giovedì 25 ottobre 2007

depressione/due/la valle di lacrime

Essendo rivolto verso l’al di là eterno, il Cristianesimo concepisce naturaliter l’esistenza terrestre come “valle di lacrime” da attraversare per giungere alla felicità eterna. Tuttavia coloro che nella valle di lacrime ci piangono diventano ipso facto peccatori e la disperazione diventa una colpa morale di origine diabolica.
La Chiesa combatterà questo mal di vivere 'demonogeno' e lo chiamerà acedia.
Ma l’acedia è vendicativa e, condannata dai pulpiti, si prende la sua rivincita facendo strage negli ambienti cenobitici e monastici del IV e V secolo. Del fenomeno, i cui numeri sono impressionanti, si occupa in particolare San Giovanni Cassiano che accosta l’acedia al taedium vitae pagano. Non la considera però una malattia fisica legata alla bile nera, bensì un peccato ispirato dal diavolo, il “diavolo meridiano” che colpisce tra le dieci del mattino e le due del pomeriggio.
San Gregorio Magno, lui stesso malinconico, inquieto e secondo uno studio recente forse paranoico, studia il mal di vivere in una grossa opera, non a caso chiamata Moralia. Per lui la tristitia (cattiva tristezza) è un male spirituale, conseguenza e causa insieme di debolezze morali. La pusillanimità, la debolezza nei confronti dei doveri, il rancore, l’instabilità morale, la malitia (o odio del bene), sono tutte caratteristiche del mal di vivere, che diviene il “vizio melanconico”. Isidoro di Siviglia, in cerca di una giustificazione linguistica, stabilisce, abusivamente, l’etimologia “melancholia” da malus, il male e questo da “melan” la bile nera in greco. L’etimologia corretta è μελας (nera) χολη (bile).
Ma l’acedia e la tristitia, in barba ad ogni demonizzazione, si diffondono dal mondo monastico ai secolari e ai laici. La Chiesa tenta una distinzione di tipo morale tra il tristo e l’accidioso. Peccatori entrambi ma il secondo pronto al peggiore dei crimini: il suicidio. Tra il VI e il XII secolo è tutto un fiorire di opere di pensatori cristiani dedicate al mal di vivere come opera del demonio, finché Guillaume de Conches tenta di riportarlo ad una spiegazione, per dir così, scientifica. Il mal di vivere è sì conseguenza del peccato originale, ma è stata la cacciata dall’Eden, con il suo trambusto, a fa sì che i quattro elementi di cui è composto il corpo umano si mescolassero disordinatamente. In alcuni individui si creò un eccesso di freddezza e secchezza: furono i malinconici.
Questi vengono descritti come esseri repellenti: colorito forte, occhi viperini, vene e carni dure, sangue scuro, ossa grosse. Inclinazione all’abuso sessuale negli uomini, alla sterilità nelle donne.
Costantino l’Africano propone una parziale riabilitazione del malinconico cronico, sottolineandone una propensione alla speculazione, e lo sforzo, doloroso, di approfondire i ragionamenti. Sarà la riscoperta di Aristotele a far attenuare la visione negativa della malinconia. Ne vengono però distinte due forme: il temperamento, associato ad uomini eccezionali e la patologia, che li condanna, suicidi o no, all’inferno.

San Bonaventura, Piergiorgio Welby e Giovanni Paolo Secondo
E veniamo alla scolastica. Questa tralascia di occuparsi della tristitia e si dedica alla sola acedia, studiata attraverso la pratica della confessione. La descrizione dei sintomi di quella che appare in modo palese una forma di depressione ansiosa, è precisa, ma l’aspetto su cui si insiste, perché considerato il più negativo, è la mancanza di fiducia in se stesso dell’accidioso. Se non fida in sé, creatura di Dio, non fida nell’aiuto divino. Questa è la colpa all’origine della condanna del suicidio: la mancanza di fiducia in Dio.
Verso la metà del XII secolo San Bonaventura pone un problema teologico di grande sottigliezza: come distinguere l’accidia che conduce alla disperazione e quindi alla tendenza suicida, dal desiderio di morte di San Paolo e dei mistici, come desiderio di ricongiungersi a Dio?
Come spiegare che il desiderio di morire è peccato in alcuni e virtù in altri? La risposta è nella motivazione: i primi vogliono sottrarsi alle prove della vita, che invece sono necessarie per ottenere la salvezza dell’anima, i secondi aspirano a partecipare alla Passione di Cristo. Mi ricorda qualche cosa. La morte assistita di Paolo Giovanni II e quella di Welby e il trattamento che hanno ricevuto da parte della chiesa. E se bastasse dire: Lasciatemi morire, voglio ricongiungermi a Dio? La Chiesa accoglierebbe per un funerale religioso il ricongiungendo?
Tommaso d’Aquino descrive l’accidia con una grande penetrazione psicologica: "È una tristezza opprimente che produce nell’animo dell’uomo una depressione (sic) tale per cui egli non ha più voglia di fare nulla....è come un torpore dell’anima...”

Il suicidio
L’aspetto che maggiormente interessa le autorità cristiane è quello del suicidio. La sua condanna non discende immediatamente dalla Bibbia e mette inoltre in dubbio il comportamento dei martiri e delle vergini, che si uccidono per sottrarsi all’estremo oltraggio (questa chicca dell’estremo oltraggio è mia, ho trovato che ci stesse bene, n’est pas?).
Sarà Sant’Agostino a decidere definitivamente per un interdetto severissimo.
Da La città di Dio: “Questo diciamo, questo affermiamo, questo in tutte le maniere dimostriamo, cioè che nessuno deve di propria volontà darsi la morte...”
Questo interdetto è , all'inizio, solo un parere teologico, ma diventerà presto legge per i cristiani.
E mentre si è, tutto sommato, indulgenti verso il suicida che fallisce e sopravvive (cinque anni di penitenza) il cadavere di un suicida è sottoposto a pene infamanti.
Le vittime del suicidio vengono sepolte fuori del cimitero, con un piolo conficcato nel petto. I loro beni vengono confiscati e la loro casa distrutta.
Terribili pene accessorie vengono promesse nell’inferno.

Dante, Vate ma ortodosso, metterà gli accidiosi in Purgatorio, ma i suicidi all’Inferno.
In sintesi: il cristianesimo medioevale demonizza le angosce esistenziali, in cui vede una mancanza di fiducia in Dio e promette l’inferno a coloro che si disperano. I più fragili si trovano così a dover affrontare, oltre la loro sofferenza, anche il timore, se non riusciranno a sopportarla, di sofferenze ulteriori dopo la morte.
La Chiesa chiude l’angosciato in un cerchio infernale (è il caso di dirlo): l’accidia fa incombere la minaccia dell’inferno e la minaccia dell’inferno alimenta l’accidia.
Il paradosso cristiano è tutto qui: bisogna disprezzare la vita terrestre, ma allo stesso tempo trovarla bella e, soprattutto, non porvi fine.

5 commenti:

  1. Credo che la chiesa di salute psichica non abbia mai, volutamente, capito nulla.Dico "volutamente" perchè sono convinta che, al contrario, di pressioni psicologiche, sia maestra. E non si può conoscere ed ignorare contemporaneamente la stessa materia. Grazie a lei infatti molti di noi convivono e lottano contro ansie e sensi di colpa infiniti, dovuti ai loro cristiani insegnamenti. Anche coloro che non sono religiosi e non frequentano la santa chiesa hanno assorbito, senza volere, l'ansia da peccato da cui siamo costantemente perseguitati. E' vero che ognuno di noi si divincola come può e pecca e se ne frega ma solo apparentemente. In realtà spesso si crea un conflitto che porta nevrosi o negli animi più sensibili alla depressione ed alla malinconia.

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  2. Bellissimo Post.
    Complimenti !
    Concordo con M.Cristina in tutto.

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  3. Alla faccia del paradosso! Mi pare una vera incongruenza... O no?!

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  4. @ Cristina: Parole SANTE!
    @Fabio: alla faccia nostra, più che altro!
    @Paola:grazie. Vi romperò parecchio, devo arrivare fino ai giorni nostri e sto ancora al 1200/1300!

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  5. Concordo con tutto, fai davvero dei ran bei post e, quando riesco con calma, vengo a leggerti con grande interesse. Un abbraccio, Giulia

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