mercoledì 10 ottobre 2007

cicoria e broccoletti

Carta velina.
Non sono di carta velina eppure è venuto un giorno che mi ha lacerata.
Ma c’è voluto un colpo di forbici molto affilate e inferto con grande forza.
Però esiste lo scotch. La carta si rattoppa. Diventa un po’ stropicciata e non è bella a vedersi, ma può ancora servire.
Comunque sia, sbarcai a Teheran quando ero ancora carta da pacchi, bella robusta.


Erano quasi le due del mattino quando mio marito arrestò la Chevrolet rossa davanti al cancello della casa di Farmanieh e scese per aprirne il pesante cancello.
Buck abbaiava impazzito, per tutto il percorso dall’aeroporto alla casa aveva saltato avanti e indietro sui sedili della macchina, in uno svolazzare di peli fulvi, colpendoci con sferzanti colpi di coda. Ora si buttò fuori come pazzo e prese ad esibirsi in una frenetica sarabanda, con agili piroettate e avvitamenti al cielo.
La Picci, troppo eccitata per avere sonno malgrado l’ora fonda, tempestava suo padre di domande e lui eccitato quanto lei, la faceva ridere con risposte fantasiose.
La più stanca ero io. Temporaneamente priva di energie, utilizzate tutte per rientrare in possesso del mio cane, guardavo nella notte teheranì, ancora calda quel 23 di settembre del 1976. Passammo la notte tutti e quattro sullo stesso letto. Non so se Buck ritenesse che io avessi bisogno di un supplemento di protezione o volesse mettere se stesso al sicuro. La mattina dopo furono subito messi alla prova il mio spirito di adattamento e quello di autonomia: mio marito partì per il Kuwait. Doveva lasciare il paese per almeno cinque giorni per rientrarvi con un nuovo visto.
Per ogni problema avevo con me tre numeri di telefono: l’ ambasciata italiana, (figuriamoci!), una famiglia maltese, a me ignota, che mio marito aveva conosciuta nei mesi passati da solo a Teheràn e un’agenzia di noleggio, Rose taxi, per ogni spostamento.
Prima di partire mio marito mi presentò Zarà, che si sarebbe occupata della casa, e mi salutò con la tranquilla fiducia di sempre: me la sarei cavata. Infatti me la cavai, senza telefonare né all’ambasciata né ai signori N. che poi divennero miei amici.
Mi servii invece di Rose taxi per farmi accompagnare a fare i primi acquisti, nel supermercato sulla Palhavi. Si chiamava Kuroush e immagino che a quel gran brutto caratteraccio di Ciro il Grande la cosa non avrebbe fatto piacere.
Buck intanto iniziò il più accurato esame mai riservato ad un giardino, compiendo un impegnativo lavoro di marcatura di tutto il suo nuovo territorio. L’operazione lo tenne molto occupato per diversi giorni, perché era un cane preciso e, benché buonissimo, aveva un forte senso della proprietà. Nessun anfratto poteva restare senza il suo personale sigillo e, pino dopo pino, tutti vennero imparzialmente benedetti.
Tenendo sempre a contatto di pelle mia figlia cominciai le mie esplorazioni nel quartiere. La strada era ampia ma poco trafficata e a poca distanza, nelle vie di Dezashib c’era una piccola Moschea. Da quella moschea, mattina e sera, arrivava il richiamo del muezzin, che secondo l’ora e il giorno, mi sembrava triste o fiducioso.
Poco distante c’era un piccolo bazar, dove in seguito mi guadagnai una non piccola popolarità. A Teheràn non si trovavano verdure, insalate sì, ma broccoletti, cicorie, biede, no. Mi mancavano. In compenso però c’era un vero sciupìo di rape bianche che hanno l’ antipatica caratteristica di essere dure proprio come una testa di rapa e scipite allo stesso modo. Ma in cima alle rape crescono i broccoletti, che infatti, da noi chiamiamo anche broccoletti o cime di rapa. Solo che gli iraniani non li apprezzano, preferiscono la rapa nuda. Così il negoziante dopo averle pesate, taglia via rapidamente la verdura in cima e la getta al suolo, in mucchi che poi pecore e montoni si gusteranno.
Io avevo preso l’abitudine di farmi consegnare la cima verde e di lasciare all’ortolano la rapa bianca e questo suscitava intorno meraviglia e ilarità. Inoltre, poiché per ogni rapa la parte verde è poca, io aspettavo che qualche donna acquistasse le sue rape e mi facevo gentilmente consegnare le relative cime verdi. Ero disposta a pagare le rape in cambio delle cime. Si saranno di certo fatti l’idea di un popolo, l’italiano, che si nutriva di scarti! Ma quando riuscivo a procurarmi un chilo di broccoletti di rapa- e ce ne volevano di rape! -mi consideravo diabolicamente astuta e benedetta dalla sorte.
Anni dopo, a Roma, il mio amico Moshen, nascostamente rubava a Villa Ada le prugne verdi acerbe, per ritrovare il sapore ineguagliabile di quelle che acquistava fuori della scuola da ragazzo a Teheràn. Io le trovavo troppo aspre, ma anche mia figlia imparò ad apprezzarle molto, cosparse di sale. Le vendevano in cartoccetti come da noi i lupini, quelli che a Roma chiamiamo “fusaje”.
Per inciso nella cosmopolita Parigi, mi ci vollero mesi prima di riuscire a trovare la vera cicoria selvatica. Nello splendido mercato sull’Avenue du Président Wilson esploravo verdura per verdura e attraverso descrizioni e indicazioni sempre più elaborate riuscii a farmi portare da una simpatica ortolana della vera autentica pissenlit, e non la scipita e scivolosa chicorée. Anche a Parigi comunque non passai inosservata, dal momento che mentre i parigini, tipo umano fra i più parsimoniosi, ne acquistavano due etti, io ne compravo un chilo. Del resto anche il prosciutto lo acquistavano a fette. Quando da Raggi, tempio della gastronomia italiana a Parigi sentivo ordinare due fette di prosciutto di Parma alzavo gli occhi sulla faccia dell’italianissimo salumiere. Mi ricambiava brevemente lo sguardo, poi impassibile, affettava per l’elegantissima dama le due fette solitarie e passava infine a servire me con un sospiro di autentica soddisfazione.
Ma quello che volevo sottolineare è questa caccia che conduciamo ai sapori di casa.
Ognuno ai suoi. Non certo per mancanza di alimenti, ma per il desiderio che può diventare impellente di un qualcosa di casalingo, di patrio addirittura!
La mia patria, a rifletterci adesso, sapeva di cicoria e broccoletti!

3 commenti:

  1. Che bei racconti! mi manda un'amica comune, Artemisia, e le sono grata di avermi dato il suggerimento...non so se ti resterà il mio indirizzo e te lo do:
    donnanonmoderna.blog.lastampa.it

    buona giornata e a presto...Carmela

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  2. A Teheràn mi sono mancati moltissimo la rosetta, la mortadella, e la rosetta con la mortadella. Me lo ricordo molto bene.

    Invece a Paris mi sono mancati i supplì.

    Per il resto, in Iran si mangiava benissimo e mi piacerebbe tanto che qui a roma ci fossero ristoranti iraniani (non mi scorderò mai quei cosi aspri che cita mami, lo yogourt nel secchiello e il pane profumatissimo. Mi piaceva anche la cipolla cruda, a morsi, e una minestrina che faceva impressione a vedersi, ma che bontà!).

    La cucina francese invece, ammesso che esista, è solo un clamoroso bluff.

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  3. La cucina francese, esiste, ma la tengono nascosta ;-)

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