martedì 9 ottobre 2007

soppalchi e cantine

Un soppalco non è una cantina. Fin troppo ovvio. Intanto per ragioni di spazio. Quello che conserviamo in una cantina non potrebbe mai entrare nel nostro soppalco per quanto grande esso sia. E poi, per una vicinanza del soppalco, che da fisica si trasforma in affettiva.
Per le cose molto grandi io ho usufruito per anni della spaziosa cantina materna.
Lì, avvolta in carta velina e poi ricoperta di plastica trasparente, per trentadue anni, ha sonnecchiato la culla in vimini di mia figlia, finché appena rinfrescata è passata ad accogliere mio nipote. Mi piacerebbe che accogliesse un giorno i suoi figli.
L’idea di oggetti che nel tempo continuano a svolgere la loro semplice funzione mi riscalda il cuore e non per una questione di saggia economia. È l’idea di un continuum che attraverso le generazioni leghi i presenti e gli assenti che mi dà piena soddisfazione. Forse è il solo modo in cui so pensare al tempo. Il reimpiego, in mani nuove, familiari o meno, mi appare come una garanzia. L’importante è che un oggetto viva intera la sua vita, che qualcuno lo investa di nuove cure e di nuova affettività. E gli oggetti sfuggono per me anche ai sentimenti che un giorno ci hanno ispirato i loro proprietari. Sono innocenti. Ho trattato gli oggetti della famiglia di mio marito, che un tempo mi apparivano ostili verso di me come i loro proprietari, con la stessa cura e la stessa attenzione con cui tratto quelli di mio padre e mia madre.
Mio marito ha una concezione tutta astratta e retorica, mi duole dirlo, del conservare. Gli piace pensare che il vecchio, enorme cavalletto ottocentesco di sua madre, sia stato conservato, ma non si è mai curato di farlo. Io l’ho spolverato, lucidato, protetto con vecchie lenzuola e alloggiato nella solita cantina. Non per il suo valore, né per una forma di affetto per la sua proprietaria, che non mi ha mai perdonato di essere entrata, così anomala rispetto al suo mondo e al mondo tout court come mi considerava, nella vita di suo figlio, ma perché quell’oggetto testimonia di una vita, raccoglie in sé la storia di una vita e dal mio punto di vista non ha alcuna importanza di quale vita si sia trattato. Quell’oggetto merita di essere ancora utile a qualcuno e, se possibile, caro a qualcuno. La vita non è solo animale o vegetale. E nel maneggiare le cose di seconda o terza o chissà quale mano, acquistate in mercati di mezzo mondo, mi capita di pensare con simpatia e riconoscenza al vecchio proprietario, scomparso da tempo, ma ancora un po’ presente nella quotidianeità dei miei atti.
In una cantina gli oggetti riposano in attesa, lontani, temporaneamente lontani. Ma ci sono oggetti che mai lascerei in una cantina, oggetti che voglio tenere più vicini a me, anche se le probabilità di utilizzarli non sono diverse da quelli che se ne stanno al buio della cantina.
Ed ogni tanto faccio loro una visita. In casa ho due soppalchi, in uno dei quali posso tranquillamente entrare, sia pure china. Periodicamente mi arrampico e, come in esplorazione, vado a vedere che cosa il tempo abbia tenuto in serbo per me. Riconosco, ma con una sorpresa felice. Toh, sei ancora qui.
Il riordino del soppalco è un’attività spesso pretestuosa per riappropriarmi, per un attimo, di momenti della mia vita. Nella mia visita più recente ho passato in rassegna vecchi oggetti, fingendo con me stessa che necessitassero di una spolverata, di un nuovo imballaggio. Ho tirato fuori la vecchia racchetta-legno e budello!- con cui presi le mie prime lezioni di tennis, ragazzina dodicenne, sul campo del paesino abruzzese delle mie vacanze. Com’è piccola e come mi sembrava grande!
Il vecchio registratore Geloso, regalo di mio padre per la mia promozione in seconda liceo. Ricordo ancora il dispetto e il senso di ingiustizia che provai, quando mi fu detto dai miei genitori che era da considerare anche di proprietà di mia sorella più grande, che aveva allegramente portata a casa l’ennesima bocciatura. Quando glielo ricorderò negherà e mi farà arrabbiare di nuovo. Ma mi farà piacere arrabbiarmi di nuovo per questo torto lontano quasi cinquant’anni! Accanto, in una scatola, tutti i nastri, ormai non più utilizzabili. Le voci di un tempo se ne stanno lì, vecchie canzoni, e il più improbabile duo dei primi anni sessanta. Nuccia, la mia compagna di banco, ed io. La domenica studiavamo poco e cantavamo molto. Mio padre, passando, ci lanciava là: “ciao, duo monnezza”. Non sono sicura di aver voglia di riascoltare le voci di quegli anni. Ma mi piace riprendere in mano i vecchi pattini a rotelle. Dimenticai la chiave per regolarli a Roma e da Tagliacozzo scrissi-sì, avete letto bene- scrissi a mio padre che me la portasse alla sua prima, e breve, visita. Allora si scrivevano lettere tra Roma e un paese dell’Abruzzo. Ed arrivavano anche celermente.
Del resto quando si partiva per la “villeggiatura” si spedivano in ferrovia due grandi bauli e dalla stazione di Tagliacozzo venivano portati a destinazione con un carretto tirato da un cavallo! Partire era un’avventura e il treno un fantastico Pegaso.
Nel suo fodero scozzese la mia chitarra, che fa su e giù dal soppalco. Ogni tanto la riprendo e tento i vecchi esercizi e le canzoni. Molto Guccini, Battisti, Dalla e Tenco. E i Beatles. Esecuzioni semplicemente indecorose e così, sconfitta, la rimetto nel suo fodero e sul soppalco. C’è anche il telaio di legno su cui intessevo piccoli quadri in lane colorate e quello più piccolo con cui ho fatto decine di braccialetti di perline. E un arcolaio a mano-sì sono decisamente vecchia-come quello in cui nelle fiabe la strega avvolgeva il destino della principessa. Ci “smatassavo” le matasse di lana, ma ancora recentemente mi è stato utile per utilizzare i chili di lana che ho trovato nell’armadio di mia madre alla sua morte. E che piacere usare per mio nipote, quella lana perfettamente conservata nella naftalina dalla sua bisnonna! Gli ho confezionato maglioncini a righe di tutti i colori con resti di lane usate da mia madre per i maglioni di noi tre figlie. E di ognuna riconoscevo l’originale.
In un grosso scatolone i berretti della divisa di mio padre. Quello bianco, estivo e quello blù invernale. Conservati senza naftalina, nella speranza che un lieve odore si sconservasse. E il piccolo cappello a cloche che indossava mia madre il giorno del suo matrimonio. Accanto il basco blù di papà e il cappello in paglia di Firenze, borsalineggiante, che mi comprai come sfida a ventiquattro anni, il giorno prima di un intervento chirurgico che allora avvolgeva tutto di incognita e che oggi non sarebbe di alcuna preoccupazione. Ho visto che sono tornati sulle teste delle giovani di oggi. Niente come la moda con i suoi periodici cicli, ci dice davvero la nostra età.
Ma quel cappello che mi calavo sugli occhi non mi mette malinconia. Pensavo di andarmene e invece eccomi qua, in un mondo completamente diverso, divenuta blogger! E poi la mia Lettera 22, la mitica Olivetti portatile. Ha ancora l’odore dell’inchiostro dei nastri ed è in perfetta, anche se inutile, efficienza.
Quante cose scritte con quella macchina e poi distrutte! Ma me, non mi sono distrutta, è questo che conta, no? Ecco il cestino di paglia in cui mettevo la colazione per mia figlia alle elementari e lei si lamentava per l’assenza delle merendine delle sue compagne. Tradizionalista e diffidente, io preparavo panini all’olio con prosciutto o mortadella. C’è anche il mio cavalletto, molto più modesto di quello di mia suocera, portatile, e arrotolato intorno c’è il grembiule bianco e tutto impiastricciato di colore che indossavo per dipingere i miei capolavori. No, il fiocco alla Lavalliere di Monet ai miei tempi già non si usava più!
In due scatole diverse il corredo di Buck e quello di Orso. Il collare in cuoio di Buck, con le grosse borchie e quello più largo di Orso. Orso era più massiccio e più pesante, meno snello. I due guinzagli, usati per entrambi, quello corto e resistente già di Buck e quello estensibile di Orso. Il primo giorno che lo presi in mano, Orso partì a razzo prima che riuscissi ad azionare l’arresto e mi buttò a terra, trascinandomi per qualche metro. Una costola rotta e sbucciature varie. La costola ancora mi fa male nei giorni di mal tempo. Le grosse ciotole dei miei due cani e quelle piccole di Penelope, dove la mia splendida gatta ha bevuto e mangiato per sedici anni con la perfetta compostezza di una dama del settecento. E poi, sul fondo, valigie e borse da viaggio. Troppe valigie, con troppe etichette: capisco che è ora di scendere. Ne riparliamo alla prossima ispezione.

6 commenti:

  1. Marina, come al solito questo post è bellissimo e delicatissimo; inoltre mi hai ricordato, con un tuffo al cuore, di quando sono andata a Parigi per un mese all'età di diciassette anni. Con mio padre "ci scrivevamo" e sembra assurdo detto adesso. Internet non esisteva quindi niente e-mail, il cellulare non esisteva quindi niente telefono (io ero alla casa dello studente della Sorbonne... non mi ricordo di un telefono e poi sarebbe stato troppo caro). Incredibile, no?

    Pure mi ricordo dell'arcolaio a casa di mia madre... son troppo vecchia anch'io?

    Baci

    Mariateresa

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  2. Alcune correnti filosofiche dell'antica grecia, sostenevano che anche gli oggetti avevano un'anima. Molti dicevano che la carpivano agli esseri umani.
    Io ci ho sempre creduto.

    Ma non sono uno che conserva. Sono talmente nostalgico che per la mia salute mentale, tendo a disfarmi degli oggetti. Non ho neanche una lettera, una cartolina, niente che mi permetta di tornare indietro con la mente...
    Ma mi basta chiudere gli occhi, e i ricordi tornano licidi come impressi sulla pellicola.
    Se un giorno dovessi fare un giro nella cantina di famiglia, potrei non uscirne più...
    Insomma, vivo questo contrasto. Non so spiegarlo bene, ma non riesco a gestire il sentimento che provo di fronte ad un oggetto che ha tante storie da raccontare. Io, davanti agli oggetti da te descritti, mi sentirei mancare il fiato nei polmoni. Mi capisci? ;-)

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  3. @ Donnigio: Sì, ti capisco. Anche io ho una categoria di oggetti da far scomparire. E li ho fatti scomparire. Ma non è servito. Quello che doveva disperdersi con loro non si è mai disperso.
    A proposito di pellicola, il venerdì la moschea non si visita(il sabato e il mercoledì sì) ma fuori è un vero piccolo bazar. Però attenzione con la cinepresa...

    @ Mariateresa: sì, il telefono era troppo caro e poi a Tagliacozzo in casa non c'era, bisognava andare all'uffico postale, prenotare la chiamata, fare la fila, ecc
    Alla Sorbonne, ci sono stata anche io, pensa se ci fossimo conosciute allora, le risate...

    vi abbraccio marina

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  4. Nuovamente complimenti Marina. Un altro post bello e visivamente vivo! La tua soffitta mi ricorda quella a casa dei miei genitori, i nostri garage pieni di mobili, soprammobili, riviste e quant'altro; tanti oggetti accatastati in attesa di nuova vita. E anch'io ho ereditato questa mania materna... ogni oggetto che possiedo è dotato secondo me di una sua anima, difficilmente "butto" qualcosa... Come direbbe mia madre "lascialo lì che non ti chiede ne pane ne vì ne letto per dormì"
    ciao,
    polle

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  5. Accidenti, quante cose conservi! In verità io non riesco ad affezionarmi alle cose. Anche mio padre aveva un registratore geloso. E la lettera 22 ce l'ha e la usa tutt'ora e non ne vuol sapere di usare un computer!
    Buona notte!

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  6. Io conservo tutto, nulla viene gettato, ma mai e poi mai vado a visitarlo: so che è lì e questo mi basta.Il fiato mancherebbe anche nei miei polmoni!
    Gianni è figlio mio quindi :-P

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