lumi, insomma quello che al momento mi sembra “nato per...” e creo, all’istante, collane che, senza alcun pudore e con la massima convinzione, mi sento di poter definire “stupendose”. Del resto riscuotono un incredibile successo quando mia figlia, che ne è l’esclusiva beneficiaria, le indossa. Sono originali e sofisticate fino a sfiorare l’artistico (giuro!) e mi costano due lire. Mi rifornisco infatti sui banchi più astrusi di Porta Portese, dai ferramenta, dalle merciaie e dai lattonieri. Mi sono dotata di attrezzature per tagliare il rame e la latta e per bucare il cuoio e pasticcio in grande allegria e massima concentrazione finché l’ora ics non volge al declino. Giovedì mattina l’ora ics del monile è durata, appunto, un’ora, e ha prodotto una collana quale non ne avete mai viste e che sto meditando di fotografare per mostrarvela e magari iniziare un piccolo commercio in rete.
Mi sono quindi volta verso nuovi orizzonti, nella fattispecie un negozio di scarpe in pre-pre-pre vendita speciale, dove mi sono recata in compagnia della sorella pigra, di quella inetta e della figlia charmante. Una non florida situazione monetaria mi ha aiutata a conservare un sufficiente distacco di fronte alle meraviglie esposte e a limitarmi ad acquisti per mia figlia. La quale ha incamerato ben tre regali di Natale, dalle zie e dalla madre, in forma di scarpe e penso che, quando sarà, potrò chiudere gli occhi serena sapendo che mia figlia non girerà scalza. Il fine mattinata mi ha infine vista riconvertirmi in massaia diligente e il pomeriggio mi ha restituita alla mia dimensione di lettrice e scrivente.
Questa è la cronaca della mia prima giornata di totale scollegamento dalla rete.
Penso di poter dire che la mancanza di Internet lascia spazio alla creatività, ma anche allo shopping e quindi, tra un effetto positivo ed uno negativo, segnerei un pareggio.
Segue....

Secondo giorno di black-out.
Sono un po’ infastidita. Aspetto un documento da un avvocato e vorrei inviare un assaggio del mio libro ad un’amica. Ma la posta non funziona ancora. Avrei bisogno di controllare in rete l’esistenza di una versione in latino, o in francese di un testo greco e non posso farlo. Vorrei scaricare "Le avventure di un bruco", per tenerlo di riserva in occasione della prossima visita di mio nipote. Per quando la lotta mi avrà estenuata, tutte le costruzioni giaceranno sparpagliate in terra, i puzzle li avrà già fatti tutti due volte e l’alternativa sarà un DVD con i Power Rangers. Contro i Power Rangers non ho niente, tranne il fatto che mettono in luce una insospettabile natura “maschilista” in Tommasino. L’ultima volta in cui si è parlato dei Power Rangers e dei loro poteri tra mio nipote e me, il dialogo è andato in questo modo: Lui: Quando sono più cresciuto anche io avrò i poteri. Io: Anche io avrò i poteri? Lui: No, tu no. Io: E perché io no? Lui: Perché tu sei femmina.
Ora, un concetto del genere, non lo ha certo recepito in famiglia, né nella casa dei nonni(mio marito, che di difetti ne ha molti, è spontaneamente femminista al massimo della potenzialità di un maschio), né in casa sua, dove il padre, pur conservando tutte le sue contraddizioni maschili, è la negazione vivente di un’idea “maschilista” dei maschi, per non parlare della madre, mia figlia, che teorizza convintamente la necessità della specie di superare la riproduzione sessuata.
Gli insegnanti della scuola materna che Tommasino frequenta sono a prova di test “femminista”. I compagni non lo so, ma trattandosi di una scuola materna molto libertaria, le famiglie dovrebbero essere al di sopra di ogni sospetto. Dovrebbero.
Non essendo Tommasino un fruitore televisivo ed essendo un fruitore cinematografico e DVDdico solo sotto sorveglianza familiare, e per pochi e scelti temi, resta una sola spiegazione: nell’aria delle nostre città circola un veleno ben più pericoloso dello smog, un veleno mortifero, che aleggia trasportato di bocca maschile in bocca maschile e che perviene alle orecchie degli innocenti. E inoltre, non esiste ambiente che possa dirsi veramente immune da un morbo di cui la società italiana non si è mai liberata.
Sabato il bimbo accompagnerà la mamma e la nonna alla manif contro la violenza sulle donne, di modo che, se non verrà ricacciato a lato del corteo da qualche femminista invasata, possa vedere con i propri occhi che la costituzione femminile non comporta controindicazioni per i poteri.
Comunque, per tornare al mio router, il suo silenzio mi comincia a pesare.
Segue...

Terzo giorno di black-out
Realizzo improvvisamente che non ho nessun modo per avvertire i miei fan che se non “posto” non è per mia colpa e che non sto scioperando. Che conseguenze avrà questo mio silenzio? Mi abbandoneranno? Scopriranno l’esistenza di miriadi di blog molto più interessanti, intelligenti e piacevoli del mio? Si dimenticheranno di me?
Oppure qualcuno fra di loro, arriverà a preoccuparsi per la mia sorte? Questo pensiero è per me sommamente molesto. Se qualcuno si preoccupa per la mia sorte io vengo schiacciata dal senso di colpa. (Paola, accettami così come sono, con i miei sensi di colpa, tanto non riuscirai a rendermi felice). Per sentirmi tranquilla io devo arrecare il minor disturbo possibile al genere umano. In cambio mi piacerebbe che il genere umano arrecasse il minor disturbo possibile a me, ma questo, comunque, è secondario.
Mi rendo conto che la mancanza di Internet, si ripercuote su di me in due modi diversi. Da un lato perché mi priva di una serie di comodità (posta e consultazione), dall’altro perché mi mette in condizioni di non poter assolvere ad un compito.
Capire questo e fare un salto sulla sedia è tutt’uno. Cazzarola, no! Questo no!
Se, nel giro di sei mesi, il blog ha pian piano assunto nella mia coscienza la connotazione di compito, bisogna immediatamente, ipso facto, repente et subito, correre ai ripari! Se il mio Super-ego ha deciso di costituirsi parte civile nel processo intentato da me a me per sottrazione di post ai miei lettori, debbo, immediatamente, far scattare il mio piano anti Super-ego, collaudato in anni ed anni di feroci battaglie.
Allora, ragazza mia-mi dico-se le cose stanno così, sai già cosa devi fare. Non appena avrai di nuovo la linea, ti asterrai, rigorosamente, per non meno di tre giorni, dal postare la qualunque. Ristabilirai il senso e la natura del tuo “fare blog” e ti sottrarrai ad una nuova forma di responsabilità. Le tue sufficiunt.
D’accordo? D’accordo.
Mi ero appena fatto questo bel discorsetto quando mi ha chiamata il tecnico preposto alla vigilanza della mia connessione con il mondo.
Abbiamo ripetuto iniseme la pratica dello “stacco e riattacco” e questa volta ha funzionato. Evidentemente repetita juvant non è solo un modo di dire. Si è congratulato con se stesso per la sua abilità e mi ha augurato una buona navigazione.
Dopo di che mi sono applicata alla stesura di questo post che vado, appunto, a postare.
Super-ego batte io, uno a zero.

mercoledì 21 novembre 2007

il Gallo triste

Questa notte mi sono imbattuta in un aforisma di Emil Cioran, nella penultima pagina di “Confessioni e anatemi” edito da Adelphi. Del libro dirò poi qualche altra cosa, intanto la citazione: “Il francese: idioma ideale per tradurre delicatamente sentimenti equivoci.”Il che, detto da un così raffinato scrittore in lingua francese, è degno di nota. Ma a me ha colpito perché io ho avuto per molto tempo un pregiudizio negativo nei confronti del francese. Lo consideravo, grosso modo, come una lingua solo femminile, e in tal caso, molto bella, armoniosa, affascinante, ma punto maschile. Secondo me un uomo che parlava in francese perdeva il suo fascino maschile. Bizzarrie, vero. Arrivavo a chiedermi come gli uomini francesi potessero convincere le donne francesi ad aiutarli a riprodursi. Quando pensavo queste cosucce, il francese non lo conoscevo, o meglio lo conoscevo solo come suono in bocca altrui. Questo per dirvi di quali pregiudizi posso essere capace. Poi andai a vivere a Parigi e scoprii, non solo che il francese stava benissimo anche sulla bocca degli uomini, ma che poteva essere molto seduttivo. Il francese l’ho studiato alla Sorbona e questo periodo resta uno dei miei più bei ricordi di Parigi. Frequentare la Sorbona mi sembrava semplicemente un miracolo. Mi godevo tutto. La solennità, la storia, la bellezza di quel luogo. E lo stare a contatto con tutti quei giovani, mischiarmi a loro, con i miei 43 anni e lasciarmi ringiovanire dal loro spirito. Mangiavo nei loro caffè, leggevo nei loro cortili. Spulciavo le loro bacheche e, infine, chiacchieravo con loro. Il corso di Lingua Francese per stranieri che frequentavo era tenuto da un professore molto molto francese, nel senso meno piacevole del termine. Convinto di stare civilizzando un branco di sottosviluppati. Reazionario molto più che conservatore, razzista e naturalmente ipersciovinista. Ma non mi era antipatico. Tra di noi si stabilì fin dal principio un rapporto di odio-amore. E iniziò uno scambio, impari ma mai sopito, di battute al veleno. Se lui affermava che Caterina de’ Medici aveva portato in Francia l’uso di avvelenare gli avversari politici, io gli replicavo ipso facto che aveva portato anche le forchette in una Corte dove si mangiava con le mani. Se lui osservava che la periodizzazione Renaissance / Rinascimento non coincideva tra Italia e Francia e lo imputava ad un nostro arbitrio classificatorio, io gli replicavo che dipendeva solo dal fatto che noi, prima, avevamo avuto l’Umanesimo, noi, che poi, noi, avevamo passato a loro..
Un’altra bestia nera del Professore era la Greca. Una giovane, di bellezza statuaria, con solo un naso un po’ troppo greco (o meglio, un po’ troppo e basta) che lo aveva in vivissima antipatia. Si sentiva, giustamente, appartenente ad una cultura che non doveva abbassare il capo di fronte a nessun’altra. Era a sua volta un po’ razzista nei confronti dei numerosi ragazzi africani, e sud americani, ma molto simpatica per molti altri atteggiamenti.Era lei a portarci nei ristorantini greci del VI arrondissement e a farci bere allegramente. Era sempre lei a far girare nascostamente, durante la lezione, ritrattini improvvisati del professore in pose erotiche. Disegnava molto bene e anche la sua fantasia erotica era notevole. Avevamo costituito un asse cultura greca-latina e ci divertivamo a indispettire il professore.
La farò breve: eravamo una vera coppia di comici. Quanto al Professore, lui ed io avevamo all’incirca la stessa età e la stessa formazione. Ma simpatie culturali, politiche, storiche molto diverse. La polemica era sempre in agguato. Ciò nonostante ero la sua allieva migliore (bella forza, ero l’unica di lingua neolatina, la più matura, con tutto quello che comporta l’età, insegnante di lettere e, probabilmente, la più affamata di sapere). Non ci voleva molto.
Animato da un forte spirito competitivo, il Professore voleva che una sua allieva risultasse tra i tre premiati al termine dei corsi e mi informò che puntava su di me. Gli dissi che scommetteva sul cavallo sbagliato, essendo io una collaborativa e non una competitiva. Avevo l’abitudine di rispiegare a Olandesi, Tedeschi, Brasiliani e Greci (il gruppetto che frequentavo) le regole che lui buttava là con sufficienza, intervallate da osservazioni sulla superiore bellezza e logica della lingua francese. Lui trovava che questo non andava bene, perché ognuno doveva con le sue sole forze, procedere sulla via della civilizzazione da lui additata.
Un giorno scoprì che al corso di pronuncia, tenuto da altri insegnanti in un bellissimo e super attrezzato laboratorio linguistico, io ero l’ultima degli ultimi. Apriti cielo! Dovevo impegnarmi! Come potevo essere così scadente? Lo ero perché per la musica delle lingue sono negata. Non riesco a riprodurne i suoni. Credo che ci siano due fattori che entrano in gioco: uno semplicemente organico, una difficoltà del mio apparato uditivo e/o fonatorio e un secondo di ordine psicologico. Mi è semplicemente impossibile imitare qualcuno. Mi sento come se tradissi me stessa. Mi svilisce fare le smorfie altrui, scimmiottare i loro atteggiamenti facciali ecc. Lo so è ridicolo, infantile e molte altre cose negative, ma è più forte di me. Mi sentirei semplicemente ridicola ad atteggiare la mia faccia per il "bien sur" francese, come per il "the" inglese. Le lingue impongono, con i loro suoni, una mimica: io semplicemente tento di parlarle conservando la mia. Il risultato lo potete facilmente immaginare. Il Professore, protestava, mi incalzava continuamente, mi esortava, mi rompeva le balle. Quando si giunse agli esami, mettendo assieme i risultati delle prove di traduzione, composizione, dettato e, orrore! lettura, risultai quarta. Il poveretto era inconsolabile. Si sentiva tradito.
Comunque la cerimonia finale, nell’aula magna della Sorbona, in cui ognuno di noi sfilò sul palco a ritirare il suo diploma, la trovai splendida. Avrei passeggiato su quel palco tutta la mattina. Venivo dalla Sapienza di Roma, non so se mi spiego!Dove, se ti andava bene, dopo qualche anno e ripeto, dopo qualche anno, ti davano il diploma di laurea. E il bidello di Lettere, un uomo il cui favore poteva aprirti ogni porta, e che per quattro anni di fila ti aveva appellata cosi: Hei, tu! Dove vai?” appena uscita dall’auletta sporca dove ti eri laureata, veniva lì e ti diceva “auguri dottoressa”, tendendo la mano per le diecimila. C’era di che sputargli sui piedi e restituire la laurea. E invece là! Stretta di mano del rettore, tutti gli insegnanti schierati, e gli studenti nel loro eccitato chiacchiericcio. Me lo sono goduto quel corso di francese alla Sorbona. E come me la godo ancora la conoscenza del francese! Ed ora Cioran mi dice che “è l’idioma ideale per tradurre delicatamente sentimenti equivoci.”
Nel delicatamente c’è della verità. Eppure il francese è anche una spada affilatissima.
Se il mio Professore legge quest’aforisma, sai come gli girano! Tentò di uccidermi, il tizio. Il mio primo anno a Parigi, l’inverno fu furiosamente infame, anche per i parigini. Neve, neve e neve. Freddo come non se ne aveva da vent’anni. Mi sembrava di stare in Russia, ma non esisteva possibilità di ritirata. Passavo da un raffreddore potente ad uno megagalattico, completi di mal di testa, tosse e lacrimazione. Una mattina il Professore, premuroso, mi passò un suo medicinale. Un antistaminico, disse blandamente. Mezz’ora dopo non lacrimavo, il naso non mi colava, non avevo più saliva, ero più asciutta di un cactus del Nevada, ma la mia pressione era scesa in prossimità dello zero. Qualcosa del tipo: “La stiamo perdendo, la stiamo perdendo!” Mi sentivo precipitare lentamente nell’indistinto, le orecchie mi fischiavano e, soprattutto, non riuscivo a maledirlo! Questo parossistico desiderio di insultarlo, fu lui a tenermi in vita. Ma lo perdonai. Devo dire che il piccolo reazionario mi faceva tenerezza. Aveva uno di quei tagli di capelli che, da Ottaviano Augusto in poi, nessun uomo ha più portato, tranne appunto i reazionari francesi. La frangettina sulla fronte pallida, gli si scomponeva nell’irritazione. Gli occhi, mobilissimi, dardeggiavano disapprovazione e supponenza. Ma aveva una bellissima voce, che riusciva, quasi, a far dimenticare le camicie a grosse righe grige che indossava sotto giacchettine striminzite, completate da cravatte malinconicamente pendule e da un immancabile impermeabile troppo corto. Un pomeriggio lo incontrai in una pasticceria sulla Dominique. Sedeva solo davanti ad un caffè con un giornale e un libro accanto. Mi portai il mio millefoglie al suo tavolino, decisa ad infastidirlo un po’. Ma fu molto contento. Chiacchierammo un po’ e lui, ogni tanto, mi correggeva la pronuncia. Gli raccontai qualcosa della mia vita. I miei studi, i miei viaggi, i miei interessi, mia figlia. Di lui venni a sapere che viveva solo in un appartamento adiacente a quello della madre. Amava il cinema tedesco e la musica lirica. Buttai un’occhiata al libro sul tavolo: Le elegie duinesi di Rilke. Piacciono anche a me, ma aggiunsero tristezza alla sua immagine. Lo sentii molto solo. Non ricordo come venne fuori il nome di Rousseau, il colpevole di tutte le colpe, dalla rivoluzione Francese al Sessantotto. Lo chiamava, con dispetto misto a spregio, lo Svizzero. Ci incontrammo invece su Brassens, prima che gli infliggessi la definitiva delusione dichiarando di preferirgli, almeno per le musiche, Jaques Brel. Un belga, Mon Dieu! Veramente tentò di farlo passare per francese, secondo quella pratica oltremontana per cui tutte le glorie appena appena sfiorate dalla “francesitudine” diventano, ipso facto, francesi. Del resto, le testimonianze della presenza romana in Gallia, vengono dai francesi chiamate civiltà Gallo-romaine.
Per carità, Cesare fu pessimo, e il famoso bellum gallicum un vero massacro, ma è impensabile stabilire un rapporto di parità tra i livelli di sviluppo culturale di quei due popoli. I Francesi però, lo fanno, molto convinti. E mentre, quando a Roma arrivarono le notizie circa il numero di morti- uomini, donne, bambini, vecchi- causati dalla guerra gallica, in Senato si discusse di un possibile vituperio per Cesare,(allora!) qualsiasi tentativo di far presente ad un Francese che Napoleone non è proprio quell’eroe positivo che loro credono, provoca tre tipi di reazioni da parte dei Francesi: o si scandalizzano o si sorprendono o si incazzano. Il mio Professore era del tipo che si incazzava. Per questo era così divertente provocarlo. Ma quella sera non lo provocai ulteriormente e quando me ne venni via, lasciandolo solo al suo tavolo, quel Gallo triste, era diventato per me, tanto per cambiare, un nuovo affetto. C’est ça. Ma vorrei poter assicurare a Cioran che non si tratta di un sentimento equivoco.

martedì 20 novembre 2007

tranche de vie

Meraviglia del progresso tecnologico! Ho riavuto indietro tutta una serie di pezzetti della mia vita sotto forma di CD e DVD.
Decine e decine di diapositive ormai non più visionabili e filmini ormai inutilizzabili sono tornati alla luce. Il mio fotografo, un tipo simpaticissimo, mi ha detto: "la rivò la sua vita indietro? Io co' 70 euro me so' rifatto la mia". Poiché ha una decina di anni meno di me, ho calcolato di spendere un po' di più e gli ho portato una prima tranche de ma vie.
C'è la mia III del '74, Artena, impegnata in una partita di pallone con una classe di Valmontone. Il campetto spelacchiato, io con mia figlia in braccio che al termine della partita passeggio sul campo. Me la ricordo quella giornata. O meglio, adesso, me la ricordo. Le immagini sono un po' tremolanti e non sempre a fuoco, ma ho risentito l'odore della primavera nella campagna sguarnita e le implorazioni : "Ce vieni a vedé, professò? dai" e le ragazze: "Portati tua figlia, professò, faccela conosce". Se la palleggiarono tutto il tempo, mentre io tifavo. Poi c'è il mio cane Buck, che corre impazzito sulla spiaggia di Tarquinia, si butta in acqua e recede inseguito dall'onda, ha una galoppata sfrenata e selvaggia. E mia figlia, tre anni, che tenta di sottrarsi, inutilmente, alle sue leccate entusiaste. Buck l'amava nel modo definitivo dei cani verso i cuccioli di uomo. Quella bimba era cosa sua, nessuno avrebbe potuto avvicinarla con intenzioni meno che affettuose. Ma era pronto a portarle via, fulmineamente, il biscotto che teneva tra le manine. Del resto lei si accucciò vicino alla sua ciotola e mangiò, con viva soddisfazione, parte della sua pappa, sottraendogliela con le stesse manine. Se penso a quella mia disattenzione mi autodenuncio a telefono Azzurro.
E c'è il deserto iraniano che scorre dietro il finestrino della Honda, le tende nere e basse dei nomadi e le carcasse degli animali, e quelle delle macchine, accatastate una sull'altra. Venivano lasciate apposta a monito dei guidatori iraniani che erano dei pazzi furiosi o dei filosofi nihilisti.
E poi c'è il giardino della casa dei miei a Tarquinia e mia madre, bellissima a sessanta anni, che avanza con la sua eleganza sciolta e tiene mia figlia per mano. Le mostra un alberello, che adesso è una grossa acacia e poi la solleva d'impeto verso il cielo. E c'è mia figlia che trotterella dietro a mio padre e mio padre che tira sassi al cane di casa, Pippo. Li ho guardati più volte. Sono muti, naturalmente, eppure parlano. Sembrano dirmi: "Tranquilla Marina, vedi? La vita c'è stata". Perché in effetti, certe volte, mi sembra di percepire uno stacco, qualche secondo lungo qualche decennio, tra quando, ragazzina, giocavo sul terrazzo di mia nonna e facevo le caramelle di zucchero d'orzo con mio nonno e ieri, o l'altro ieri, o tutt'al più la settimana scorsa. E mi chiedo: Sì, ma la mia vita dov'è andata? Eccola lì, aveva ragione il fotografo. Gli ho già portato un'altra tranche de ma vie.

lunedì 19 novembre 2007

pas d'égalité



Insospettabile. Ma colpevole.
È Sylvain Maréchal (1750-1803), poeta, scrittore, giornalista e polemista francese. Illuminista, politicamente attivo, che per una violenta campagna anticlericale si fece diversi mesi di prigione. Rivoluzionario estremista, sostenne che la Rivoluzione non aveva affrontato il problema centrale, quello dell’ingiustizia sociale. Seguace di Babeuf, proto- comunista, propugnò un’assoluta eguaglianza sociale: “Basta con la proprietà della terra! La terra non è di nessuno!”
Questa bella figura di combattente per liberté, égalité et fratenité, è l’autore di:
“Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere” (Archinto editore).
Il progetto di legge (1801) non è una provocazione, ma una convinzione, che Maréchal motiva ampiamente.
Ne nacque un dibattito culturale, in cui non si trovò affatto in minoranza.
Del resto la Rivoluzione Francese, dopo un primo momento di autentica spinta democratica, subì una involuzione di cui, naturellement, le prime a fare le spese furono le donne. E Olympe de Gouges, che osò scrivere la "Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne", pagò la sua audacia con la vita. Con la testa, per la precisione. E, due anni dopo, un decreto vietò ogni attività politica alle donne, passibili di arresto se si fossero radunate in strada in più di cinque.
L’unico tra i grandi della Rivoluzione francese, che riconobbe il nesso tra cultura e liberazione e condusse una solitaria e sfortunata battaglia contro ogni tipo di discriminazione fu Marie Jean Antoine Nicolas Caritat, marchese di Condorcet, ( Signore e Signori, in piedi!) che, prima di morire suicida in carcere, scrisse "De l’admission des femmes au droit de cité" (1790).
Il clima culturale quindi consentì a Maréchal di sostenere senza nessun imbarazzo una posizione che, di fatto, si riprometteva di tagliare fuori da ogni diritto la metà del genere umano, sulla base della sua identità sessuale.
Se ci si estranea dalla serietà di questa posizione e dal suo contesto storico, il libretto è irresistibilmente divertente.

Gli articoli di legge sono preceduti da una serie di 'Motivi della legge' tra i quali è difficile scegliere. Ne scelgo alcuni:

Considerando...
Che la delicata innocenza propria di una vergine vede sfiorire la sua fragranza vellutata nell’attimo in cui è toccata dall’arte e dalla scienza, nell’attimo in cui un insegnante l’avvicina. La prima lezione impartita ad una fanciulla, è il primo passo forzato del suo allontanamento dalla natura.

Che il grazioso cicaleccio femminile compenserà con gli interessi l’assenza della penna.

Che le donne che menano vanto di saper leggere e scrivere bene, non sono quelle che sanno amare meglio.

Che, di solito, una donna perde in avvenenza e persino in verecondia, nella misura in cui accresce la sua cultura e il suo talento.
Per poco che sappia leggere e scrivere, una donna si crede emancipata e libera dalla tutela che la natura e la società le hanno imposto nel suo stesso interesse.

Che la qualifica di donna che sa leggere nulla aggiunge ai sublimi e commoventi attributi di brava ragazza, brava moglie, brava madre né al modo di adempiere a quei dolci e sacri doveri.

Che in una casa regnano lo scandalo e la discordia, quando la moglie ne sa quanto o più del marito.

Quanto le donne diventino sciatte, indolenti, presuntuose, schizzinose, bisbetiche, indisciplinate, per poco che sappiano leggere e scrivere.

Che le scrittrici sono meno feconde delle altre donne.

Che da quando, in ogni professione, ci s’imbatte in donne che sanno leggere, la nutrice riduce il poppante alla fame; la commerciante trascura il negozio e la cuoca la cucina; l’operaia incomincia più tardi e finisce prima la giornata; la parrucchiera distratta brucia le bionde chiome della cliente; L’infermiera e la farmacista, per un equivoco, ammazzano i malati..

Che la gloria di una donna sta nel vivere ignorata e nel rimanere ignorante.

Io ho semplicemente adorato l'espressione "fragranza vellutata" e l'idea di averne posseduta una, sia pure in un tempo irrimediabilmente passato, mi ha commossa. Mi secca un po', invece, quest'idea di aver perduto "avvenenza", mentre della "verecondia" ero perfettamente consapevole. Ma andiamo avanti.
Dopo un centinaio circa di queste considerazioni, Maréchal passa ad elencare agli articoli di legge. Tutti sono enunciati in nome della Ragione, scritta con la maiuscola. Ne riporto solo alcuni, non necessariamente i più pesanti.

Articolo I
La Ragione Vuole (anche a costo di sembrare incivile),che le donne, nubili, maritate o vedove, non ficchino mai il naso in un libro, né impugnino mai una penna.

Articolo III
La Ragione Vuole che ogni sesso stia al suo posto e che ci resti.


In successivi articoli la Ragione Vuole che le donne siano interdette da: leggere, scrivere, stampare, incidere, compitare, solfeggiare, dipingere.
Che siano tenute lontane da: penna, pennello, matita, bulino, disegno, pittura, incisione, note musicali, altre lingue oltre la materna, grammatica, storia, geografia,(La loro debole memoria mal sopporta il fardello delle date e di una difficile nomenclatura sic) astronomia, botanica, chimica. (Contino le uova in cortile e non le stelle del firmamento! sic Conoscere gli ortaggi per la zuppa è più che sufficiente!sic)

Articolo XII
La Ragione Vuole che i mariti siano gli unici libri delle loro mogli; libri viventi, ove giorno e notte, esse imparino a leggere il proprio destino.

Articolo XLV
La Ragione Vuole che le donne si accontentino di ispirare i poeti, senza cercare di diventarlo loro stesse.

Articolo LX
La Ragione Vuole che i buoni libri siano letti alle donne, non dalle donne


E veniamo alla sanzioni:

La Ragione Vuole che ogni cittadino, il quale avrà scelto come sposa e compagna una letterata o un’artita, sia perciò stesso ritenuto inadatto ad assumere una carica pubblica di una certa importanza...
La Ragione... proibisce agli uomini di scrivere sotto dettatura da parte di una donna, eccezion fatta per una lettera al padre o al marito lontano...

Articolo LXVI
La Ragione Vuole che alle donne che si ostinassero a scrivere libri, non sia consentito avere figli.

Ogni padre e capofamiglia si procurerà una copia della suddetta legge, così da affiggerla nel luogo più in vista della casa.


Quello da me fatto è solo un piccolo florilegio di una sequela di affermazioni tra l'offesa sanguinosa e la irrisione.

Va però riconosciuto a Maréchal un soprassalto di gentilezza nei confronti delle signore, quando dice che I Padri e i Mariti sono responsabili della rigorosa osservanza della presente legge. Essi soli saranno puniti, se le figlie e le mogli dovessero contravvenirvi.
Le Signore apprezzano. Peccato, comunque, per la testa di Olympe de Gouges.

domenica 18 novembre 2007

siamo seri



Finché si scherza, si scherza, ma legare la presenza di Cesare Pavese sul mio blog allo scansonato esercizio poetico giovanile di ieri, mi sembra ingiusto. Quindi ecco la classica, bellissima 'Lavorare stanca'


Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.

Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.


N.B. Il 5° verso 'Ci sono d'estate' dovrebbe iniziare a metà del rigo, come ideale continuazione sonora del ritmo del verso precedente. Non sono riuscita ad applicare il tag giusto. La cosa mi indispettisce alquanto. Se qualcuno di voi mi suggerisse il modo di far iniziare un testo a metà del rigo, meriterebbe la mia gratitudine eterna.

fresco di stampa

Ho finalmente tra le mani “Mio padre mi chiamava luna” di Maria Cristina Valeri, edito dalle Edizioni Libreria Croce di Roma.
È fresco di stampa. Ha un buon odore. E un buon sapore. Sa proprio di Maria Cristina. Ha la sua sensibilità, la sua spontaneità, la sua sincerità. Ove non si fosse capito: Maria Cristina è mia amica. Giovane amica. E questo libro, il suo primo, ha costituito anche il mezzo che ci ha permesso di passare da una conoscenza ad un' amicizia.
Cosicché è diventato mio amico anche lui.
Il libro è un romanzo, ma non del tutto. Contiene una storia, ma soprattutto la riflessione su questa storia. La storia è quella del rapporto tra un padre ed una figlia. Rapporto difficile, pieno di non detti, di zone di ombra, di incomprensioni.
Questo libro racconta il modo, maturo e sofferto, in cui la figlia guadagna, per sé e per il padre, un nuovo rapporto, di accettazione reciproca e di comprensione. Come succede spesso nelle nostre vite sono il dolore, il dramma, la paura, ad aprire le porte ad una nuova comprensione. La figlia affronta con il padre un lungo dialogo aperto, che accompagnerà lui verso la morte e lei verso un ricordo riconciliato e sereno.
Quello che il libro ci dice è che ci sono solitudini che si possono guarire e dolori che ci possono fare bene. È un libro anche doloroso, ma pieno di fiducia nella vita. Inizia ora il suo cammino e io ci tenevo a fargli i miei auguri. A lui e a Maria Cristina.

sabato 17 novembre 2007

juvenilia

Alle finestre di un 4° piano
di Cesare Pavese

Signorina dal golf rosso,
quel vestito bianco sotto
non vi pesa certo addosso
tanto è corto, tanto è ghiotto.

Siete sempre al balconcino
a guardar col naso in aria
svolazzar qualche uccellino:
vi sentite solitaria?

A distanza di una via
vi ho sott’occhi tutto il giorno;
mi mettete in frenesia:
scappo a tratti:ma poi torno.

Sempre contro la ringhiera,
senza il golf anzi sovente,
tiravate l’altra sera
su una calza: ma è decente?

È decente dico esporvi
a quel modo a un giovanotto
e poi fargli gli occhi torvi
se si tira un pizzicotto?

Se almen foste sì cortese
da inviarmi qualche occhiata
provocante, a più riprese
qualche mossa scollacciata.

Ma voi dura, signorina!
nel vestito corto corto,
quel vestito in mussolina
che a allungarlo avreste torto.

Quel vestito mi rivela
braccia gambe gola e spalle
se poi il vento lo solleva
dàlle, dàlle, dàlle,dàlle.

Signorina, signorina,
voi mi avete rovinato
tutto il giorno alla tendina
del balcone sto, infiammato.

e vi vedo-oh numi, oh stelle!-
là appoggiata sulle braccia
nude contro le mammelle
sempre tutta accesa in faccia.

Colle gambe un po’ allargate
stare dritta contro il ferro
sì che carne mi mostrate
fin di coscia, s’io non erro.

Mi parete in una posa
da ricevere all’istante
senza fare la ritrosa
un qualunque vostro amante.

Non ne posso più!Un bel giorno
verrò a voi sopra quei fili
che ci avvolgon tutto intorno
e quel po’ che di sottili

vesti avete, a mio dispetto,
vi saprò strappar con mano
e distendervi in quel letto
che ora vedo da lontano.

16/19 ottobre 1926
Cesare Pavese aveva 18 anni

venerdì 16 novembre 2007

saggezza popolare

Ogni tanto, per avere un punto di vista ingenuo (letteralmente) sugli eventi, me ne torno alla saggezza popolare e vado a leggermi qualche proverbio italiano. Lo faccio sul bellissimo Dizionario dei Proverbi Italiani di Carlo Lapucci, edito lo scorso anno da Le Monnier. Ve ne sono raccolti 25.000, quindi trovo sempre un giudizio popolare su cui riflettere.

Stamattina ho cercato politica/politico e ne ho trovati una piccola manciata. Ne traspare un tono deluso, uno sguardo disincantato, una amarezza di fondo. Non è spesso stato un bello spettacolo la politica in questo paese.

Si va da "Buon politico, tristo cristiano" a "Chi sta in politica deve saper sedere su due sedie".
Balena però anche l'idea che esista anche chi si volge alla politica disinteressatamente.
La politica è roba unta: chi ci scende e chi ci monta. Insomma c'è chi ci si rovina e chi ci si arricchisce.

Molto attuale un proverbio del primo ottocento:

Come disse un poeta di Mugello:
-La politica d'oggi è, a parer mio,
il dire:"Esci di lì, ci vo' star io."

speranza e disgusto

Non parlerò di loro, di Willie e Lambert.

Invece:
Alla quarta volta ce l'hanno fatta! Dal 1994 ad oggi si era già tentato di far passare all'ONU una risoluzione per una moratoria delle esecuzioni capitali. Sarà naturalmente l'Assemblea Generale a votare, entro la fine dell'anno, il testo della risoluzione, ma, nonostante l'incertezza sul risultato finale, quello di ieri resta un grande successo e un passaggio cruciale nella lotta alla pena di morte.
Piccolo sospiro di speranza.

giovedì 15 novembre 2007

aspic? no grazie!

Mi sembrava di giocare alle signore. Ma giocare alle signore non mi piaceva neanche da bambina.
Fu nei primi due anni di matrimonio. I colleghi di lavoro di mio marito si scambiavano cene socializzanti volonterosamente organizzate dalle mogli. Venivo ricevuta o ricevevo. E mi rompevo le balle. Sembra impossibile ma nel 1969 c’erano ancora giovani donne per niente stupide, di buona educazione e cultura, che al termine di una cena, si raccoglievano in una zona del salone a parlare di donne ad ore, moda e, secondo il peso, o diete dimagranti o ricette di cucina. Mentre i mariti, dall’altra parte, parlavano di politica. La politica era la mia passione e io tentavo di ascoltare che cosa si dicessero quei borghesi reazionari-così li consideravo, marito compreso-mentre distrattamente facevo cenni di assenso e sorrisi alle giovani signore. Durò non più di una manciata di cene, forse una quindicina in due anni, ma mi bastò e mi avanzò abbondantemente. Colsi al balzo la nascita di mia figlia e mi dichiarai non più disponibile per la vita di società. Che mio marito cancellasse le cene dal mio orizzonte o me dal suo. Le cene tornarono però all'assalto a Teheràn. Venivamo invitati a serate di rappresentanza, molto ben frequentate e molto noiose. Io ripresi a rompermi le balle. Inoltre le cene di società avevano regole di comportamento con cui non riuscivo a familiarizzarmi. I grandi sorrisi, il finto entusiasmo nell’incontrarsi, i pettegolezzi soft, la pesante ironia snob sul paese che ci ospitava, e poi tutto quello sciorinare tovagliati, argenti e porcellane in un paese dove si registravano ricchezze inimmaginabili e miserie invece benissimo visibili.
Mi dava particolarmente fastidio essere servita a tavola da giovani camerieri iraniani nei confronti dei quali mi sentivo, incolpevolmente, colonizzatrice anche io. Il nervosismo mi rendeva ancora più impacciata e goffa del solito.
Dava spesso di queste cene la giovane moglie del rappresentante di una grossa banca italiana e vi raccoglieva importanti uomini di affari di diversa nazionalità o grossi commercianti e professionisti locali. G. era una donna giovane, piena di energia e di ottimismo, una toscana con un certo gusto per il buon vino e molto determinata ad aiutare il marito nella sua carriera. Interpretava con molta abilità e convinzione il ruolo di rappresentante della banca, a nome della quale offriva le sue cene. Malgrado la tradizione culinaria di provenienza non era una grande cuoca, perché faceva prevalere l’effetto scenico sulla bontà dei piatti preparati. In tavola non mancava mai una pietanza in gelatina. Molto colorata, molto scivolosa, molto insipida. Bellissima da vedersi, mortificante per il palato. Quando mi anticipava il menù della serata, scherzando le chiedevo: "Che ci metti sotto la gelatina ‘stasera?" Poteva essere un piatto di carne o di verdure o anche di frutta, ma la gelatina era certa, come il suo bell’accento toscano. In una di queste cene, Alì, il giovane cameriere iraniano mi avvicinò solennemente il vassoio con un bell’aspic di tonno e verdurine colorate sotto la coltre traslucida di gelatina e attese che io mi servissi. Tendo alla goffaggine, sono sgraziata e “intruppona” e in società mi innervosisco. Comunque allungai la mano e presi con la massima circospezione una cucchiaiata di aspic portandola verso il mio piatto. L’infame gelatina si rifiutò di mantenere un minimo di compattezza e riprecipitò sul vassoio, seppellendo completamente il pollice destro del giovane Alì nel suo bel guanto bianco. Alzai gli occhi a guardarlo, annichilita, mentre mi scusavo a bassa voce. Impassibile, Alì guardava davanti a sé. Del resto Alì, anche in circostanze diverse non mi avrebbe mai guardata negli occhi. Era molto osservante e gli occhi delle donne gli erano interdetti. Pur apprezzandone le infinite abilità (puliva la casa, si occupava del giardino e del grosso cane lupo, occasionalmente faceva da autista e serviva impeccabilmente a tavola) G. si lamentava del fatto che schivasse il suo sguardo come un raggio demoniaco. Intanto il suo pollice era sotterrato da un intruglio di gelatina, tonno e sottaceti colorati. Allora con lo stesso cucchiaio da portata cominciai a liberarglielo delicatamente, scostando pezzo per pezzo la massa gelatinosa fino a farlo riemergere. A quel punto mi si presentò un ulteriore problema: che fare della pappetta appena ammucchiata sul bordo del vassoio? Intorno al tavolo si chiacchierava, fingendo di ignorare che trattenevo la portata da un tempo interminabile. Quando sono molto irritata con me tendo ad andare per le spiccie. Avvicinai il mio piatto al vassoio, afferrai la mia forchetta e con una spinta bene assestata feci volare il rimasuglio sul mio piatto. Non lo descriverò ma sembrava rigurgito di gatto. Solo allora, con un grazie compito, congedai il povero Alì, che riprese il suo giro con il guanto bianco tutto impiastricciato. G. non era tipo da far passare sotto silenzio un così grave attentato all’eleganza impeccabile delle sue cene e il giorno dopo al telefono mi chiese se avessi bevuto troppo. A me! Lei! Ma non mi offesi, meglio alcolista che inetta. Comunque G. me presente, non servì più pietanze in gelatina e Alì, con grazia e buon senso, da allora riempì personalmente il mio piatto.

Vorrei aggiungere qualche cosa circa questa questione del non essere guardate negli occhi. Effettivamente è pesante. Se ne lamentava, un po' sarcastica, un po' offesa anche la mia amica M. che sul luogo di lavoro sperimentava giornalmente questo ostracismo visivo. All'inizio io non capivo. "Ma che t'importa-le chiedevo-è un problema loro, lasciali in pace!" Infatti lei,nei suoi dialoghi con osservanti, insisteva per avere cenni di comprensione. Ma in seguito, in più di un'occasione, dovetti riconoscere che l'ostinazione con cui un uomo osservante teneva gli occhi bassi, o guardava immediatamente alla destra della mia testa, risultava offensiva. Era come se ti dicesse: "ti ascolto e ti parlo, ma non ci sei veramente, non esisti davvero per me". Inoltre, tutta una serie di messaggi, necessari alla comunicazione, e che normalmente passano attraverso lo sguardo, si perdevano fatalmente e ne risultava un senso di incertezza, di dubbio sull'effettiva reciproca comprensione ed anche sui reciproci sentimenti. Quando posso-solo quando posso-evito a chi ha a che fare con me gli eventuali disagi dell'avere a che fare con me. In quel caso, rendendomi conto che il mio fastidio era in fondo piccola cosa, mentre il mio interlocutore osservante si trovava in una situazione di autentico disagio, mi uniformavo, istintivamente, al suo codice di comportamento. Cercavo di rendere il mio atteggiamento, generalmente molto franco e diretto, più contegnoso, dimesso. In un certo senso mi facevo piccola, per non turbare più del dovuto il povero osservante. Era una scelta, per me più facile che per M. perché gli osservanti io non li incontravo tutti i giorni. Un po' mi divertiva anche il pensiero di essere una creatura diabolica, potenzialmente portatrice di sfracelli psichici e fisici in quelle creature indifese. Naturalmente all'origine c'è il disprezzo per la donna, ma sono sempre restata consapevole che anche nel paese da cui io provenivo, e nella sua religione, questo disprezzo era ben presente e visibile, anche se assumeva manifestazioni diverse.
Inciso sull'inciso: Anni Cinquanta/Sessanta, Tagliacozzo, Italia. Alla Messa della domenica le donne sedevano nei banchi di destra della navata e gli uomini in quelli di sinistra.
Conclusione: adesso sapete quale piatto NON offrirmi se mai mi invitaste ad una cena.

mercoledì 14 novembre 2007

un cappuccino, grazie

Nel mio giro nel quartiere per fare la spesa (uffa, ‘sta spesa!), mi sono fermata a prendere un caffé in un grande, splendido bar, in cui non ero mai entrata. Tutto nuovo, acciaio sabbiato e legno nero. La mattina è un caffè, con una imbarazzante abbondanza di paste, dolci, torte ecc. Diventa poi piccolo ristorante verso le due e alle undici stavano già sciorinando grandi vassoi di involtini di melanzane, trionfi di gamberi in insalata e pomodorini ripieni di insalata, e altre meraviglie mi prometteva la titolare. Il pomeriggio servono tè e cioccolate calde, anche lì con una ricca scelta di tartine dolci e salate. E, momento clou della vita del locale, la notte, spazio a grandi vasche di ghiaccio e una dovizia di pesci crudi, attende l’amante del sashimi.
Mi sono complimentata con la proprietaria del bel locale e ho promesso di tornare in orari diversi. Ma uscita di lì, una tale malinconia mi è saltata addosso, che ho giurato a me stessa di non rimetterci più piede. Il fatto è che quello splendido locale è la latteria della mia infanzia. Era gestito da una minuscola donnina di ferro, che imperava su marito, figli e nuore. Andavo a prendere il latte con la bottiglia di vetro e lei me la riempiva con un grosso “sgommarello”. Devo ancora appurare quale sia in italiano l’equivalente dello splendido vocabolo “sgommarello”. Immagino possa andare mestolo fondo, ma non ce lo chiamerò mai.
Anna, la lattaia, era tutta vestita di bianco e tutto il negozio era di un bellissimo, lustrissimo bianco latte. Oltre al latte, vendeva il burro in panetti e le uova. E naturalmente la panna.
C’era un così intenso odore di latte che si rischiava una sbornia. Io sono un’ appassionata bevitrice di caffèllatte. Non avrei alcun problema a vivere diversi giorni nutrendomi solo di belle tazze calde o fredde secondo la stagione. E il mio rimpianto per il latte, il vero latte, della mia infanzia, non sarà mai consolato dalla famosa asetticità di quello di oggi. Mi sentirei pronta a rischiare malesseri vari per tornare ad assaporare il latte della mia giovinezza. E la soffice, intensa e pastosa crema che produceva alla bollitura. Niente nel latte di oggi ricorda il vero latte: non l’aspetto, non il colore, l’odore, il sapore. Né il senso di conforto affettivo che portava con sé.
Ma assieme a queste proprietà organolettiche del latte, io rimpiango le latterie.
La latteria di cui vi parlo aveva un retro fantastico, che mi attirava irresistibilmente. Dove adesso piccoli tavolini snelli e una intera parete di vini scelti si offrono allo sguardo, c’erano grandi vasche bianche, coperte da garze sorrette da bastoni. Colme di latte. Anna sgommarellando riempiva contenitori cilindrici, come piccole botti, che portava nella zona anteriore della latteria. Da quelli serviva i clienti, riempiendo le loro bottiglie. Quelle, bellissime, della Centrale del Latte, chiuse dall’allumino-ne conservo ancora una-vennero molto dopo. Pensate voi dove si spingono i miei ricordi!
Lo so bene che questi rimpianti, oltre a non avere senso, denunciano un galoppante invecchiamento. Ma io non credo all’equazione moderno uguale migliore. Penso che ci lasciamo alle spalle tutta una serie di piccole cose preziose. Che il cammino in avanti comporti anche perdite. Non sarà il caso del latte, per carità, sicuramente il sistema odierno sarà più igienico, ma non è certo un caso che ogni tanto, spaventati, dobbiamo intraprendere una manovra di “recupero” di qualche tradizione, tecnica o abilità abbandonata. O di qualche prodotto della natura.
Lo so che siete giovani e gagliardi, ma, secondo me, qualche sapore lo rimpiangete anche voi. Avanti, ditemi.

martedì 13 novembre 2007

Punto.

Questo post è molto personale. Tanto personale che non ha quasi senso farne un post. Ma nello stesso tempo sento l’improrogabile bisogno di comunicare al maggior numero di esseri umani l’importanza che questo momento riveste per me.
Una lunga storia si è conclusa. Non è una storia d’amore, o meglio è anche la storia di un amore, ma molto particolare. È la storia di un libro a cui lavoravo da qualche anno. Con lunghi periodi in cui sonnecchiavo e lunghi periodi in cui rimasticavo e periodi infiammati in cui scrivevo come una matta. Il libro è piccolo, ma mi è costato tanta fatica, e ogni tanto, tanto dolore. Forse lo metterò dentro un cassetto e mi dimenticherò di lui, forse mi troverò un agente letterario e glielo sottoporrò, forse, addirittura, lo spedirò ad una caterva di editori. In questo momento non so bene che cosa farò. Ma so che è finito. E che mi piace. Che ne sono contenta. Che è come volevo che fosse. Non è il grande romanzo italiano del nuovo secolo, non è un saggio che farà scalpore. È una piccola raccolta di lettere, non voglio dirne di più. Ma ormai vi considero amici, tutti voi che vi affacciate al mio blog e che avete avuto la non piccola funzione di darmi incoraggiamento, con la vostra stima e la vostra simpatia. Per questo vi voglio dire grazie, qualunque sia la strada che il mio libro prenderà. In questo momento, mi sento solo contenta di avercela fatta, di non essermi arresa, di non aver permesso a niente, neanche alla malattia, di portarmi via il mio libro. Non è stato facile. Sono andata su e giù in una infinità di montagne russe, fino a pochissimo tempo fa’. Ma ora che il libro è finito, anche le montagne russe acquistano un altro senso. Vi abbraccio. Tutti.

tempo per sé

lunedì 12 novembre 2007

depressione/cinque/Illuministi fate luce!

Eccoci approdati al secolo dei lumi.
Ma, attenzione, la sua reputazione è ingannevole. Il suo carattere, fatto di spirito, ironia, leggerezza, eleganza, ragione, ottimismo, fiducia nelle scienze e nel progresso, nasconde un fondo di inquietudine. Questa all’inizio è uno stato psicologico positivo, il segno di una insoddisfazione che spinge all’azione, e che può costituire il motore del progresso.
Ma già nell’Encyclopédie, accanto a questa inquietudine positiva, ne viene descritta un’altra, detta viscerale che somiglia all’angoscia, che dà sensazioni di soffocamento, palpitazione, tristezza. Le persone più a rischio sono gli adolescenti e le donne. Se le descrizioni del malinconico cronico sono in linea con quelle dei secoli precedenti, le cause vengono meglio indagate. E tocca ai medici ricercarle. Per gli illuministi la chiave del comportamento umano si trova infatti nella fisiologia e nelle relazioni sociali. L’olandese Boerhaave descrive il corpo umano come una macchina diretta dal cervello che produce un “liquido nervoso” trasportato in circolo dal sangue. L’insufficienza del liquido o la scarsa circolazione sanguigna provoca malinconia. Questa teoria verrà generalmente accolta. Come stile di vita si consiglia la campagna, la musica, ma niente teatro, soprattutto per le donne.Quanto ai rimedi, si spazia dal tartaro alla china, dalla fuliggine dei camini alla polvere delle zampe di gambero.

A proposito di gamberi vorrei inserire una piccola noterella. Bruce Chatwin in "In Patagonia" ci dice che nella lingua Yaghan della Terra del Fuoco, lo stato depressivo è indicato con la stessa parola che indica lo stadio in cui una specie locale di gambero subisce una muta, perde cioè temporaneamente il suo guscio. Così si sente il depresso, vulnerabile, esposto, senza guscio, forse addirittura senza pelle.


Ma torniamo al secolo dei Lumi. Nei confronti del malinconico clinico si ha un atteggiamento di severità. Gli viene spesso attribuito un colpevole distacco dai valori religiosi e morali. Persino Samuel Johnson, che ne soffrì in prima persona, vede nella malinconia un segno di depravazione. Quello che si può pensare è che l’atteggiamento passivo del malinconico sia troppo in contrasto con lo spirito dell’epoca, che preferisce l’inquietudine costruttiva alla malinconia. Ciò nonostante è un uomo di questo secolo, il più grande filosofo del secolo, Immanuel Kant, che intona il più bell’inno alla malinconia che sia mai stato scritto.
È il 1766 e in Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Kant scrive:


(Non fate commenti sull'aspetto grafico di questo passo: ho fatto del mio meglio!)

Il testo di Kant introduce il tema della malinconia romantica che i pittori cominciano a rappresentare come una donna languida e meditabonda, come nei quadri di Francois Lagrenée e di Reynolds.





In tutto il secolo il mal di vivere conserverà una duplice natura,fatta di malinconia e inquietudine. Quest’ultima è la cifra degli intellettuali. John Locke, Spinoza, Condillac, Malebranche, Diderot, Voltaire, Rousseau, Jean Blondel, sono tutti grandi inquieti, o blandamente come Voltaire-La vita è solo noia oppure panna montata- o cupamente come Rousseau: -Se quaggiù mi venisse chiesto di scegliere ciò che voglio essere, risponderei: morto.-

Il Tempo e la Morte sono i due temi ricorrenti nella riflessione del secolo. Si discute sul senso delle catastrofi naturali. La lunga serie di cataclismi che colpiscono il secolo-primo fra tutti il terremoto di Lisbona del 1755 che causa centomila morti nella penisola iberica e più di diecimila in Marocco- spinge a riflessioni cupe e lega l’uomo alla sua necessità e alla sua impotenza. Il secolo volge al pessimismo. L’espressione “mal di vivere” viene coniata proprio in questo secolo dall’astronomo e matematico francese Pierre LouisMoreau de Maupertuis. È sorprendente che credenti e non credenti, che accanitamente si contrappongono lungo tutto il secolo, si incontrino su un solo punto: il disgusto per la vita terrena. Valle di lacrime o sogno assurdo, la vita è vuoto o dolore. Per sfuggire all’inferno della vita si ricorre alle droghe. Si scoprono le virtù dell’oppio, consigliato da medici e persino da abati. Nasce anche l’humor nero, inteso come riso amaro. Jonathan Swift (io lo amo , lo considero un potente antidepressivo e voglio ribadirlo qui)ne è l’indiscusso maestro. Fa eccezione Casanova, che non crede al mal di vivere. Secondo lui colpisce solo chi è povero o malato. Ma, anche se povero e malato, Se avesse.....una Marina, certamente cambierebbe idea sulla vita. Dico, ragazzi: ha detto una Marina! Casanova! Vi rendete conto?

La seconda metà del secolo vede una epidemia di suicidi. Il suicidio entra nel costume sociale, gli vengono dedicati interi trattati e si pubblicano persino le lettere delle sue vittime. Due figure di suicidi segnano l’epoca. Uno reale.Thomas Chatterton, un poeta inglese diciassettenne, che aspira alla gloria ma vive una vita di miseria e si avvelena con l’arsenico. In breve tempo diviene un mito: poesie, dipinti, statue, fazzoletti con la sua effigie lo glorificano dopo morto. Oggi se ne farebbero dei post e delle magliette. L’altro suicida mitico è quello letterario del Giovane Werther di Goethe. Il libro viene tradotto e ristampato a ripetizione e si diffonde una vera e propria Werthermania. Ragazze e ragazzi, con una copia del libro in tasca, si annegano o si avvelenano. Il Times, riporta decine di casi.
M.me de Stael scrive che Werther ha causato più suicidi della più bella donna del mondo e il povero Goethe viene accusato in Francia di essere “un avvelenatore pubblico”, di aver scritto un libro “infame, immorale, riprovevole”. M.me de Stael stessa si dichiara del resto sia inquieta, che malinconica, che annoiata dalla vita. Non si fa mancare nessun disagio alla moda. È solo uno dei numerosissimi casi di mal di vivere al femminile. Se ne indicano le cause nello stile di vita e nel carattere.
In ordine di gravità:
la moda, che ne copre e mortifica il corpo
le stecche di balena e i lacci dei corpetti
le creme ed i fondotinta
i profumi aggressivi
il consumo di caffè, liquori e cibi acidi
l’obbligo di avere amanti
il dovere di apparire brillanti
ma anche
la vanità
le passioni
il delicato organismo psichico(sic)

L'idolo delle donne, malinconiche o no, è Jean-Jaque Rousseau. Se Voltaire è stato lo scrittore degli uomini, Rousseau, lui, lo è stato delle donne.
La sua spiccata sensibilità, la sua tenerezza, la sua propensione per l'amore e per i sogni ad occhi aperti, la sua inclinazione per la natura e la solitudine, legittimano il modo di sentire femminile.
Se fossi vissuta nel Secolo dei Lumi, non sarei stata depressa, bensì schizofrenica. Avrei amato, come amo, sia Voltaire che Rousseau.


Francois-Marie Arouet detto Voltaire


Jean-Jaques Rousseau

Entrambi affascinanti, direi.