martedì 23 ottobre 2007

su soffriamo, soffriamo...

Desidero tornare brevemente su Ovidio perché ho riportato il suo verso con una intenzione molto precisa. I poeti vengono letti da ognuno di noi così come vuole, come crede, come ha bisogno di leggerli. Trattandosi poi di un poeta così lontano nel tempo come Ovidio, la libertà del lettore diventa sconfinata.
Ciò nonostante Ovidio, il più brillante versificatore della letteratura latina, è stato psicologicamente molto lontano dall’idea di modificarsi in qualche modo. Si piaceva troppo per pensare di “formattarsi”. Era pronto a cambiare atteggiamento sociale, ma non se stesso. Meravigliosamente abile nel versificare, prodigiosamente dotato, aveva però un carattere superficiale. Amava il successo, la vita mondana, le amicizie influenti. Non fu mai un depresso, né un malinconico. I famosi Tristia, tutto un programma, furono insieme una lamentazione e una "ruffianeria", il tentativo di impietosire Augusto che lo aveva esiliato a Tomi. Ovidio fu incapace di affrontare con dignità lo sfavore di Augusto e l’esilio: querulo, lamentoso, insistente, solo a tratti veniva preso da illuminazioni autentiche su se stesso e la sua condizione. Io attribuisco quel verso “Accogli questo dolore perché ti insegnerà molto” ad uno di questi momenti. L’ho letto come il tentativo di una persona di guardare più a fondo nel suo stesso sconforto, di darsi un pensiero guida ed insieme una speranza. Un momento di sincerità in un poeta troppo innamorato di sé e della sua poesia, per essere davvero ‘vero’.
In questa mia lettura molto critica di Ovidio (SOLO di Ovidio) si colloca il mio apprezzamento per quel verso che, secondo me, dice qualche cosa del dolore che non vorrei mai dimenticare. E cioé che il dolore è un' esperienza fondamentale di ogni essere umano, la più preziosa, malgrado tutto, e quella che lo rende, davvero, umano.

Da Ovidio ai miei ricordi di studentessa ci vuole proprio poco. Mi sono laureata in Lettere quando la cattedra di Latino era tenuta da Ettore Paratore. Ne parlerò a bassa voce perché, benché sia morto da diversi anni, ne ho ancora paura.
Ne avevamo tutti paura. Lui era il dominus della Facoltà, teneva tutti in pugno, studenti, assistenti, colleghi, con il terrore. Non era solo la difficoltà del suo esame, era la sua aggressività sferzante, era il suo sadismo, era il suo piacere di umiliare che tutti temevamo. L’esame di Latino era la pietra miliare del corso di laurea, superato quello si poteva pensare che ci si sarebbe, prima o poi, laureati. Ma prima, appunto, c’era Paratore. L’esame prevedeva uno scritto, che andava superato per poter accedere all’orale. L’orale invece prevedeva che si leggessero tutte, ripeto tutte, le opere dei grandi della Letteratura latina. Ti sedevi e non sapevi cosa ti avrebbe chiamato a tradurre: Virgilio? Ovidio? Seneca? Lucrezio? oppure Livio, Orazio, Svetonio, Properzio? O anche Catone, Lucilio, Marziale, Sallustio? O forse Cicerone o Cesare?
E, comunque, quale opera di uno di questi autori? Ecco, la situazione dell’orale era questa. Però ci appariva splendida, idilliaca anzi, in confronto allo scritto. Lo scritto era per ognuno di noi una nebulosa cupa, che ci avrebbe inghiottiti e, forse, ma solo forse, ci avrebbe restituiti a noi stessi. La conoscenza del latino era ininfluente rispetto al superamento dello scritto. Ci voleva solo una formidabile, una straordinaria botta di c... Era come lanciare in orbita un satellite. Bisognava centrare quel piccolo, miracoloso spazio che la sorte ci riservava, per passare al di là della penna rossa e blù di Paratore e dei suoi assistenti. Passato senza successo quel momento che il destino teneva in serbo per noi, ci saremmo dispersi nello spazio. Si andava alla prova scritta come ad un appuntamento con il destino. E la prima domanda che ci si faceva, nel conoscersi era : Quante volte hai dato lo scritto di latino? E quelli che lo avevano superato alla prima prova venivano additati nei corridoi della facoltà e talvolta sfiorati, così casualmente, come i gobbi nelle società contadine. (Volendo essere politicamente corretti, come si dice “gobbo”?boh). Io fui una di quelli, mentre la mia amica Nuccia, che conosceva la grammatica e la sintassi latina come la sua sacchetta del trucco, lo sostenne quattro volte. Forse aveva sbagliato vettore, forse calcolò male l’angolo di incidenza, fatto sta che non beccò quella minuscola finestra temporale per uscire dall’orbita terrestre.
A Paratore non è mai interessato che noi imparassimo la letteratura latina, e men che meno la lingua latina, voleva solo che soffrissimo, voleva sentire l’odore acido della nostra paura, sentir ballare il tavolo per le scosse delle nostre gambe impazzite e fuori controllo e leggere lo smarrimento nei nostri sguardi. Le sue lezioni erano obbligatorie. Le teneva nell’Aula Magna, dove ci accalcavamo come pecore alla tosatura. Entrava, piccolo, giallo, segaligno, a passo veloce e dietro di lui, a capo chino, i suoi assistenti. Poveretti, come li trattava! L’espressione “pezza da piedi” è poco fine, ma è la più prossima a quel trattamento.
Quanto a noi, ci chiudeva dentro. Dico sul serio. Per evitare che, firmato il foglio di presenza, ce ne scappassimo fuori, le porte dell’aula magna venivano chiuse a chiave.
Nuccia ed io sedevamo in alto, vicino ai finestroni e lavoravamo all’uncinetto. Infatti nella calca non si sarebbe potuto udire o capire niente. Del resto per lo più Paratore parlava in latino, a bassa voce e non a noi, ma a se steso o tutt’al più ai suoi assistenti, cui rivolgeva domande fulminanti per poi ridere delle loro risposte, additando il poveretto di turno alla derisione dei colleghi e degli studenti stessi. Questo trattamento trasformò anche i suoi assistenti in esseri crudeli. Ancora oggi quando incontro il nome di uno di loro su qualche libro di letteratura latina con testo a fronte, o su saggi di critica (sono tutti diventati nomi importanti in questi studi) lo rivedo, chino, tremante, rosso, balbettante, sudato, terrorizzato, quanto e più di noi studenti.
Il sessantotto fu molto, molto duro con Paratore. Addirittura violento, si disse allora.
Girarono molte voci, non so quanto vere. Quello che è vero è che sostenere l’orale con lui era un’esperienza atroce. A me è capitata ( troppo c...allo scritto, niente c...all’orale, si sapeva). Non faceva mai più di un paio di orali a mattina perché la vittima di turno doveva soffrire almeno un paio di ore. Tanto mi tenne. A tradurre davanti a lui un po’ di questo e un po’ di quello. Interveniva sulla scelta di ogni singolo vocabolo, su ogni sfumatura di pensiero. Esisteva una sola possibile traduzione, la sua e se la teneva ben nascosta nella testa finché, per esclusione dell’intero lessico latino, non ci arrivavi. A quel punto passava ad altro autore o opera. Le opere di poesia dovevano essere lette, naturalmente, in metrica (mi toccò, oltre Virgilio, proprio Ovidio) e l’esimio cattedratico un po’ rideva, un po’ insultava, un po’ sbuffava esasperato. Era impossibile odiarlo perché il terrore paralizzava qualunque altro sentimento. Anche chi aveva sostenuto l’orale direttamente con Paratore veniva additato nei corridoi della facoltà, e ci si facevano rapidi segni della croce al suo cospetto. Avendo meritato sia la strusciatina alla gobba (ma come cavolo si dirà nel mondo dei politicamente corretti? Ancora boh), sia il segno della croce al mio passaggio, l’esame di latino mi rese molto popolare. Comunque Paratore mi promosse con il seguente commento: -Ha studiacchiato. Ventotto.- Un anno avevo studiacchiato, a ‘nfame!
Comunque considero un miracolo il fatto di aver conservato il mio amore per il latino pur essendo stata un’allieva di Paratore.

E se mi leggesse, anche dall’al di là? Orrore e terrore.
Smentisco tutto.

12 commenti:

  1. “In questa mia lettura molto critica di Ovidio (SOLO di Ovidio) si colloca il mio apprezzamento per quel verso che, secondo me, dice qualche cosa del dolore che non vorrei mai dimenticare. E cioé che il dolore è un' esperienza fondamentale di ogni essere umano, la più preziosa, malgrado tutto, e quella che lo rende, davvero, umano.”
    Marina commento solo questo pezzo, per il momento.

    Concordo con il fatto che il dolore sia un’esperienza di ogni essere umano.
    E’ il “saperla affrontare” o meglio l’imparare ad affrontarla… che pone qualche problema…
    Nel mio percorso di vita in tal senso, nel mio “formattarmi”, mi è stato – e ancora lo è – molto utile l’articolo di Gianfranco Ravaglia:
    “Il funzionamento psicologico adulto e quello difensivo”

    http://risorse-psicoterapia.org/funzionamento_psicologico_adulto_difese.htm

    Se tu Marina desideri commentarlo, con l’abilità linguistica che ti contraddistingue, fallo pure. Sarei lieta di leggerti.
    Anche se prima si dovrebbe, forse, “ripubliccare” questo Articolo completo

    Magari ripasso…ora, però, sono Off !

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  2. ciao Paola, sono andata a vedere l'articolo di Ravaglia, incuriosita. Ma è un vero e proprio saggio! Ho dato una scorsa ai primi due capitoli, non so se troverò il tempo per leggermelo tutto. Il discorso sulle diverse tecniche psicoterapeutiche mi interessa molto, ma con i miei post intendo occuparmi soprattutto della vera depressione clinica (i famosi recettori birboni). Se però non abbiamo limiti di tempo, prima o poi me lo leggo e ne parliamo.
    Ne ho letto troppo poco per farmene un'idea motivata, ma l'idea di vivere il proprio dolore e la propria gioia senza sottrarvisi, non solo mi vede consenziente, ma potrebbe essere il mio motto!
    grazie marina

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  3. Non vi è assolutamente nessun limite di tempo ma soprattutto nessun obbligo. Ti ho segnalato quel saggio (è vero, è un vero e proprio saggio, ora trasformato in libro, mi pare) perchè è il punto di vista dell'Autore che mi interessa e la cui lettura suggerisco caldamente.
    Io ho sofferto di Depressione Grave (ereditaria).
    Ebbi terribili attacchi di panico sin da giovanissima (quando i medici non sapevano ancora interpretarli come tali) e tutto il corollario...
    Sono stata curata dal SSN in modo eccellente, sia assumendo una medicina per la Serotonina sia seguendo una psicoterapia comportamentale.
    Attraverso la mia curiosità ed il mio amore per la lettura ho anche scoperto alcuni autori dai quali ho imparato molto(ma sono pochissimi, da contare al messimo sulle dita di una sola mano!).
    Uno di questi è Gianfranco Ravaglia.
    Certo mi ci è voluto un po' di tempo per leggerlo tutto (sul Web) e poi per rileggerlo. Ancora lo rileggo quando desidero schiarirmi le idee oppure approfondire qualche dettaglio.
    Mi sono piano piano "riformattata", ho imparato a pensare in modo differente da come ero stata educata, ad accettare il dolore ma soprattutto a non aver più paura del dolore.
    Non siamo tutte/i uguali, non abbiamo avuto le stesse esperienze quindi non voglio imporre a nessuno questa lettura. L'ho segnalata nel caso in cui qualcuno fosse interessato....

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  4. Grazie Paola, per il racconto della tua esperienza e per la segnalazione. Sono sicura che su questo tema ci torneremo. Devo dirti però, onestamente, che la parola comportamentismo mi arruffa un po' il pelo del pensiero....
    Proprio per questo il saggio lo leggerò alla prima occasione.
    ciaomarina

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  5. Perchè davvero la scuola per alcuni deve voler dire solo sofferenza. lo rendi molto bene. Vieni a trovarci e a darci una mano se vuoi perchè di questo e di altro vorremmo parlare nel nostro blog. Costanza e amici

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  6. Il dolore insegna eccome, non quello che ti schiaccia e che ti umilia, ma quello che riesci a combattere e ad affrontare, quello che guardi in faccia e da cui vuoi trasformare in esperienza. Ed ha ragione Paola con il dolore si deve imparare a convivere, ma a volte a comprendere. Un abbraccio Giulia

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  7. @ Giulia hai fatto caso con quante cose dobbiamo imparare a convivere? ma se io volessi essere single? non farci caso, mi piace scherzare su tutto. Certo che ha ragione paola sul dolore, mai contestata questa regola
    ciao marina

    @ Costanza e amici. Grazie della visita. Vorrei venire a curiosare da voi ma non mi hai messo l'indirizzo. Forse dovrei conoscerlo e non me lo ricordo? ciaomarina

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  8. P@aola, non riesco a commentare sul tuo blog. Ho inviato una cosetta a proposito del leader, ma non credo sia andata a buon fine. Mi dispiace, non vorrei che tu pensassi che ho ignorato il tuo invito.
    Spero che tu legga qua.

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  9. Devo essere sincera, Marina. I casi di insegnanti come quello che descrivi, che godono nell'umiliare gli altri mi fanno semplicemente imbestialire. Talvolta noto pero' che vengono scusati per il fatto di essere molto preparati nella loro materia, praticamente dei mostri. Secondo me il valore professionale (e non solo negli insegnanti) non puo' mai giustificare lo scarso valore umano. Non ho capito come la pensi tu.

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  10. Dimenticavo. Forse lo avrai gia' scoperto da te ma il blog di cui parla Costanza e'
    L'isola sconosciuta.
    Mi ci e' voluto un po' anche me per trovarlo!
    Ciao,

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  11. @ Artemisia: come la penso? Quei soggetti vanno buttati giù dalla cattedra. Sono letali!
    Prima di essere un insegnante bisogna essere un essere umano, lo dici meglio di me.
    Io ho imparato A DISPETTO di Paratore e non grazie a lui!

    ciaomarina

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  12. io ed il dolore...credo, dopo averlo studiato a lungo, che non esistono vie di mezzo, l'unico modo per uscirne è attraversarlo.

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Non c'è niente di più anonimo di un Anonimo