mercoledì 31 ottobre 2007

uter? uterque

Da tempo vivo un dilemma politico che mi logora come neanche il potere potrebbe. Chi buttare dalla torre? Mastella o Di Pietro? Già a me questa torre da cui non si può buttare più di un indesiderato mi irrita. E che torre è? Me lo sono sempre chiesta. Fin dai tempi in cui bisognava scegliere fra Gui e Tanassi. Molti di voi non li conoscono, ma vi posso garantire che anche quello era un bel dilemma. Gli Indiani Metropolitani-ah, gli Indiani Metropolitani, che nostalgia!La loro sublime ironia, la grazia dei loro slogan, quegli sberleffi così eleganti!-dicevo, gli Indiani Metropolitani avevano risolto il problema a modo loro e scandivano: Gui e Tanassi/sono innocenti/siamo noi/i veri delinquenti.
Erano i soliti vecchi anni settanta e lo scandalo Lockheed (una storia di corruzione per l’acquisto dei famosi Hercules, o C130, graziosamente chiamati “bare volanti”) rallegrava le nostre vite.
Gli Americani ci bidonarono, vendendoci degli aerei che, oltre che inutili per la nostra difesa, erano anche inabili al volo. Sembra che i pezzi di ricambio la Lockheed ormai non li producesse più da anni. Ne comprammo quattordici, grazie ai buoni uffici di Gui, Tanassi e Rumor, ma ne volavano solo 5; gli altri, in guisa di container se ne stavano a terra e venivano usati come magazzini. Vero.
Purtroppo è vero anche che, nel cielo di Pisa un C-130 precipitò, causando la morte di una cinquantina di giovani allievi dell’aeronautica militare.
L’altro quesito della nazione tutta, era al tempo: Chi è Antelope Cobbler? Il grande corruttore, Primo Ministro? All’inizio anche quello fu un dilemma, poi lo si riconobbe nel Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che infine si dimise.
Intanto Rino Gaetano cantava un’ Italia in cui si aggiravano antilopi e giaguari.
Ma torniamo al presente, questo excursus è stato anche troppo lungo.
Camminavo dunque a gran passi su questa torre, mordendomi il labbro per l’indecisione, quand’ecco, miracolo, apprendo che Mastella e Di Pietro hanno votato, finalmente insieme, contro la commissione di inchiesta sul comportamento delle forze di polizia, in occasione del G8 di Genova.
Splendida performance. Prezioso contributo alla democrazia del nostro paese.
Un bel salto dalla torre, mano sudaticcia in mano sudaticcia, penso che se lo meritino.
Un altro quesito però mi toglie la pace: non sarà il caso di minare la torre?

martedì 30 ottobre 2007

depressione/tre/Amleto alla battaglia di Poitiers

Il secolo che va dalla metà del '400 alla metà del '500 è il secolo della malinconia. Ma è anche il secolo dell’Umanesimo, del Rinascimento e della Riforma. Con Colombo il mondo si fa troppo grande, con Copernico la terra si fa troppo insignificante e con Lutero la chiesa perde la fiducia dei fedeli. La nascita dello spirito moderno non poteva che essere malinconica.
I grandi scienziati del secolo, Paracelso, Cardano, Agrippa sono dei depressi, in una certa misura lo è persino Copernico, che ha così poca fiducia in sé che a lungo non vuole pubblicare i suoi studi.
Al centro del malessere degli umanisti si pone il problema del tempo. Se da un lato la riscoperta delle civiltà greca e romana entusiasma, mette anche di fronte alla caducità delle vite dei singoli e delle comunità.
Insomma, il mal di vivere è una condizione mentale legata alla nascita della modernità.

Sarà Marsilio Ficino, grande umanista e grande filosofo, ma anche grande depresso, a mettere per primo in relazione la malinconia con la modernità. Nello stesso tempo però la rivaluta e di Saturno fa il più nobile dei pianeti.
Intorno a Ficino si raccoglie un piccolo circolo di depressi( Lorenzo il Magnifico e il suo medico Pierleoni ) tutti malinconici e fieri di esserlo. La malinconia infatti diviene moda e se ne fa il temperamento obbligato dell’intellettuale del XVI sec.
Comporta però sofferenza come Ficino sperimenta sulla sua pelle e per ottenere del sollievo si ricorre a erbe e talismani.Tra questi il quadrato magico.


Escono a decine libri sulla malinconia e pittori e incisori la rappresentano continuamente. Si dice che provenga dall' Italia (il che non sorprende perché Umanesimo e Rinascimento vengono di lì) ma sarà un inglese, Shakespeare, a rappresentarla artisticamente e a descriverci ben 52 suicidi nelle sue tragedie. Amleto è il prototipo del deprersso, il principe dei melanconici e la sua domanda, ormai insopportabilmente ripetuta, essere o non essere, è l’interrogativo che riassume tutta la condizione umana e anche tutto il mal di vivere.
Mentre i letterati disquisiscono, i medici cercano le cause, senza andare però al di là della bile nera.
La nosologia si rivela pertinente ma per l'origine si continua a parlare di peccato originale e diavolo.
I teologi continuano a considerarla prova di un' influenza diabolica e Santa Teresa d’Avila la compatisce nelle consorelle ma la punisce anche severamente.
Le autorita religiose rafforzano la loro campagna di demonizzazione del suicido.
Nel XVI secolo in Inghilterra i cadaveri dei morti si impalano, mentre in Francia si appendono per i piedi e i suicidi, per vendetta, diventano..fantasmi. Il depresso che ha turbato la società da vivo, da morto torna a disturbarla. Tiè.
Tra moda e dolore la malinconia profonda percorre tutto il secolo e se per i superficiali, specie nelle corti, fa tendenza, per le personalità più sensibili è una prima presa di coscienza del problema dell’Essere.



Nel 1514 Albert Durer, che ha già dato profondi segni di malinconia, incide Melancolia I con cui rappresenta, immortala e rende universale il mal di vivere. Ne sono state date cosi tante interpretazioni, (astrologiche, alchemiche, numerologiche, psicologiche, psicanalitiche, sociologiche, magiche e teologiche), che è ormai impossibile guardarla con occhi ingenui.
Io non riesco a dire se mi spaventi o mi affascini.

Altri artisti, loro stessi depressi, e che rappresentano la malinconia profonda dell'epoca sono Michelangelo,(nel Solitario, cioè Lorenzo, nella Cappella dei Medici) e Holbein.
Nella letteratura dichiara senza mezzi termini il suo mal di vivere Montaigne che, dopo un lutto, si ritira definitivamente in casa a scrivere i suoi Saggi.
Come Montaigne si lancia nella scrittura per combattere la sua depressione Robert Burton, autore dell’opera più importante sulla malinconia: Anatomia della malinconia. Si tratta di una raccolta, disordinata ma ricchissima (di più di 2000 pagine!) di osservazioni, racconti, testimonianze, storie, teorie, descrizioni.
L’atteggiamento di fondo, è molto moderno. Burton si scaglia contro coloro che non credono alla realtà della malattia e aggiungono alla sofferenza di coloro che ne sono afflitti anche la condanna sociale, incitandoli a fare uno sforzo di volontà e a non prendersi sul serio.Distingue radicalmente l'atteggiamento malinconico dal mal di vivere che lo rende, dice "in esilio da se stesso".

Quelli di voi che hanno resistito fino qui stanno per essere premiati, perché passiamo alla parte divertente del libro di Burton, quella cioè relativa alla cura della depressione. Una cura molto, molto dandy.
Immaginate che ve la stia leggendo Paolo Poli e l’effetto comico sarà assicurato.
Dunque, a colui che deve affrontare una depressione, Burton consiglia di:
Scegliere una località dal clima gradevole, riparata da venti malevoli
Costruirsi una casa spaziosa e salubre correttamente orientata ( architettura feng shui? )
Arricchirla con un giardino che abbia al centro una fontana con un getto frusciante, giorno e notte
Nel giardino piantare molti fiori ma soprattutto rose e violette
Dei fiori fare spesso mazzetti da tenere durante il giorno tra le mani
Sarà anche indicato:
Viaggiare spesso ma senza scomodità
Ricevere amici ma senza affaticarsi
Fare sesso ma che sia soddisfacente
Ascoltare musica e canto
Bere un bicchiere di vino dolce prima di andare a dormire
Coricarsi tra lenzuola morbide e pulite
Lavarsi spesso mani e viso
Indossare biancheria pulita
Cambiarsi spesso di abito e vestire piacevolmente
Assistere a spettacoli che possano distrarre dal cattivo umore: processioni, sfilate, incoronazioni, fuochi di artificio, ricevimenti di ambasciatori o principi, mascherate.
Anche assistere alle battaglie nel momento dell’azione, fa al caso del depresso, e se purtroppo quella di Poitiers ormai se l'è persa, tranquilli, altre ce ne saranno(sic, sic, sic)
Per le donne niente battaglie, ma le solite attività: tombolo, ricamo, cucito, conserve, confetture e distillati.Comunque, si pensa che il sesso prescritto al depresso uomo, abbia come effetto secondario, del sesso anche per la sua compagna.

Tutti però, uomini e donne, non dovranno mai interrogarsi sul senso dell’esistenza.

Quanto ai rimedi più propriamente medici, vi avviso, non c’è più niente da ridere. Il concetto generale è ESPELLERE l’umore malinconico. Quindi emetici, salassi, purgativi, e sanguisughe applicate direttamente alle emorroidi.
Deprimente.

lunedì 29 ottobre 2007

quando? sulla via Lattea....

Due notizie lette ieri mi hanno portata a questo post.

La prima è che al teatro Palladium di Roma si è tenuta la prima mondiale dello spettacolo “Opera di amore e destino” durante il quale sono state eseguite delle composizioni, recentemente ritrovate, scritte e musicate dal premio Nobel per la Letteratura Rabindranath Tagore. Danze indiane hanno accompagnato i canti.
La seconda notizia è che Francis Ford Coppola ha girato un nuovo film “Youth without youth”, tratto da un romanzo postumo di Mircea Eliade, il grande storico delle religioni rumeno. Coppola in una intervista dice di aver sviluppato del romanzo di Eliade “il tema dell’amore eterno di un uomo per una donna. Il racconto è una variazione del Faust. Che cosa è l’eterna giovinezza? -si chiede Coppola? -Secondo me è la capacità di innamorarsi di nuovo, e sempre della stessa donna: la donna della propria vita”
Questi tre elementi Tagore, Eliade, una donna amata e poi riamata, hanno fatto scattare in me il ricordo di una storia straordinaria. La storia di una donna che scriveva poesie accanto a Tagore e le cantava e le danzava per lui. Una donna che in quegli stessi giorni amava Mircea Eliade. Una storia che credevo di aver letto fino all’ultimo capitolo e che forse invece ne ha ancora uno da offrirmi.
Eccola.


E’ una storia fatta di due libri. Il primo è stato scritto nel 1934 da Mircea Eliade, grande filosofo rumeno, uno dei massimi studiosi del fenomeno religioso, professore emerito all’Università di Chicago, morto nel 1986 a 79 anni.
L’altro è stato scritto nel 1974 da Maitreyi Devi, grande poetessa indiana, discepola prediletta di Rabindranath Tagore, critica letteraria, attiva sostenitrice dei diritti civili delle donne e dei bambini, morta nel 1990 a 76 anni.
Il secondo libro è la risposta al primo.

Mircea Eliade e Matrieyi Devi si incontrarono a Calcutta negli anni trenta, lei sedicenne, lui ventritreenne. Il giovane Eliade era in viaggio di studio in India e fu ospitato nella casa di Bhowanipur dal suo professore di filosofia Surendranath Dasgupta, padre di Maitreyi.
Quell’incontro Mircea Eliade lo ha raccontato nel suo romanzo “Maitreyi, incontro bengalese”. E Maitreyi ha voluto racccontarlo di nuovo e differentemente nel suo: “Na hanyatè, ciò che non muore mai”.
Io ho letto il primo libro nel 1992 e il secondo tredici anni dopo, nel 2005.
Del primo mi colpì l’analisi sottile e penetrante che Mircea faceva dei suoi sentimenti e delle sue sensazioni, lo studio, la riflessione che veniva dedicata da un uomo ad una storia d’amore, narrata nel suo affacciarsi, evolversi, affermarsi e interrompersi bruscamente a causa dell’intervento repentino della famiglia di lei. Attenzione rara in un uomo quando si parli in prima persona della propria esperienza e non si tratti di scrivere un romanzo, di inventare un rapporto, una storia. Quell’amore infatti era raccontato come storia vera, con tanto di nome della protagonista e particolari precisi e riconoscibili. Era una storia piena di sensualità, di passione e di sfinimento, una storia da cui la giovane poetessa Maitreyi veniva fuori come un’amante infiammata, che passa dallo stupore della prima esperienza alla scioltezza di una sessualità matura. A parte questa giovane figura me ne restò il senso un po’ favoloso dell’India di quegli anni e dei rapporti complicati fra il giovane intellettuale occidentale, pur innamorato della cultura e della filosofia indiane, e la società colta del paese, in cui i rapporti artistici si trasformavano in vere filiazioni e in simbiosi affettive. Come quella strettissima tra Matreyi Devi e Rabindranath Tagore.
Di Eliade lessi in seguito Notti a Serampore che trovai più equilibrato e più originale. Comunque nessuno dei due libri di Eliade divenne mai un mio intimo amico.
Il nome di Maitreyi restò però nelle mie orecchie e quando, tredici anni dopo, mi cadde l’occhio sul suo libro, lo presi attirata solo da quel nome. Era proprio lei, la Matreyi di cui sapevo cose così intime! Anche se devo dire che qualche cosa, che non avrei neanche saputo definire, a suo tempo mi aveva lasciata perplessa nella descrizione che Mircea Eliade aveva fatto di quella sedicenne bengalese del 1930. Qualcosa di non credibile fino in fondo.
Il meccanismo per cui nel racconto anche autobiografico facciamo slittare di poco la realtà solo per il gusto di un aggettivo o di un costrutto, aveva per me giustificato però quella sensazione e tutto era finito lì. Mi dissi cioè semplicemente che Mircea Eliade aveva fatto un po’ di letteratura.
Maitreyi ora presentava il suo libro come la sua autobiografia e mi venne la voglia di leggere la storia della vita di quella sedicenne che Eliade mi aveva consegnata nel suo romanzo come protagonista di una storia un po’ scivolosa.
Scoprii subito che Maitreyi aveva scritto il libro proprio a confutazione di quello di Eliade, perché non si riconosceva in quella giovane, né nella storia narrata. Anzi era offesa, indignata, furiosa e delusa. Aveva sempre saputo che la storia del suo amore con il giovane Eliade era diventata un romanzo, ma non aveva mai voluto leggerlo. Lo aveva fatto solo nel 1972, a 58 anni e la lettura l’aveva sconvolta, ferita, indignata, tanto da costringerla a rispondere subito con la sua verità.

Voglio chiarire subito che in questa disputa io credo a Matreyi. Le credo perché dal suo racconto esce una storia molto più credibile, realistica, immaginabile e in linea con la mentalità e la cultura di quell’ambiente e di quei tempi. Le credo anche perché lei acclude lettere e bigliettini che da soli testimoniano di un amore casto, fatto in tutto di un bacio leggero, appena una pressione sulle labbra. Ma avrei comunque creduto a Maitreyi perché questa donna nel suo bisogno di ristabilire la verità e di chiedere ragione della menzogna, fa qualcosa di straordinario. Si procura l’indirizzo del grande studioso e gli scrive un breve bigliettino invitandolo ad un colloquio chiarificatore. In mancanza di una risposta, anziana, seriamente malata, rintraccia Eliade negli Stati Uniti, e attraversa mezzo mondo per andargli a chiedere conto di persona di quello che ha scritto. Quarantadue anni dopo.
Il libro di Matreyi è molto più bello di quello di Mircea, per qualità letteraria innanzi tutto, ma anche per ricchezza di esperienze e perché una poetessa è una poetessa e uno studioso che scrive romanzi resta uno studioso che scrive romanzi. Ma la scena, che chiude il libro, in cui Maitreyi si presenta nello studio di Eliade all’Università di Chicago, a Wood Land è semplicemente indimenticabile. Vorrei poter riportare tutto l’incontro.

Comincerò con il vero coup de teâtre. Quando si arriva al momento dell’incontro ci aspettiamo che Matreyi accusi Mircea di aver mentito, di aver fatto di lei una piccola sporcacciona per prendersi, sia pure letterariamente, quel piacere che sembra essere per gli uomini quasi più importante del piacere stesso, poter dire agli altri uomini: è stata mia. E invece no. O meglio lo accusa sì di aver mentito, nel raccontare la loro storia “La fantasia è bella, la verità ancora più bella, ma una mezza verità è disgustosa” dice Maitreyi. Ma l’accusa più grave è un’altra. E’ un’accusa di tradimento. Quello che è grave per Maitreyi è che Mircea abbia tradito il sentimento che li ha uniti, trasformandolo in una storiaccia. Non per la menzogna in sé, né perché la menzogna l’ha infangata, in un ambiente e in un’epoca in cui questo fango era difficile da lavar via, ma perché non ha conservato e anzi difeso quel sentimento nella sua natura miracolosa. È di quel sentimento che viene a chiedere conto. Quel sentimento mai morto per lei e che lei sa non poter essere mai morto in Mircea. Quel sentimento che è stato strapazzato dal libro infame di Eliade, quel sentimento lo vuole nuovamente testimoniato, è la riparazione che chiede ad Eliade.

Mircea sta nel suo studio all’Università. È l’orario in cui riceve gli studenti. Non sa niente di Matreiy. Ma mentre siede alla sua scrivania Matreiy entra nella stanza. È anziana, malata, incerta nei suoi passi perché quasi cieca, in preda all’emozione e ad un malessere, ma entra e guarda in faccia Mircea senza parlare.

Entro nella stanza. Immeditamente sento un “oh”, Mircea si alza in piedi, poi si siede di nuovo, di nuovo in piedi e mi volta la schiena. Cosa vuol dire questo, chiedo a me stessa, che mi ha riconosciuta? Come potrebbe, non mi ha neanche guardata, è possibile che riconosca il mio passo?.....Lo osservo: in cima alla testa non ha più capelli, pochi imbiancano la nuca. È magro come sempre e senza posa come sempre, prende le carte dal tavolo e di nuovo le rimette giù.
"Mircea, perché mi volti le spalle?"
"Non ti voglio vedere, sto aspettando qualcun altro"
"Sai chi sono io?"
"Certamente, certamente" dice toccandosi la testa.
Questo sì,era lo stesso Mircea, il ragazzo di ventitré anni era visibile nell’uomo di sessantasei.....lo riconosco, il mio intero essere lo riconosce. Questo è lui, lui e nessun altro. E io? Chi sono io? Anch’io sono la stessa. Indistruttibili, i miei sedici anni facevano affacciare la ragazza di allora.

“Dimmi chi sono"
"Tu sei Amrita, ti ho sentito dal momento che hai messo piede in questo paese"”.
"Perché non parli? Mircea, mio caro, girati per favore, sono venuta da lontano per vederti. Perché non mi vuoi guardare?".....

Ma Mircea ostinatamente le volta le spalle, mentre annaspa toccando le sue carte. Inizia quindi un dialogo di cui riporterò solo le frasi più significative.

"Perché non hai risposto alla mia lettera?" chiede Amrita.
"Amrita, voglio dirti che quell’esperienza è stata così sacra che non ho mai pensato di poterla ripetere di nuovo. Così ti ho fatto uscire fuori dal tempo e dallo spazio......
.....Ci sono molte cose belle, il monte Sumeru, l’Himalaya incappucciato di neve, ma puoi raggiungerle? Sappiamo che ci appartengono, ma puoi averle? E questo non vuol dire dimenticare. Queste cose rimangono come un bel sogno catturato nell’angolo più remoto dell’universo privato di una persona"-dice Mircea.

"Ma come vedi io riesco a raggiungerlo perché sono qui"
"Solo perché tu sei Amrita, l’indistruttibile Amrita. Posso fare io quello che tu puoi fare?"
"Non voglio ascoltare tutte queste chiacchere, girati Mircea, voglio guardarti."
"Come posso guardarti, credi che Dante abbia mai pensato che avrebbe potuto rivedere Beatrice con occhi vivi?...."

Amrita trema di rabbia per la confusione di Mircea. Quell’uomo viveva veramente in un mondo irreale, un mondo di fantasia, da dove aveva tirato fuori Dante e Beatrice?.........

"In quale mondo di sogni, in quale oscuro cielo stai vivendo Mircea?.... Io appartengo a questo mondo ed è l’Amrita in carne ed ossa che ti sta davanti nel tuo studio..
Tu sfuggi la realtà, liberati da questa malattia... ...per venire qui sono caduta dall’alto piedistallo della onorabilità e qualcuno pensa che io sia rimbecillita. Cosa credi che dirà la gente se si viene a sapere tutto ciò? Conosci il nostro paese, mi disprezzeranno. E facile venire a trovarti dopo 42 anni?”.....Tu ami l’irreale, il fantastico ma io ora sono venuta qui nella realtà per portare a termine una impresa impossibile”

Lui in piedi continuava a voltarmi le spalle. La mia mente ora è lucida e stabile. Lo libererò da quel suo mondo di fantasia. Ci vedremo l’un l’altro in questo mondo reale.
"Svegliati, mio caro svegliati........Mircea, sono in piedi nella tua stanza, sono un essere umano, non un simbolo non un mito. Beatrice andò in paradiso e lì incontrò Dante. Gli sarà apparsa come un fantasma ma non credi che sia diverso per me, che ti sono venuta a trovare nella vita reale?”
Mi parlò senza voltarsi, con voce affannata: "Meraviglia, ma che cosa meravigliosa è questa! Lo dico sempre ai pessimisti: chi può sapere le possibilità della vita? Chi può dire se può capitare oppure no? No, non ho mai pensato che ci sarebbe stata la possibilità di incontrarti”.
"Bene, allora girati”

Mircea si volta, ma tiene gli occhi girati da un’altra parte.
Amrita insiste.

“Sono venuta a vedere quello che è in te, ciò che non ha inizio né fine e, se tu mi guardi, credimi, in un attimo ti farò tornare indietro di quarant’anni, esattamente nel posto dove ci siamo incontrati per la prima volta"

Ma quando Mircea alza il viso a guardarla i suoi occhi sono vitrei. Amrita capisce che Mircea ha ormai occhi di pietra, che non potrà vederla di nuovo. Che ha chiuso il suo cuore alla comprensione perché ha paura dei sentimenti.
No, non mi avrebbe vista di nuovo. Cosa posso fare ora? Non sono capace di dare luce a quegli occhi...è troppo tardi

Il coraggio e la forza l’abbandonano, Amrita si prepara a tornare indietro sconfitta.
Mircea non vuole riconoscere in se stesso il Mircea che amava Amrita e non vuole riconoscere in questa donna anziana e stanca gli stessi occhi di quando si amavano.

Avvertii la sofferenza che dal mio cuore spezzato si levò come un sospiro e vagò per la stanza.
Mi avviai verso la porta quando udii la voce di Mircea:

"Amrita aspetta, perché crolli proprio ora, quando sei stata cosi coraggiosa? Te lo prometto tornerò da te e lì ti mostrerò il mio vero essere".
Non sono una pessimista. Dentro il mio cuore il piccolo uccello della speranza aveva le ali spezzate; ma non appena le parole di Mircea lo raggiunsero, anche il mio piccolo uccello riprese a vivere e si trasformò in una fenice. Qualcuno di voi ha mai visto una fenice? Questo grande e bellissimo uccello allargò le ali e mi trasportò sempre più in alto, il tetto dello studio di Mircea si aprì, i muri sparirono e tutti quei libri di pietra si trasformarono in onde e sentii il rumore dell’acqua che scorreva. Quel grande uccello mi sussurrò...Non ti scoraggiare, Amrita, accenderai di nuovo quegli occhi!”
"Quando?", chiesi avidamente. "Quando vi incontrererte sulla Via Lattea, e quel giorno non è molto distante ora”.


Mircea visse ancora quattordici anni, Maitreiy diciotto. Non si incontrarono più.
Prima di morire Mircea scrisse il lungo racconto su un amore senza tempo da cui Coppola ha tratto il suo film.

Che cosa ho visto io in questa storia e perché mi colpì così tanto quando due anni fa’ lessi il libro di Maitreyi Devi?
Credo che sia stato perché assistevo contemporaneamente a diversi confronti.
Maitreyi è la donna che crede nel perdurare dei sentimenti e chiede ragione solo del torto fatto ai sentimenti e non a lei stessa.
Mircea è l’uomo che nel raccontare l’amore compie il suo distacco, come sempre fanno gli uomini quando si raccontano un amore.
È anche il confronto tra una persona adulta, che ha i piedi in terra, ha varcato un oceano e sa quel che vuole e un bambino spaventato, tremante e incapace di staccarsi dal sogno per accogliere la realtà.
Maitreyi sa che la società bengalese, ancora alla sua età, le farà pagare il gesto che sta compiendo, che ancora darà scandalo per aver attraversato l’oceano per andare a parlare ad un uomo che l’ha infangata quaranta anni prima.
Ma non è questo l’aspetto che le interessa.
Quello che Maitreyi chiede a Mircea non è: come hai potuto infangarmi? bensì: come hai potuto trasformare e tradire i nostri sentimenti? Che cosa vuole davvero Maitreyi? Maitrey crede che se Mircea si sveglierà dal torpore dei sentimenti in cui si è chiuso, per difendersi dal passare del tempo, se lei riuscirà a svegliarlo, per l’attimo breve del loro incontro, anche lui avrà la forza di rinascere alla realtà, a quella realtà che lei, donna e indiana, sa, senza bisogno di interrogarsi: che l’amore non ha nulla a che fare con il tempo né con la materialità della vita.
“Ma tu credi che l’amore sia un oggetto materiale di cui puoi privare qualcuno per donarlo ad un’altra persona? che sia una proprietà o un ornamento? L’amore è una luce e una volta caduti sotto il suo raggio la vita non può più spegnerlo né il tempo lo può”. Questo vuole Maitreyi che Mircea senta e riconosca. Sia pure nel tempo, ben presto finito, dell’incontro. Io ho avvertito in questo dialogo anche il confronto fra la cultura del misurabile, la nostr cultura occidentale, e la cultura del divenire del vasto continente indiano.

Due anni dopo nel 1974 Matreiy scrive il libro che termina con il racconto di quell’incontro straordinario. Dentro c’è tutta la sua vita, il suo amore per il marito e i figli. Figure starordinarie anche queste, un marito che a Maitreyi che lo ringrazia per la liberta che le ha sempre lasciata, nel vivere, nello scrivere e persino nel ricordare risponde semplicemente: Avrei dovuto tenermi in tasca la tua libertà per tirarla fuori occasionalmente? La libertà è un diritto che ti appartiene con la nascita.”
Fino al 2005 credevo che la storia fosse finita lì. Poi, come vi ho detto, ieri ho scoperto che Mircea ha scritto, in seguito, questo racconto lungo Youth without youth, in cui racconta la storia di un amore che percorre sotterraneamente tutta la vita di un uomo e di una donna.
Sto cercando il libro e sto aspettando il film di Coppola, ma qualche cosa voglio dire, io che la storia l’ho seguita dal suo inizio alla sua fine: e cioè che, non essendo indiana, come Maitreyi Devi era e come, dopo una vita di studi filosofici, si sentiva anche Mircea Eliade, penso che non ci sia nessuna via Lattea in cui Maitreyi e Mircea potranno mai incontrarsi.
Qualche volta, però, vorrei poter credere, anche io, alla voce della fenice.

domenica 28 ottobre 2007

un po' di Emily

Per oggi è tutto quello che ho da portare-
Questo, e insieme il mio cuore-
Questo e il mio cuore e i campi-
e i prati-tutto intorno-
Contali uno per uno-dovessi dimenticarmene io
qualcuno dovrà ricordarne la somma-
Questo, il mio cuore e le api, una per una,
che abitano il trifoglio.
(1858)



Per fare un prato ci vuole del trifoglio
e un'ape, un trifoglio e un'ape
e sogni ad occhi aperti.
E se saran poche le api
basteranno i sogni.
(non datata)


L'altro giorno-ho perso
un mondo-qualcuno l'ha trovato?
Lo si riconosce dal diadema di stelle
che gli incornicia la fronte.

Potrebbe passare inosservato-agli occhi di un ricco
ma-ai miei occhi parsimoniosi
vale assai più dei ducati.
Signore, lo trovi per me!
(1860)





La casa di Amherst (Massachussetts), dove Emily condusse tutta la sua vita.

sabato 27 ottobre 2007

dimensione quartiere

Una grande città, in cui scomparire per tutti, è una specie di assicurazione sulla vita. Protettiva quanto più è indifferente, avvolgente e materna, quanto più è anonima e distante. In una grande città puoi tendere la mano ad un amico e l’amico, se è tale, la raccoglierà, ma puoi tenere entrambe le mani in tasca e andartene in giro liberissimamente sola o con i tuoi fantasmi, se ne hai.
Io sento spesso il richiamo di un piccolo paese, di campagna possibilmente, dove la voce arrivi di finestra in finestra e le strade siano così poche che in un giorno le si possa ripercorrere, più volte, tutte. Un paese dove la natura entri dentro con i suoi odori e i suoi suoni. Quello che poi mi trattiene dall’accostarmi davvero a questo sogno, dal prenderlo in considerazione come vera ipotesi di lavoro, è il bisogno di conservare la mia vita stretta a me, di essere nessuno per tutti o ognuno per chiunque.
Oggi potrei uscire di casa e scendere dal mio colle e subito, nel giro di cinque minuti, nessuno più mi conoscerebbe, nessuno più saprebbe chi sono, che cosa sono. Corpo indistinto nella città. Potrei sedermi all’angolo di una strada e tendere la mano. Nessuno ci farebbe troppo caso. Come potrei entrare nel costoso calzolaio di via Veneto e spararmi così tutta la pensione in un unico paio di scarpe molto americane o molto puttanesche. La commessa lo troverebbe perfettamente normale. Dare scandalo in una città è molto difficile, anche se tutti continuamente dichiarano di scandalizzarsi. In realtà nessuno dà scandalo e nessuno si scandalizza davvero. In ogni caso l’operazione viene rinviata ad altro momento. Quando uscirò in pausa pranzo, quando avrò finito di fare compere, mentre aspetterò l’autobus mi scandalizzerò, ora non posso. Non che il dare scandalo mi faccia un po’ di caldo o un po’ di freddo. Era tanto per fare un esempio. Quello che accade o non accade in una grande città è subito assorbito e la tua vita, che non conta un copeco (influenza di Guerra e pace in tv), resta interamente tua, con il suo piccolo valore. Io ho bisogno di abbracci quanto chiunque altro. Va beh, un po’ di più, lo ammetto, ma ho anche bisogno di tanto spazio intorno a me. Tanto spazio. Emotivo e psicologico. E fisico anche. Non statemi addosso. Ecco, è venuto fuori così, proprio sputato fuori dai denti, il mio bisogno attuale. Il senso di una comunità stretta intorno a me in questo preciso momento mi soffoca. Ai miei affetti vorrei dire: potreste amarmi da lontano per favore? Vorrei sentire un po’ la vostra mancanza. Potreste stare un po’ zitti? Togliermi il saluto? Tenermi il broncio? Radiarmi? Ostracizzarmi? Dimenticarmi? Abolirmi? Inabissatemi nell’oblio, fatemi il piacere. Cancellatemi, temporaneamente, dal vostro orizzonte affettivo. Consideratemi parìa del vostro cuore e residuo organico speciale dei vostri pensieri. Insomma lasciatemi derivare liberamente. Liberamente. Che parola fluida, scorrevole, leggera, un vento che ti scosta i capelli dalla fronte. Liberamente. Ma liberamente dovrebbe essere libera-mente. La mente dovrebbe essere libera. Ecco, il quesito ruota intorno a questa mente che ha bisogno di essere libera dal pensiero altrui per poter semplicemente aspirare a diventare, in sé, libera. Senza nessuna garanzia di riuscita. Se l’operazione fosse una divisione, sistemato dividendo e divisore, ottenuto il quoziente, potrebbe esserci un resto. Cavolo, che fare del resto? Ma se fosse una sottrazione- sì la sottrazione si presta molto di più-se fosse una sottrazione, il risultato, in ogni caso, sarebbe lo zero. Nelle sottrazioni non ci sono resti, grazie a dio. Ma, che cosa sottrarre alla nostra mente? Di che cosa liberarla davvero? Dei ricordi? Lavoro complicato, lungo, di esattezza chirurgica, perché l’errore potrebbe privarci di una piccola particella vitale. No, i ricordi no. Dei sogni? Ma quando mai! Quanto più sogna tanto più è libera una mente. E questo vale per le fantasie, per i voli, per le impennate. No, cambiamo strada. Liberarla delle paure? Tentazione. Brivido di interesse. Eppure, senza le paure, chi l’avviserebbe dei rischi? Chi le impedirebbe di deragliare? La paura, lo si sa, serve a questo, è un segnale di pericolo che va ascoltato. Sì, capita che qualcuno suoni l’allarme per errore, ma insomma, meglio un allarme in più che un allarme in meno. (vedi Jervis). Dunque non dai sogni, non dai ricordi, non dalle paure. Allora forse questa mente va liberata dai problemi, dalle domande, dagli interrogativi. Impossibile. Questa mente si diverte proprio con le domande e gli interrogativi, questa mente trova i problemi pane fresco per i suoi denti. No, cambiare ancora strada. Liberiamola allora dei progetti. Sì, i progetti possono mettere in crisi. Nebulosità, paura dell’insuccesso. Sì, i progetti sono carognette toste. Eppure, eppure..Per una volta che nella vita ne ho uno, francamente sacrificarlo così, non mi va. E poi dicono che senza progetti, senza nessun progetto, la mente più che libera si fa sgonfia, floscia, smidollata, diventa uno straccetto umido di insignificanza. No, il mio solitario progetto me lo tengo. Tanto pesa poco. Allora l’alleggerisco delle emozioni, quelle sì che sono tante, quelle sì che sono troppe! Cooosa? Ma stiamo pazziando?!? Senza emozioni?!? Ma le emozioni sono il mio carburante naturale, la mia benzina, il mio gasolio, il mio carbone e la mia energia atomica. Non sono sempre stata pronta ad incasinarmi la vita per un’emozione? Le emozioni mi “nutellano” l’anima, me la “marronglassano”, me la “peperoncinano”, me la “zenzerano”, me la “agrodolcificano”. Le emozioni, vi avverto, intendo tenermele tutte. Come sono, sono! Ma insomma, ‘sta mente, di che la libero? Dei rimpianti? Dei rimorsi? Delle colpe? degli errori? Non ci siamo, tutto ciò è materia del ricordo e abbiamo già assodato che i ricordi sono troppo stretti, intricati, avviluppati per poter veramente separare il grano dall’oglio. Il grano dall’oglio? Dico, ma come parlo? Diciamo allora, per poter separare i diamanti dagli zirconi. Ecco, già va meglio, dà di me un’immagine meno agro pastorale e molto più chic. Allo chic ci tengo. Anche la mia mente ci tiene, giacché si considera molto, molto ‘in.’ Tentiamo un’altra strada, nel progetto liberazione della mente, proviamo con le passioni. Liberiamo la mente dalle passioni. What? Whaaaat? Le passioni, lievito divino della mia vita? Che, quando dissi al professore che non avrei saputo come definire il mio temperamento si fece una risata: ma passionale, signora, lei ne è il prototipo! Beh, va da sé che un prototipo non può, per nessuna ragione , sprototipizzarsi. Le passioni me le tengo, ne va della mia identità, ne va della mia stessa sopravvivenza. Preferisco perdere tutti i capelli piuttosto che le passioni. E dio sa se mi seccherebbe.
Niente da fare, questo lavoro di ripulitura della mente sembra un lavoro impossibile. Di quelli proprio impossibili, alla Freud. Questa mia mente, per essere davvero se stessa, deve tenersi, sembra, tutti i suoi componenti. Una libera-mente è una mente che resta se stessa. Questo mi sembra assodato. Mi sento un bel po’ imbecille, in effetti. Penso che chiunque me lo avrebbe potuto dire in quattro e quattro otto, senza fare tutti questi ragionamenti sciocchi.
Sì, ma volete mettere quanto mi sono divertita a farli?
bye, bye, me ne torno nel caldo del mio quartiere e dei miei affetti. Come non detto.

venerdì 26 ottobre 2007

ode all'accidia

Ode all'accidia

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di M.P.
Roma 25/10/2007

vizi capitali/quattro/accidiosi di tutto il mondo unitevi.....

Sull’accidia voglio aggiungere un punto di vista un po’ particolare.
Premetto però che la Chiesa ha progressivamente allargato il senso del termine ‘acedia’ dalla depressione angosciosa alla semplice, e molto più diffusa, infingardaggine. È rimasta tra i sette peccati capitali, ma ha definitivamente abbandonato l’area ‘patologica’ per accamparsi in quella morale. Con piena soddisfazione, direi, dei depressi, che di essere chiamati anche accidiosi fanno volentieri a meno.

Come vizio capitale l’accidia è splendido. Qui ricordo di sfuggita che quel ‘capitale’ viene da caput, cioè ci si gioca la testa, sia pure post mortem. Se dovessi scegliere di conservare uno solo dei sette vizi capitali (li ho tutti, sì) mi terrei l’accidia. Almeno in questa fase della mia vita. Diciamo che fino ai quaranta mi sarei tenuta la lussuria. E anche la gola. Avviandomi ad un’età in cui la morigeratezza non è più una prescrizione morale, ma una prescrizione medica, l’accidia fa proprio al caso mio. Se cerchiamo su un dizionario dei sinonimi, quelli di accidia, troviamo in prima fila pigrizia seguito da apatia, neghittosità, indolenza, malavoglia, inerzia, lentezza, infingardaggine, poltronaggine, poltroneria, scioperataggine, torpore, svogliatezza, negligenza, fiacca.
Mi sembra uno splendido programma di vita!
Un incrocio fra il “Laissez faire” e il “Lasciati andare”, con l’ulteriore spinta di un “Relax!”. Uno splendore, vi dico.



Apparente digressione
Karl Kraus in ‘Detti e contraddetti’ getta là una piccola gemma: “Una delle malattie più diffuse è la diagnosi”. Se lo era ai suoi tempi, figuriamoci nei nostri.
Non c’è praticamente comportamento umano che la nostra società non si preoccupi di isolare subito dal suo contesto, di studiare sotto una lente di ingrandimento e di definire come patologia. Cui non si affretti a dare un nome preciso e per il quale non proponga immediatamente una terapia.
Esistono talmente tante terapie, per talmente tante sindromi e disturbi, che l’intera umanità, pur mettendocisi di impegno, non riuscirà mai ad ammalarsene davvero.
Agli esperti e ai loro manuali, ai loro saggi e alle loro relazioni, alle loro pubblicazioni e ai loro centri, si aggiunge la buona volontà (ah, quanto è pericolosa la buona volontà!), di tutti coloro che sono pronti a farsi carico di noi e a diagnosticarci questo o quell’altro male e a proporci la cura perfetta per il nostro caso.
Attenti a denunciare un piccolo doloretto al polso destro! Subito il collega di stanza vi diagnosticherà il tunnel carpale e, se non sarete fermi nel respingere la sua affettuosa attenzione, vi troverete già prenotati con il suo stesso chirurgo. Bravissimo! giurerà.
E guai a dire che volare vi fa paura e che vi vengono delle contrazioni allo stomaco prima di imbarcarvi (Del resto, ammettiamolo, le ali non ce le hanno date come corredo di base). Subito un volenteroso identificherà in questa vostra idiosincrasia, un primo accenno di attacco di panico e vi proporrà, secondo la sua scuola di appartenenza, uno psicofarmaco o una bella psicoterapia.
E mai, dico, mai dichiarare di fronte a chicchessia che avete mal di testa!
Il mondo sembra composto di persone a caccia di gente con il mal di testa, convinte che voi nella vita non abbiate mai fatto nulla per liberarvene e anzi, lo abbiate accolto come un piacevole sistema per ingannare il tempo, gente infiammata dalla esaltante missione di strapparvi alla vostra sofferenza, dirottandovi sul centro appropriato, quello che si è occupato del loro mal di testa estirpandolo in un amen.
Questo discorso non vuole essere una svalutazione o addirittura una condanna della generosità e della solidarietà umana, virtù che apprezzo in sommo grado. Vuole semplicemente invitare i solidali ed i generosi ad attendere la richiesta di aiuto, per precipitarsi, solo dopo, a soccorrere il loro simile.

Questa pseudo-digressione è meno fuori luogo di quanto potrà esservi sembrato.
Infatti la vera disperazione del ‘soccorrevole’, tipo umano inquietante e, ammettiamolo, un po’ ossessivo, è proprio l’accidioso. Il ‘soccorrevole’ infatti ritiene che tutto, ma proprio tutto, vada curato, che nessuna, benché minima, patologia possa essere serenamente accettata e che occorra predisporre un programma per affrontare qualunque disturbo o anomalia o semplice particolarità. Il suo scopo sembra essere quello di far approdare ogni suo simile alla nirvanica esperienza dell’esser sano. Fisicamente, mentalmente, psicologicamente e, perché no, spiritualmente. In una parola, perfetto.
L’incontro tra un accidioso e un soccorrevole è spassoso, a patto di non essere voi stessi o l’accidioso incalzato o il soccorrevolo frustrato.
L’uno diagnostica, sempre senza richiesta alcuna da parte del diagnosticato, e prescrive. L’altro, vagamente ascolta, e altrettanto vagamente ignora.
Il soccorrevole si allontana deluso. L’accidioso, lui, resta. Blandamente scocciato.
La differenza fra i due, in fondo, è che l’uno respinge l’idea che l’essere umano sia imperfetto e la vita un’accozzaglia incasinata di problemi, e l’altro respinge l’idea che la vita contenga fili da tirare (Tirare? Ma siamo pazzi?) per dipanarla un po’ e l’uomo una creatura imperfetta ma migliorabile attraverso qualche azione (Azione? Volete scherzare!)
Come match è imperdibile per uno spettatore. Da viversi invece, in uno dei due ruoli, è abbastanza urticante.
Se dessero in televisione un incontro di questo tipo io non me lo perderei e tiferei, manco a dirlo, per l’accidioso.
Riconosco che ha i suoi limiti, ma non rompe le palle a nessuno.
Se ne sta nella sua accidia e non vuole cambiare alcuno. Volete mettere?

E parliamo adesso della manualistica sul ‘migliorarsi’.
È di marca anglosassone, che ve lo dico a fare, e qui da noi viene adottata come ultimo credo. In genere con un decennio di ritardo. Esistono manuali per risolvere ogni e qualunque problema. Volti, tutti, ad arricchire e migliorare noi stessi e la nostra vita.
Per perdere dieci chili
per prendere dieci chili
per parlare lingue nuove, swahili compreso
per organizzare al meglio il proprio tempo
per essere assertivi
per essere accoglienti
per riconoscere le proprie emozioni
per contenerle
per lasciarle vivere
per comunicarle
per trattare con gli uomini
per trattare con le donne
per sedurre
per lasciarsi sedurre
per non viziare i figli
per imparare a dir loro di no
per imparare a dir loro di sì
per scrivere poesie
per scrivere fumetti
per pubblicare libri
per stendere la tesi di laurea
per scrivere il proprio curriculum
per suonare la tastiera
per mangiar sano
per mangiar povero
per mangiare macro
per cucinare alla capoverdina
per cuocere le uova in cento modi diversi
per usare il forno a microonde
per disegnare il proprio tema astrale
per incrementare il proprio vocabolario
per cantare lo jodel
per cantare i mantra
per sviluppare i pettorali
per farsi il nodo alla cravatta
per farsi una barca in casa
per organizzare il proprio frigorifero
per riconoscere le etichette sui prodotti alimentari
per fare sesso in oltre mille diverse posizioni (il Kamasutra, roba da dilettanti)
per ballare il cha cha cha
per ballare la tarantella
per non vomitare in barca quando si balla
per scommettere in borsa
per leggere il Sole Ventiquattrore
per riconoscere le costellazioni
per riconoscere le erbe dei campi
per riconoscre le nostre pulsioni
per incontrare il bambino che è in noi
per leggere Proust
per partecipare ad una riunione
per presiedere una riunione
per usare Word
per non usare Word
per organizzare un viaggio
per preparare una valigia
per riconoscre gli scrittoi Luigi XVI
per riconoscere i sofà Liberty
per smettere di fumare
per smettere di bere
per imparare a raccontare barzellette
per relazionarsi con gli altri
per imparare a relazionarsi con se stessi
per diventare saggi
per diventare agopunturisti
per fare il presepe
per fare maglioni
per diventare ricchi
per raggiungere il successo
per raggiungere la pace interiore
per avere sederi più tonici
per avere unghie più forti
per avere capelli più luminosi
per avere un miglior rapporto con se stessi
per avere un miglior rapporto con il padre
per avere un miglior rapporto con la madre
per avere un miglior rapporto con la suocera
per avere un miglior rapporto con la nuora
per saper invecchiare
per restare giovani
per.......


Ognuno di voi sa che questo elenco potrebbe continuare, ad libitum. Ognuno di voi, ne sono certa, potrebbe contribuire a farlo. Ma se noi volessimo -e, arrivata a questo punto, ormai sfinita, almeno io voglio- essere sintetici, dovremmo dire che tutti questi manuali, o guide o corsi e corsetti, si propongono in definitiva di MIGLIORARCI. Tutti, nessuno escluso, puntano a questo.
ATTENZIONE: “II manuale per imparare ad acccettarci”, anche lui vuole migliorarci! Il trucco consiste nel fatto che, insegnandoci ad accettarci come siamo, in realtà ci sta migliorando. Mentre mi appare evidente che, per accettarsi davvero, è sufficiente restarsene lì, così come si è, compreso il nostro scontento di noi stessi. Senza pensare minimamente ad imparare l’arte di accettarsi. Accettando che anche accettarci è al di fuori della nostra portata. Lo vedete da voi, non se ne esce, è un loop bestiale.

Ora, migliorare se stesso, è proprio quello che l’accidioso non vuole fare. Non ne ha l’ambizione, non ne sente la necessità. Migliorare il sé o il mondo fuori di sé non fa parte del suo programma di vita. Programmi di vita l’accidioso non ne ha. Ha la vita. Punto. L’accidioso trova che sia sufficiente.

Accidiosi si nasce. Ma, volendo, si potrebbe imparare ad esserlo.
Sto pensando di stendere un breve manuale: Come diventare accidiosi.
La sola idea di frotte di iperattivi miglioristi che si precipitano con tutta la loro energia sul mio manuale per aggiungere l’ultima perla al loro programma di auto-miglioramento-totale, mi rende pazza di ilarità.


Intanto all’accidia ho deciso di dedicare un’ode. La pubblicherò nel prossimo post.

giovedì 25 ottobre 2007

depressione/due/la valle di lacrime

Essendo rivolto verso l’al di là eterno, il Cristianesimo concepisce naturaliter l’esistenza terrestre come “valle di lacrime” da attraversare per giungere alla felicità eterna. Tuttavia coloro che nella valle di lacrime ci piangono diventano ipso facto peccatori e la disperazione diventa una colpa morale di origine diabolica.
La Chiesa combatterà questo mal di vivere 'demonogeno' e lo chiamerà acedia.
Ma l’acedia è vendicativa e, condannata dai pulpiti, si prende la sua rivincita facendo strage negli ambienti cenobitici e monastici del IV e V secolo. Del fenomeno, i cui numeri sono impressionanti, si occupa in particolare San Giovanni Cassiano che accosta l’acedia al taedium vitae pagano. Non la considera però una malattia fisica legata alla bile nera, bensì un peccato ispirato dal diavolo, il “diavolo meridiano” che colpisce tra le dieci del mattino e le due del pomeriggio.
San Gregorio Magno, lui stesso malinconico, inquieto e secondo uno studio recente forse paranoico, studia il mal di vivere in una grossa opera, non a caso chiamata Moralia. Per lui la tristitia (cattiva tristezza) è un male spirituale, conseguenza e causa insieme di debolezze morali. La pusillanimità, la debolezza nei confronti dei doveri, il rancore, l’instabilità morale, la malitia (o odio del bene), sono tutte caratteristiche del mal di vivere, che diviene il “vizio melanconico”. Isidoro di Siviglia, in cerca di una giustificazione linguistica, stabilisce, abusivamente, l’etimologia “melancholia” da malus, il male e questo da “melan” la bile nera in greco. L’etimologia corretta è μελας (nera) χολη (bile).
Ma l’acedia e la tristitia, in barba ad ogni demonizzazione, si diffondono dal mondo monastico ai secolari e ai laici. La Chiesa tenta una distinzione di tipo morale tra il tristo e l’accidioso. Peccatori entrambi ma il secondo pronto al peggiore dei crimini: il suicidio. Tra il VI e il XII secolo è tutto un fiorire di opere di pensatori cristiani dedicate al mal di vivere come opera del demonio, finché Guillaume de Conches tenta di riportarlo ad una spiegazione, per dir così, scientifica. Il mal di vivere è sì conseguenza del peccato originale, ma è stata la cacciata dall’Eden, con il suo trambusto, a fa sì che i quattro elementi di cui è composto il corpo umano si mescolassero disordinatamente. In alcuni individui si creò un eccesso di freddezza e secchezza: furono i malinconici.
Questi vengono descritti come esseri repellenti: colorito forte, occhi viperini, vene e carni dure, sangue scuro, ossa grosse. Inclinazione all’abuso sessuale negli uomini, alla sterilità nelle donne.
Costantino l’Africano propone una parziale riabilitazione del malinconico cronico, sottolineandone una propensione alla speculazione, e lo sforzo, doloroso, di approfondire i ragionamenti. Sarà la riscoperta di Aristotele a far attenuare la visione negativa della malinconia. Ne vengono però distinte due forme: il temperamento, associato ad uomini eccezionali e la patologia, che li condanna, suicidi o no, all’inferno.

San Bonaventura, Piergiorgio Welby e Giovanni Paolo Secondo
E veniamo alla scolastica. Questa tralascia di occuparsi della tristitia e si dedica alla sola acedia, studiata attraverso la pratica della confessione. La descrizione dei sintomi di quella che appare in modo palese una forma di depressione ansiosa, è precisa, ma l’aspetto su cui si insiste, perché considerato il più negativo, è la mancanza di fiducia in se stesso dell’accidioso. Se non fida in sé, creatura di Dio, non fida nell’aiuto divino. Questa è la colpa all’origine della condanna del suicidio: la mancanza di fiducia in Dio.
Verso la metà del XII secolo San Bonaventura pone un problema teologico di grande sottigliezza: come distinguere l’accidia che conduce alla disperazione e quindi alla tendenza suicida, dal desiderio di morte di San Paolo e dei mistici, come desiderio di ricongiungersi a Dio?
Come spiegare che il desiderio di morire è peccato in alcuni e virtù in altri? La risposta è nella motivazione: i primi vogliono sottrarsi alle prove della vita, che invece sono necessarie per ottenere la salvezza dell’anima, i secondi aspirano a partecipare alla Passione di Cristo. Mi ricorda qualche cosa. La morte assistita di Paolo Giovanni II e quella di Welby e il trattamento che hanno ricevuto da parte della chiesa. E se bastasse dire: Lasciatemi morire, voglio ricongiungermi a Dio? La Chiesa accoglierebbe per un funerale religioso il ricongiungendo?
Tommaso d’Aquino descrive l’accidia con una grande penetrazione psicologica: "È una tristezza opprimente che produce nell’animo dell’uomo una depressione (sic) tale per cui egli non ha più voglia di fare nulla....è come un torpore dell’anima...”

Il suicidio
L’aspetto che maggiormente interessa le autorità cristiane è quello del suicidio. La sua condanna non discende immediatamente dalla Bibbia e mette inoltre in dubbio il comportamento dei martiri e delle vergini, che si uccidono per sottrarsi all’estremo oltraggio (questa chicca dell’estremo oltraggio è mia, ho trovato che ci stesse bene, n’est pas?).
Sarà Sant’Agostino a decidere definitivamente per un interdetto severissimo.
Da La città di Dio: “Questo diciamo, questo affermiamo, questo in tutte le maniere dimostriamo, cioè che nessuno deve di propria volontà darsi la morte...”
Questo interdetto è , all'inizio, solo un parere teologico, ma diventerà presto legge per i cristiani.
E mentre si è, tutto sommato, indulgenti verso il suicida che fallisce e sopravvive (cinque anni di penitenza) il cadavere di un suicida è sottoposto a pene infamanti.
Le vittime del suicidio vengono sepolte fuori del cimitero, con un piolo conficcato nel petto. I loro beni vengono confiscati e la loro casa distrutta.
Terribili pene accessorie vengono promesse nell’inferno.

Dante, Vate ma ortodosso, metterà gli accidiosi in Purgatorio, ma i suicidi all’Inferno.
In sintesi: il cristianesimo medioevale demonizza le angosce esistenziali, in cui vede una mancanza di fiducia in Dio e promette l’inferno a coloro che si disperano. I più fragili si trovano così a dover affrontare, oltre la loro sofferenza, anche il timore, se non riusciranno a sopportarla, di sofferenze ulteriori dopo la morte.
La Chiesa chiude l’angosciato in un cerchio infernale (è il caso di dirlo): l’accidia fa incombere la minaccia dell’inferno e la minaccia dell’inferno alimenta l’accidia.
Il paradosso cristiano è tutto qui: bisogna disprezzare la vita terrestre, ma allo stesso tempo trovarla bella e, soprattutto, non porvi fine.

mercoledì 24 ottobre 2007

circum?

La Procura di Pesaro indaga per circonvenzione di incapace nei confronti di Luciano Pavarotti.
Sospetta cioè che la moglie, Nicoletta Mantovani, abbia approfittato dello stato di sofferenza fisica e debolezza psicologica del Maestro per indurlo a sottrarre parte del suo patrimonio alle figlie del primo letto e alla prima moglie. (L’espressione burocratica ‘figlio di primo letto’ è magnifica, secondo me, nella sua boccaccesca plasticità). Sulla storia in sé non metto bocca. Le liti sulle eredità mi provocano sia un titillìo alla bocca dello stomaco, che un solletico sotto i piedi. Insomma un po’ mi inducono al vomito, un po’ al riso. Invece è l’uso di quel termine, circonvenzione, applicato a Big Luciano che mi intriga. Circonvenzione ha la sua limpida etimologia in circum-venire, che poi altro non è che circondare. Circondare di moine e ragionamenti capziosi la povera vittima per estorcergli una decisione che altrimenti non prenderebbe. Ma se mi lascio portare dalla sola evocatività del termine, l’immagine che mi viene alla mente è quella di Big Luciano circondato dalla minuscola seconda moglie. Come avrà fatto? Di corsa, a piccoli passettini, torno torno al gran ventre? O stirandosi le braccia fino a ridursi un chewing-gum per riuscire a stringersi le mani dietro il torace possente di Pavarotti? O ancora, come un contorsionista da circo si sarà presa i piedi con le mani distendendosi per accogliere il gran corpaccione? Insomma, come avrà fatto a circondarlo? Alta, forse, un metro e sessanta, due spalle da uccellino, due manine minuscole e due piedini da babbucce?
Se fossi il Procuratore di Pesaro, chiuderei l’inchiesta per manifesta impossibilità fattuale.

questo tempo che ho

Capita anche a voi?
Qualche volta ho bisogno di un posto dove portarmi. Almeno mentalmente. Cerco un posto dove trovare pace. Mi permetto questa confessione perché giorni fa' vi ho raccontato delle mie due ore di “presenza leggera”, quelle due inestimabili ore di serenità, già così lontane, che ne ho perduto completamente il “come erano”. Avendo testimoniato di un momento così buono, posso forse testimoniare anche di un momento un po’ “così”.
Sì, lo chiamerò “così”.
Trovarlo questo luogo, fisico o mentale, non è cosa da poco. “In angulo cum libro?”
Non sempre basta. Forse ficcarmi “in angulo” è il solo bisogno che sento, ma questo angolo in cui rifugiarmi, non lo trovo.
Per decenni, se potevo, se altri doveri non mi sottraevano a me stessa, scrivere è stato il mio angolo. Sollievo e consolazione. Ma oggi neanche la piccola disciplina necessaria a ordinare qualche frase mi aiuta.
Ho difficoltà a fermare da qualche parte il mio pensiero che se ne scappa come inseguito. Torna indietro verso il passato e si precipita avanti verso il futuro.
In questo rullìo e beccheggio, in questo rock and roll, sciupo un bel po’ di tempo di queste mie giornate, e, in definitiva, sciupo un po’ del mio presente.
Ma il tempo è qualcosa di così misterioso che spesso scopriamo che quello che ci sembrava di aver buttato via, era stato invece fertile e produttivo. A proposito del tempo voglio qui rendere testimonianza di un piccolo debito verso Luigi Mariano. Ascolto spesso una sua composizione “Questo tempo che ho”. E ascoltarla mi fa bene.
È fatta di immagini, appena suggerite, che si accostano a pensieri e riflessioni. Le accompagna una musica dolce senza diventare accattivante, delicata ma non fiacca e la voce, bellissima, di Luigi, fa il resto. Non ho un verso preferito ma certo quello che gioca sull’assonanza complesso/comprendere mi piace molto. Mi piace molto anche la chiusa, quel piccolo ‘chissà’, così speranzoso nel suo mistero. Ma a dire il vero mi piace tutta.
Dà una vera soddisfazione poter dire grazie a qualcuno che con una sua canzone, un verso, una poesia, arricchisce qualche momento della nostra vita. Generalmente non possiamo farlo. Dove recapitare il nostro grazie? Ma questa volta ho il mezzo, il mio blog, e l’autore del brano ogni tanto ci capita. Come perdere questa occasione?
Quindi, grazie Luigi.

ascoltate qui

martedì 23 ottobre 2007

scusate

Chiedo scusa a tutti i commentatori per il ritardo con cui aggiorno l'elenco dei Commenti recenti. Mi ci vuole un po' di tempo, e in questi giorni il tempo sembra sfuggirmi dalle mani.

Non t'allargà...




Josè Gabriel Funes, 42 anni, padre gesuita e astrofisico, è dal 2006 direttore della Specola Vaticana,l’osservatorio astronomico fondato da Leone XIII. Una volta a Castel Gandolfo, l'Osservatorio vaticano si è trasferito in Arizona, sul monte Graham,3.200 metri, dove gli indiani Apache, che ritengono il monte sacro e inviolabile, ne contestano la presenza.

Recentemente Padre Funes ha dichiarato: “In una tipica galassia , un ammasso di cento miliardi di stelle, ci potrebbero essere moltitudini di pianeti gemelli della terra, con esseri viventi come noi. E' un' ipotesi che non contrasta con le Sacre scritture e con l’insegnamento della Chiesa.
Se essi esistono, come io credo, esse sono comunque creature di Dio....Per ora queste civiltà evolute sono invisibili e irraggiungibili, ma, come gli angeli, anche essi sono fratelli della Creazione.”

Gli Apache sono inquieti. E.T. è perplesso.

su soffriamo, soffriamo...

Desidero tornare brevemente su Ovidio perché ho riportato il suo verso con una intenzione molto precisa. I poeti vengono letti da ognuno di noi così come vuole, come crede, come ha bisogno di leggerli. Trattandosi poi di un poeta così lontano nel tempo come Ovidio, la libertà del lettore diventa sconfinata.
Ciò nonostante Ovidio, il più brillante versificatore della letteratura latina, è stato psicologicamente molto lontano dall’idea di modificarsi in qualche modo. Si piaceva troppo per pensare di “formattarsi”. Era pronto a cambiare atteggiamento sociale, ma non se stesso. Meravigliosamente abile nel versificare, prodigiosamente dotato, aveva però un carattere superficiale. Amava il successo, la vita mondana, le amicizie influenti. Non fu mai un depresso, né un malinconico. I famosi Tristia, tutto un programma, furono insieme una lamentazione e una "ruffianeria", il tentativo di impietosire Augusto che lo aveva esiliato a Tomi. Ovidio fu incapace di affrontare con dignità lo sfavore di Augusto e l’esilio: querulo, lamentoso, insistente, solo a tratti veniva preso da illuminazioni autentiche su se stesso e la sua condizione. Io attribuisco quel verso “Accogli questo dolore perché ti insegnerà molto” ad uno di questi momenti. L’ho letto come il tentativo di una persona di guardare più a fondo nel suo stesso sconforto, di darsi un pensiero guida ed insieme una speranza. Un momento di sincerità in un poeta troppo innamorato di sé e della sua poesia, per essere davvero ‘vero’.
In questa mia lettura molto critica di Ovidio (SOLO di Ovidio) si colloca il mio apprezzamento per quel verso che, secondo me, dice qualche cosa del dolore che non vorrei mai dimenticare. E cioé che il dolore è un' esperienza fondamentale di ogni essere umano, la più preziosa, malgrado tutto, e quella che lo rende, davvero, umano.

Da Ovidio ai miei ricordi di studentessa ci vuole proprio poco. Mi sono laureata in Lettere quando la cattedra di Latino era tenuta da Ettore Paratore. Ne parlerò a bassa voce perché, benché sia morto da diversi anni, ne ho ancora paura.
Ne avevamo tutti paura. Lui era il dominus della Facoltà, teneva tutti in pugno, studenti, assistenti, colleghi, con il terrore. Non era solo la difficoltà del suo esame, era la sua aggressività sferzante, era il suo sadismo, era il suo piacere di umiliare che tutti temevamo. L’esame di Latino era la pietra miliare del corso di laurea, superato quello si poteva pensare che ci si sarebbe, prima o poi, laureati. Ma prima, appunto, c’era Paratore. L’esame prevedeva uno scritto, che andava superato per poter accedere all’orale. L’orale invece prevedeva che si leggessero tutte, ripeto tutte, le opere dei grandi della Letteratura latina. Ti sedevi e non sapevi cosa ti avrebbe chiamato a tradurre: Virgilio? Ovidio? Seneca? Lucrezio? oppure Livio, Orazio, Svetonio, Properzio? O anche Catone, Lucilio, Marziale, Sallustio? O forse Cicerone o Cesare?
E, comunque, quale opera di uno di questi autori? Ecco, la situazione dell’orale era questa. Però ci appariva splendida, idilliaca anzi, in confronto allo scritto. Lo scritto era per ognuno di noi una nebulosa cupa, che ci avrebbe inghiottiti e, forse, ma solo forse, ci avrebbe restituiti a noi stessi. La conoscenza del latino era ininfluente rispetto al superamento dello scritto. Ci voleva solo una formidabile, una straordinaria botta di c... Era come lanciare in orbita un satellite. Bisognava centrare quel piccolo, miracoloso spazio che la sorte ci riservava, per passare al di là della penna rossa e blù di Paratore e dei suoi assistenti. Passato senza successo quel momento che il destino teneva in serbo per noi, ci saremmo dispersi nello spazio. Si andava alla prova scritta come ad un appuntamento con il destino. E la prima domanda che ci si faceva, nel conoscersi era : Quante volte hai dato lo scritto di latino? E quelli che lo avevano superato alla prima prova venivano additati nei corridoi della facoltà e talvolta sfiorati, così casualmente, come i gobbi nelle società contadine. (Volendo essere politicamente corretti, come si dice “gobbo”?boh). Io fui una di quelli, mentre la mia amica Nuccia, che conosceva la grammatica e la sintassi latina come la sua sacchetta del trucco, lo sostenne quattro volte. Forse aveva sbagliato vettore, forse calcolò male l’angolo di incidenza, fatto sta che non beccò quella minuscola finestra temporale per uscire dall’orbita terrestre.
A Paratore non è mai interessato che noi imparassimo la letteratura latina, e men che meno la lingua latina, voleva solo che soffrissimo, voleva sentire l’odore acido della nostra paura, sentir ballare il tavolo per le scosse delle nostre gambe impazzite e fuori controllo e leggere lo smarrimento nei nostri sguardi. Le sue lezioni erano obbligatorie. Le teneva nell’Aula Magna, dove ci accalcavamo come pecore alla tosatura. Entrava, piccolo, giallo, segaligno, a passo veloce e dietro di lui, a capo chino, i suoi assistenti. Poveretti, come li trattava! L’espressione “pezza da piedi” è poco fine, ma è la più prossima a quel trattamento.
Quanto a noi, ci chiudeva dentro. Dico sul serio. Per evitare che, firmato il foglio di presenza, ce ne scappassimo fuori, le porte dell’aula magna venivano chiuse a chiave.
Nuccia ed io sedevamo in alto, vicino ai finestroni e lavoravamo all’uncinetto. Infatti nella calca non si sarebbe potuto udire o capire niente. Del resto per lo più Paratore parlava in latino, a bassa voce e non a noi, ma a se steso o tutt’al più ai suoi assistenti, cui rivolgeva domande fulminanti per poi ridere delle loro risposte, additando il poveretto di turno alla derisione dei colleghi e degli studenti stessi. Questo trattamento trasformò anche i suoi assistenti in esseri crudeli. Ancora oggi quando incontro il nome di uno di loro su qualche libro di letteratura latina con testo a fronte, o su saggi di critica (sono tutti diventati nomi importanti in questi studi) lo rivedo, chino, tremante, rosso, balbettante, sudato, terrorizzato, quanto e più di noi studenti.
Il sessantotto fu molto, molto duro con Paratore. Addirittura violento, si disse allora.
Girarono molte voci, non so quanto vere. Quello che è vero è che sostenere l’orale con lui era un’esperienza atroce. A me è capitata ( troppo c...allo scritto, niente c...all’orale, si sapeva). Non faceva mai più di un paio di orali a mattina perché la vittima di turno doveva soffrire almeno un paio di ore. Tanto mi tenne. A tradurre davanti a lui un po’ di questo e un po’ di quello. Interveniva sulla scelta di ogni singolo vocabolo, su ogni sfumatura di pensiero. Esisteva una sola possibile traduzione, la sua e se la teneva ben nascosta nella testa finché, per esclusione dell’intero lessico latino, non ci arrivavi. A quel punto passava ad altro autore o opera. Le opere di poesia dovevano essere lette, naturalmente, in metrica (mi toccò, oltre Virgilio, proprio Ovidio) e l’esimio cattedratico un po’ rideva, un po’ insultava, un po’ sbuffava esasperato. Era impossibile odiarlo perché il terrore paralizzava qualunque altro sentimento. Anche chi aveva sostenuto l’orale direttamente con Paratore veniva additato nei corridoi della facoltà, e ci si facevano rapidi segni della croce al suo cospetto. Avendo meritato sia la strusciatina alla gobba (ma come cavolo si dirà nel mondo dei politicamente corretti? Ancora boh), sia il segno della croce al mio passaggio, l’esame di latino mi rese molto popolare. Comunque Paratore mi promosse con il seguente commento: -Ha studiacchiato. Ventotto.- Un anno avevo studiacchiato, a ‘nfame!
Comunque considero un miracolo il fatto di aver conservato il mio amore per il latino pur essendo stata un’allieva di Paratore.

E se mi leggesse, anche dall’al di là? Orrore e terrore.
Smentisco tutto.

lunedì 22 ottobre 2007

depressione/uno/bile nera da Saturno

Noi viviamo in una società che rifiuta i depressi. Eppure non ce ne sarebbe bisogno, giacché loro, i depressi, si rifiutano da soli.
Dal semplice malinconico al depresso clinico, attraverso tutte le sfumature di una malattia che si metamorfizza come un virus, la risposta della nostra società è la stessa: fastidio e condanna sociale. Questo nella sostanza, che le vacue trasmissioni televisive e la litania insopportabile dei falsi depressi-oggi sono così depresso!-non intaccano di una virgola. Una società che dà come traguardo il successo non può considerare il depresso che un fallito, perché il suo vero successo è il semplice mantenersi in vita.
Cercherò di limitare per quanto possibile l’uso di questo termine, così abusato che guarderei con favore una legge che ne vietasse l'uso a chiunque non fosse o fosse stato affetto da questa patologia. Così come introdurrei una condizione vincolante per coloro, medici, psichiatri, psicanalisti, psicologi, filosofi(sì ce ne sono)terapeuti di ogni formazione ed indirizzo, che vogliano curare, ma anche solamente scrivere di questa patologia: l'averne sofferto in un precedente momento della loro vita, o, proprio al limite, aver conosciuto il male psichico. Io ho fiducia e anzi ammirazione per l'immaginazione umana, questa freccia di una tale portata che scavalca lo spazio e il tempo e questo, spesso, in entrambe le direzioni; ma (avversativa forte) so che il male psichico è inimmaginabile per chi non lo abbia mai conosciuto. Sospetto che sia uno stratagemma della natura stessa, perché il timore non infiacchisca e scoraggi i sani. Infatti loro, i sani, sono molto più deboli di quegli altri loro, i malati, ma non lo sanno e non possono saperlo. Non sanno che con la forza che ci vuole per vivere da malati psichici, delle loro vite "normali" uno di quei malati ne potrebbe vivere tre. Peccato che non vorrebbe.
Questa è però solo una mia teoria, che mi piacerebbe sviluppare e sottoporre ad una verifica più ampia che le mie osservazioni, i miei incontri e contatti, le mie riflessioni e le mie esperienze. Lo farò prima o poi.
Per tornare al termine "depressione" da qui in poi lo sostituirò con il termine "mal di vivere" con l'avvertenza che, come tutti i termini con un contenuto poetico, è evocativo e non definitorio.

Del mal di vivere avrei intenzione di ripercorrere la storia (a tappe, tranquilli) perché la trovo una storia paradigmatica: mi sembra infatti che testimoni senza ombra di smentita il continuum sostanziale attraverso cui la persona umana si muove da qualche migliaia di anni, pur nell’evolversi culturale.
È anche una storia affascinante perché scorrendola si incontrano i più grandi geni dell'umanità. Uomini e donne di cui per lo più si ignora la loro sofferenza psichica, abbagliati come siamo dalla loro genialità. Forse non sarebbe male cominciare ad aggiungere piccoli particolari "clinici" quando sui manuali scolastici parliamo dei grandi personaggi: così per render loro l'onore delle armi. Che si sia stati l'Imperatore Adriano, Flaubert, Baudelaire, Schopenhauer, Luciano, Lucrezio, Cioran, Rossini, Schumann, pur vivendo nella sofferenza, dovrebbe essere considerato elemento non trascurabile di quelle vite. Ho citato così, a caso, i primi nomi che mi sono venuti in mente, ma potrei continuare a lungo e forse dovrei, perché tutto questo fiume di sofferenza cristallizzato in opere straordinarie, di musica, pittura, letteratura, riflessione filosofica ecc. andrebbe almeno riconosciuto. Se poi mi mettessi in testa di fare un elenco di grandi uomini e donne suicidi, trasformerei questo piccolo post in un unico, imponente, necrologio di celebrità. Non lo farò.

Inizierò invece la mia piccolissima storia del mal di vivere a partire da molto, molto lontano.
La prima testimonianza che incontriamo, infatti, almeno nel mondo occidentale, è quella di un anonimo scriba egiziano, risale a quattromila anni fa’ ed è conosciuta con il titolo significativo di Ode del disperato.


La morte è oggi davanti a me
come la salute per l’infermo
come uscire fuori da una malattia.
La morte è oggi davanti a me
come l’odore della mirra
come sedersi sotto la vela in un giorno di vento.
La morte è oggi dinanzi a me
come il profumo del loto
come sedersi sull’orlo dell’ebbrezza.
La morte è oggi dinanzi a me
come la fine della pioggia
come un uomo che ritorna a casa dopo una campagna oltremare.
La morte è oggi dinanzi a me
come quando il cielo si rasserena
come il desiderio che è in un uomo di rivedere la propria casa
dopo innumerevoli anni di prigionia.

Mi permetto di segnalare due espressioni, perché tornano costantemente sulle labbra dei sofferenti.
‘uscire fuori’ e ‘prigionia’.

L’ode risale al Medio Regno, ma non è la sola testimonianza dell’epoca. Papiri e geroglifici testimoniano che i disperati si suicidavano nella valle del Nilo, pugnalandosi, o lasciandosi affogare,o, spessissimo, gettandosi in pasto ai coccodrilli.

Intanto nel Vicino Oriente Antico il mal di vivere veniva testimoniato in numerose tavolette ritrovate in Mesopotamia. Nel ‘Dialogo sulla miseria umana’ un anonimo si dichiara ‘schiacciato dalla vita’ e i testi di saggezza babilonese rimandano una visione potentemente pessimista della vita. Sono numerose le testimonianze di uomini sofferenti di disturbi che ricordano la nostra’depressione ansiosa’.
È Erodoto poi, a parlarci del mal di vivere che serpeggia tra i Persiani.
Neanche il mondo ebraico sfugge alle più cupe considerazioni sulla condizione umana e Geremia lancia al cielo il suo grido di protesta: “Maledetto il giorno in cui nacqui!”. Il senso con cui oggi noi qualifichiamo di “geremiadi” le lamentazioni piagnucolose, dipende solo dal fatto che non riusciamo a credere alla sua sofferenza e alla sua disperazione esistenziale.
Ci sono però due libri dell’Antico Testamento che espongono in modo inequivocabile il mal di vivere nelle culture semitiche. Il libro di Giobbe (V sec.a.C.) e soprattutto il libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet (II sec. a.C.). “Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole. Ogni cosa infatti è vanità e un inseguire il vento”.
Dopo dodici capitoli di lamentele sulla vanità dell’esistenza lo scrittore del Qoelet conclude. “Temi Dio e osserva i suoi comandamenti”. Nonostante questa chiusa “forte” che sempre le autorità cristiane citano per compensare la desolazione del libro, resta che persino tre profeti, Geremia, Elia e Giona sono stati tentati dal suicidio.
E poi tocca ai Greci, con il loro profondo senso della tragicità dell’esistenza, i Greci chiusi tra le Parche e gli Dei capricciosi. I miti che percorrono la poesia e la tragedia greca mostrano una concezione chiaramente pessimista dell’esistenza. Teognide, Esiodo, e, nell’Iliade, Bellerofonte- considerato dalla Kristeva uno dei primi depressi della storia- denunciano la loro sofferenza. Nella traduzione del Pindemonte Bellerofonte “solo e consunto da tristezza errava infelice pel campo Aleio e l’orme de’ viventi fuggia”.
Eraclito afferma la infelicità totale del mondo a partire dalla sua personale ‘malinconia nera’, mentre Democrito gli fa eco, sia pure con schietta ironia. Dell’infelicità preferisce ridere e lo fa con Ippocrate: ”L’uomo è pazzo poiché non ha alcuna vergogna di dirsi felice”.


Ma quali sono per gli antichi le cause di questo male di vivere che così tante voci testimoniano?
La spiegazione scientifica che percorrerà i secoli sarà la ‘teoria degli umori’.
La base la pone Pitagora. Il cosmo è composto da quattro elementi: sole, terra, aria e mare. Nel corpo umano ai quattro elementi corrispondono quattro ‘umori’: la flemma, il sangue, la bile gialla e la bile nera. Empedocle elabora e precisa la teoria di Pitagora: l’equilibrio di ogni essere umano dipende dall’equilibrio interno di questi umori. Nel malinconico predomina la bile nera. Noi diciamo ancora “sono di umore nero”.
Intorno al 400 a. C. Ippocrate, il grande medico greco, preciserà che, se in eccesso, la bile nera provoca “ansia e abbattimento costante”. L’eccesso di bile nera è determinato dal cervello con il concorso di un trauma dello spirito.
È semplicemente stupefacente la chiarezza di questa analisi!
Ecco come si esprime Ippocrate: "È il cervello a provocare follia o delirio, a ispirarci il timore e la paura, giorno e notte, a causare l’insonnia, a farci commettere errori, a renderci ansiosi senza motivo...”
Galeno poi (II sec. d. C.) descrive così i suoi pazienti: “ presentano un sonno raro, disturbato, interrotto, palpitazioni, vertigini; sono tristi ansiosi..” e lega le “affezioni dell’anima al temperamento del corpo”.
È evidente come la medicina dell’antichità sia pervenuta molto presto ad una nosologia corretta della depressione. Del depresso ha sottolineato anche la particolare lucidità intellettuale.
Ma chi afferma, senza mezzi termini, il rapporto tra temperamento malinconico e creatività è Aristotele, nella Metafisica. “Tutti gli uomini che furono eccezionali in filosofia, in politica, in poesia o nelle arti erano...manifestamente malinconici” E cita Bellerofonte, Aiace, Empedocle, Socrate e Platone.
Dal canto suo, l’astrologia, che all'epoca è una scienza in piena espansione, tenta di spiegare il temperamento malinconico creativo con l’influsso di Saturno.
Saturno, solitario e vagabondo, ma anche inventore dell’agricoltura e delle tecniche. Genio e malinconia. Nelle previsioni degli astrologi l’influenza di Saturno è apportatrice di bene e di male. Ancora oggi noi diciamo “temperamento saturnino” per indicare una bizzarra dualità: malinconico e fantasioso, creativo e instabile.
Tutto questo indagare cause e rimedi (che poi vedremo) del mal di vivere nell’antichità, testimoniano in modo inoppugnabile la sua ampia diffusione nel mondo greco-romano.
La filosofia dell’angoscia di Epicuro, la malinconia esistenziale di Lucrezio-un angosciato cronico che si toglierà la vita a soli quarantarè anni-basterebbero da sole a provarla.
Seneca poi le darà un nome che percorrerà i secoli: taedium vitae.
Ne "La serenità dello spirito" e nelle "Lettere a Lucilio", il suo giovane amico depresso, Seneca descrive la fatica di vivere come solo un buon testo odierno sulla depressione potrebbe fare.
Fino a Seneca un pregiudizio favorevole sembra circondare il depresso e addirittura Menandro sembra considerarla semplicemente la più ovvia condizione umana: “Sono un uomo, ecco una buona ragione per sentirmi triste”.
È nel III secolo che l’immagine della malinconia comincia ad appannarsi: da condizione esistenziale dolorosa ma sostanzialmente ‘innocente’, con cause naturali, comincia a diventare prova di scarsa forza morale, fiacchezza dello spirito.
Dalla filosofia alla medicina, dalla medicina alla morale, sta per entare in scena la religione.
Tutto è pronto per l’intervento del cristianesimo: per la definitiva demonizzazione della malinconia e la sua assimilazione al peccato.

Io preferisco però chiudere questo post con un verso di Ovidio, luminoso e illuminante: Accogli questo dolore perché ti insegnerà molto.

domenica 21 ottobre 2007

leggere poesia al mattino




Al principe
Se torna il sole, se discende la sera,
se la notte ha un sapore di notti future,
se un pomeriggio di pioggia sembra tornare
da tempi troppo amati e mai avuti del tutto,
io non sono più felice, né di goderne né di soffrirne:
non sento più, davanti a me, tutta la vita...
Per essere poeti, bisogna avere molto tempo:
ore e ore di solitudine sono il solo modo
perché si formi qualcosa, che è forza, abbandono,
vizio, libertà, per dare ordine al caos.
Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte
che viene avanti, al tramonto della gioventù.
Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano,
che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace.


A me
In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza,
il più colpevole son io, inaridito dall'amarezza.



da:Pier Paolo Pasolini "La religione del mio tempo"

sabato 20 ottobre 2007

sorrida, prego!

Umorismo
Quando mi sento un po’ giù -un giù riparabile anche se già gravoso- ricorro ad alcune letture che hanno il potere di farmi ridere.
Ho diverse possibilità. Posso scegliere Comma 22, o il Candido o, per i casi più seri, Laurence Sterne. Del Tristram Shandy mi bastano le prime venti pagine. Penso che riuscirebbe a farmi ridere anche sul patibolo. Ho anche altri libri- frecce al mio arco, ma non voglio trasformare questo post in una lunga prescrizione terapeutica.
Del resto, secondo me, niente è più soggettivo che il ridere. Mentre piangiamo più o meno tutti per le stesse scene di un film, ridiamo spesso in passaggi diversi e una scena che fa solo sorridere uno spettatore scatena invece l’ilarità di un altro.
Si piange insieme ma spesso si ride soli.
Il riso e il sorriso hanno costituito oggetto di attenzione di filosofi, psicologi, antropologi, e scrittori. Tra questi Bergson, Pirandello, Kierkegaard e Freud.
Per Freud (Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio) l’umorismo è un meccanismo con il quale esprimiamo dei contenuti del nostro inconscio, -attinenti alla sessualità e all’aggressività- altrimenti repressi. Con il motto di spirito risolviamo rapidamente, risparmiando energia psichica, una situazione emotivamente spiacevole.
L’aggressività, ad esempio, eludendo la censura del Super-io, si esprime senza costituire trauma per il nostro interlocutore. Questo accade grazie al motto di spirito, alla battuta umoristica, ma anche attraverso l’ironia. Ed era proprio qui che volevo arrivare. All’ironia. Ne parlerò facendomi aiutare dal Manuale di retorica di Bice Mortara Garavelli, studiato nei lontani anni ottanta.

Ironia/retorica
L’ironia ειρονεια è una metafora, cioè uno spostamento, un trasferimento di vocabolo e/o di senso. Intorno alla definizione di ironia hanno lavorato studiosi di discipline diverse, attratti ognuno da uno dei suoi aspetti. Prevale comunque la concezione di ironia come “antifrasi” o “inversione semantica”, cioè il ‘dire l’opposto’ di ciò che si crede e che realmente è. L’autoironia poi è un specie di citazione di se stessi, il riportare la parola propria o il proprio pensiero sottolineandone l’errore, l’inammissibilità,l’inopportunità o l’inadeguatezza.
L’ironia è distanziamento: menzione di un enunciato cui si invita a non prestar fede.
L’ironia è anche uno “sgonfiamento dell’enfasi, del prendersi sul serio; vuole indurci a ridimensionare il mondo e noi stessi, ma non è né superficialità né futilità”.
Prototipo dell’ironista è Socrate, che demolisce le vuote ostentazioni, aiuta mentre mette in difficoltà, è sfuggente, imprevedibile e saggio mentre si finge ignorante.
L’ironia ha una forma aggressiva, l’antifrasi, che si ha quando un’espressione viene usata per dire l’opposto di ciò che essa significa (Bravo! Bene! per rimproverare o disapprovare.) O quando, al tizio che mi sbatte in faccia la porta di un negozio sorrido dicendo –Grazie, lei è un vero gentleman.- Se invece gli rivolgo un “Studiato ad Oxford, vero? “siamo al sarcasmo, che è più aggressivo ed aspro. Era una antifrasi il termine “Eumenidi” –benevole- con cui si indicavano le Parche, e serviva per tenersele buone, aveva cioè valore apotropaico.

Ironia/pratica
L’ironia è un’arte, un’arte in cui occorrono due artisti, uno per pronunciare l’enunciato ironico, l’altro per afferrarlo.
Presuppone infatti sempre la capacità, nel destinatario, di afferrare lo scarto tra il livello superficiale e il livello profondo di un enunciato, di operare, cioè, una manipolazione semantica per decifrare correttamente il messaggio.
Se l’interlocutore B non riconosce l’ironia dell’interlocutore A e risponde al livello superficiale del discorso si crea un fenomeno di “slittamento comunicativo” –io la chiamo ironia al quadrato- e l’ironista tra i due si concederà un piccolo sorriso interno alle spalle dell’interlocutore “sordo” all’ironia.
L’ironia può essere leggera, tagliente, fredda, sottile, pesante, bonaria, arguta, faceta, beffarda, amara, crudele, ma per me è sempre divina. Sia che me ne stia servendo io, sia che ne sia l’oggetto.
Fine anni sessanta. Andava molto di moda una esuberante bijoutterie, lanciata dalla maison Chanel, fatta di lunghe catenine dorate di mille fogge diverse. Ne avevo al collo una chilata circa su un treno verso Milano ed un simpaticissimo signore di Bologna mi disse “Ma poteva ben mettersi un monile!” con un irresistibile accento emiliano. Se con cortesia mi avesse fatto osservare che, a suo avviso, per carità, senza offendere, tutte quelle collanine erano troppe, mi avrebbe sicuramente indispettita e me le sarei tenute. Ma quel signore era un ironista. Così non solo risi -e al ricordo ancora rido- ma chiusi definitivamente il mio rapporto con la bijoutterie Chanel.
Io adoro l’ironia, anche quando ne sono oggetto. E credo all’autoironia, castigatore di tutte le nostre velleità. L’ironia e il dubbio sono compagni, entrambi rifiutano il dogma, la verità data una volta per tutte.
Io credo all’ironia come si crede ad una divinità minore, o a quei piccoli santi di paese, che non compaiono più sul calendario ma sono oggetto di culti tenaci nei più minuscoli comuni italiani.
Io non solo credo che l’autoironia sia cosa buona e giusta, ma la considero potentemente terapeutica. Mi ci faccio delle belle docce, rovesciandomela in testa ed insaponandomici ben bene, ogni giorno. L’ironia può essere crudele, si dice. È vero, ma è sempre preferibile ad una dichiarazione di guerra.
Freud stesso la raccomanda come mezzo per “aggirare espressioni dirette più facilmente aggressive”. L’ironia non mente, rimanda. “Sto dicendoti A invece di B. Vogliamo arrestarci qui, senza che io debba dirti proprio B?”
L’ironia interroga anche: senti, vogliamo scherzarci su questa faccenda?
È un’opportunità di ridere insieme invece di accapigliarsi.

Ironia/roma
E qui veniamo alla parola che secondo me fa binomio con ironia: roma.
L’ironia sta a questa città come i gianduiotti stanno a Torino e i baci a Perugia. È molto meno dolce, ma non è necessario limitarne l’assunzione.
In questa città dove vivere non è una ‘sinecura’ milioni di possibili conflitti e scontri sono stemperati ogni giorno da una battuta ironica. Tragedie vengono evitate con una sola frase, morti ammazzati risparmiati in forza di una parola e un livello accettabile di civile inciviltà si conserva solo grazie all’indole ironica della popolazione. Indole che subito contagia i nuovi arrivati, che immettono allegramente la loro peculiare versione di ironia nel grande fiume ironico che percorre la capitale e che di rivolo in rivolo la bagna tutta. Senza ironia non ce l’avremmo fatta per secoli e secoli a guardare la faccia del potere senza lasciarci andare a carneficine violente, a cruente insurrezioni, a rivolte sanguinose, o almeno ad una defenestrazione.
E senza autoironia non avremmo potuto accettare la nostra ignavia, la nostra indolenza, la nostra paraculaggine, il nostro cinismo, la nostra viltà. Senza l’ironia non potremmo accettare né noi stessi né gli altri. Invece li accettiamo, ha quasi del miracoloso quanti ne riusciamo ancora ad accettare, anche in questi tempi orribili.
E inoltre ci accettiamo, come accettiamo l’immagine che circola di noi nel resto del paese. Non conosco nessun’altra città italiana che avrebbe sopportato senza un sussulto, senza furori o querimonie, tutti gli improperi che ci vengono rivolti da decenni. Ma noi niente. Una battuta ironica e via. Fa parte del gioco, un gioco che giochiamo da qualche millennio. Non è stato merito nostro, non del tutto almeno. La storia ha voluto così. Ha gravato su di noi, dandoci compiti che, onestamente, avremmo potuto assolvere anche peggio di così. Ci teniamo il Papa da milletrecent’anni o giù di lì. Senza ironia non ce l’avremmo fatta. Io ne ho visti un paio sfilare in portantina. Dico, in portantina. Senza ironia non avrei potuto. Senza ironia non potremmo sopportare il convergere qui di tutti gli scontenti e gli incazzati del paese, senza ironia non potremmo tollerare il passa e spassa di tutte le auto diplomatiche di tutti i paesi del mondo in duplice copia (accreditati presso lo Stato italiano e presso la Santa Sede). Senza ironia come tollerare gli intollerabili mille parlamentari piovuti qui con la loro fame di potere da tutte le parti di Italia, con i loro corteggi, le loro clientele, i loro arrivismi e le loro albagie? Senza ironia come tollerare le strade pubbliche trasformate in private dall’arroganza dei berlusconi, le mille camionette da aggirare davanti alle case e agli uffici dei potenti, e tutte le cerimonie pubbliche, in tutti i luoghi simbolo di un’intera nazione e tutti i cortei, politici, religiosi, casinisti che siano e tutte le udienze papali e tutti gli incontri al vertice e tutte le maratone, per questo e per quello, in difesa di questo e di quello, e i turisti? I turisti. I turisti imperversano per fortuna in mille altre città italiane. (Beccatevene un po’ anche voi). Ma da noi si aggiungono! Pensate che ce la faremmo a non abbatterne un centinaio l’anno se la dea ironia non ci assistesse? Noi guardiamo la varia umanità che attraversa ai semafori e li contiamo: cinquanta, cento, senza lasciarci passare, dietro alla loro guida con l’ombrellino giallo. Giapponesi sorridenti, americani in infradito, francesi con la puzza sotto il naso, tedeschi d’assalto, e sorridiamo. E le comitive di abruzzesi, lombardi, molisani, e di ogni altra regione italiana pronti a travolgerci, a passare su di noi per non separarsi di una incollatura l’uno dall’altro. Noi ci scostiamo, ci scambiamo sguardi di intesa tra di noi, bofonchiamo un po’ e lanciamo lì la battuta ironica. Salvi! Siete salvi! Senza ironia, forse, non l’avreste scampata.
Non so immaginare un’altra cittadinanza ugualmente capace di assumersi tutti questi oneri senza vedersi riconosciuto alcun onore, venendo invece sputtanata ad ogni angolo d’Italia. È solo l’ironia che ci permette di farlo. E noi la spargiamo su tutto, su ogni e qualunque cosa e persona. L’ironia non ha confini, non conosce tabù (Freud docet), investe i viventi tutti e la vita stessa e la morte con lei. Proprio come dice Kierkegaard: l’ironia è “l’occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l’assurdo, il vano dell’esistenza”.
Questo è il nostro piccolo talento che tenta di compensare tutti i nostri vizi, i nostri difetti, le nostre meschinità. Ne siamo orgogliosi, è vero, ma anche lì, non crediate, senza esagerare, con riserva. Quando un romano dice con strafottenza “so’ de Roma”, solo un altro romano sa che dentro di sé sta chiedendosi ironico: “e allora?boh..”.

venerdì 19 ottobre 2007

agli ordini!

Ubbidire non mi piace. Immagino che non piaccia a nessuno. A parte “i dominati” nelle relazioni sessuali anomale. (Spero che fra di voi nessuno si offenda per la qualifica di “anomalo”.)
Il problema è che non mi piace neanche comandare.
A me piacerebbe un mondo in cui ci si metta tranquillamente d’accordo sul reciproco agire, dividendosi i compiti in armoniosa concordia.
Capisco tutta la inattuabilità di questo sistema e, faticosamente, mi adeguo.
Se io fossi una domestica vorrei essere la mia. O alternativamente quella della mia amica emmeti. Lei pulisce la casa prima che la sua dipendente arrivi per non fargliela trovare in disordine. Quanto a me, le mattine in cui deve venire la mia collaboratrice domestica, io balzo dal letto come una tarantolata per farle trovare già svolta tutta una serie di faccende e al suo arrivo mi metto a sua disposizione. Non muovo mai la più piccola osservazione, qualunque cosa lei faccia in casa mia e in qualunque modo lo faccia e la ringrazio con tanta gratitudine che lei è convinta di lavorare gratis. Poiché ascolta a volume altissimo Radio Maria, e in contemporanea sulle tre radio di casa, in qualunque stato io mi trovi, anche febbricitante, le lascio il mio appartamento e vagabondo per il quartiere in attesa di poter rientrare. Qui c’è della patologia, lo so. Ma dare ordini non è nelle mie corde. A meno che non si tratti di me stessa. Allora sono ferma ed efficace. Allora sì che il modo Imperativo diventa il mio modo. Non fatevi ingannare dal fatto che il modo Imperativo non abbia la prima persona.
Nella realtà, almeno nella mia esperienza, la maggior parte degli ordini li diamo a noi stessi.
Io mi tratto spesso come un interlocutore esterno e mi impartisco ordini con un giusto grado di imperiosità. Dopo di che, in linea di massima, mi ubbidisco. O quanto meno ci provo. Tranquilli, se fallisco non mi infliggo punizioni. A parte il vecchio buon senso di colpa. Oltre a non avere prima persona, l’imperativo ha solo il tempo presente. L’unica eccezione è costituita dall’ipocrita futuro “iussivo”. Dietro un futuro iussivo si nasconde infatti molto spesso un imperativo e, sempre, la fregatura. “Se io non arrivo in tempo, glielo dirai tu..” oppure “se io sarò a Milano te ne occuperai tu...” o anche “ vorrà dire che lo farai tu...” Il futuro iussivo è molto usato da persone cortesi ma subdole. Le stesse straordinariamente abili nell’usare tutte le possibili forme impersonali che la nostra lingua pone a loro disposizione, per scaricare sulla tua personalissima “persona” una serie di seccature ed incombenze di cui vuole liberarsi.”Bisognerebbe, ci vorrebbe, sarebbe bene, sai cosa si potrebbe fare...non continuo per non annoiarvi ma ne ho contate fino a diciotto!
L'esistenza del solo presente per il modo Imperativo può significare cose diverse. O che l’obbedienza dev’essere, come diceva il filosofo Gentile “pronta, assoluta e incondizionata”, o che il sogno di poter modificare con una bacchetta magica il nostro passato lo abbiamo sempre riconosciuto così sterile e ingannevole da non meritare neanche una piccola fallacia linguistica. Eppure, che tentazione di dare ordini al passato perché si rimodelli, almeno in piccola parte, per noi!
Forse ricordate la scena finale de Il dottor Zivago. Lui viaggia su un tram e scorge sulla strada Lara, il suo grande amore, perduto nella rivoluzione, che cammina tra la folla. Tenta disperatamente di attirare la sua attenzione, picchiando contro il finestrino mentre lei ignara continua per la sua strada. Se non avete visto il film non potete apprezzare il pathos di quella scena, che termina purtroppo con un dottor Zivago infartuato.
Ma è l’uso che ne fa Moretti (in Palombella Rossa, credo) che voglio citare qui, la scena irresistibile in cui un gruppo di spettatori disperatamente esorta Lara perché si volti e si accorga della presenza sul tram di Jurij. La sala si riempie di affannose, accorate, e via via disperate grida di :Voltati! Voltati! Voltati!
Beh, con il nostro passato talvolta accade la stessa cosa. Ne rivediamo mentalmente delle scene e come quegli spettatori vorremmo intervenire per modificarne lo svolgimento e ci lanciamo avvertimenti appassionati e insieme ultimativi. “Alzati e vattene! o anche: Alza quel telefono! oppure: -Diglielo!- e persino: -Baciala! –o- Bacialo! secondo il sesso del/la protagonista. Ordini al passato, ordini che vorremmo esserci impartiti allora e poter eseguire ora. Ordini. Ordini che si trasformano in suppliche a ritroso. Infatti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, gli imperativi veri, quelli che contengono veri comandi, sono rari. Il modo Imperativo esprime per lo più preghiera, invito, consiglio, o un cortese permesso o una domanda, o una semplice proibizione. “Sfumature difficili da distinguere in modo rigido perché affidate a elementi extralinguistici che rafforzano o attenuano” il comando (Serianni).
È sicuramente un ordine, e può essere anche parecchio incavolato, il “Passa! Passa!" che il difensore che si trova miracolosamente sotto la porta avversaria rivolge all’attaccante momentaneamente rimbecillito. Ma il “Credimi” con cui il lui o la lei irretisce l’altra/o è solo una supplica, spesso anche truffaldina e il “Lascialo!” che la vostra migliore amica vi rivolge è un consiglio tanto più appassionato quanto meno suscettibile di essere ascoltato. E, anche se detto a malincuore, il “Si accomodi” con cui cediamo il posto in autobus è un invito e basta.
A me piace questa ricchezza dell’Imperativo, lo trovo aperto e possibilista e per i possibilisti ho un debole. Ma quello che mi piace di più dell’Imperativo è la sua sfacciataggine.
Naturalmente non c’è praticamente frase, dalla più piattamente indicativa alla più lussureggiante, il cui scopo non sia quello di intervenire a modificare la realtà. Anche la semplice descrizione di un fatto è volta ad ottenere una risposta emotiva da parte dell’interlocutore: orrore, raccapriccio, commozione, disgusto, ilarità ecc.
Ma tutto questo gli altri modi lo fanno, diciamo così, en cachette. L’Imperativo no. Lui manifesta apertamente, esplicita senza alcun imbarazzo, il suo intento di agire sull’interlocutore. Lo vuole in piedi e gli dice: Alzati! lo vuole attento e gli dice: Ascoltami! lo vuole dòmo e gli dice: Arrenditi!
Infingimenti, niente. Oddio, esiste la possibilità di un Imperativo menzognero, manipolatore e mistificante, ma è roba da alta scuola, per gente di grande freddezza e con la faccia di bronzo, artisti della menzogna ed insieme equilibristi della lingua. Mi stanno sullo stomaco, ma non posso non ammirarli. Un esempio per tutti: un Gassmann, straordinario “mostro”, che si libera di un’amante ormai superflua, con una serie di accorati, quasi piangenti, imperativi: “Rifatti una vita, soffrirò ma è giusto così”, “Dimenticati di me, io non ti merito”, finché la poveretta, sentendosi anche un po’ crudele, non gli dà il sospirato addio.
Ebbene, questo versatile e generoso modo, con questo bel temperamento attivo, io lo uso nei miei confronti con indefettibile costanza. Sono solita parlarmi, come immagino faccia ognuno di voi con se stesso, ed insultarmi, anche, generosamente.
Tutte le sfumature dell’Imperativo le utilizzo senza risparmio, sollecitandomi, proibendomi, consigliandomi, pregandomi anche e, finalmente, impartendomi precisi, categorici, ineludibili ordini.
Uno dei più frequenti va bene per tutte le stagioni e ne uso senza risparmio e, lo ammetto, senza cortesia. Suona semplicemente così: Marina, falla finita!
Quando scatta questo Imperativo, sulla terra si potrebbe invertire la forza di gravità ma l’ordine verrebbe comunque portato a compimento. Di qualunque cosa si tratti, la faccio finita. Punto.
Beh, che vi avevo detto?

giovedì 18 ottobre 2007

piangere dal ridere

È uscita la biografia ufficiale di Charles Schulz, padre dei Peanuts.
Benché frutto di un accordo con la famiglia è stata contestata decisamente dai figli e dalla moglie perché in essa la depressione -che sicuramente afflisse Schulz- viene ingigantita fino a cancellare tutti gli altri aspetti della sua personalità.
La famiglia ci parla invece di un uomo capace di cogliere il lato umoristico del suo stesso star male. Io li appoggio incondizionatamente e ho il diritto e la competenza per farlo in quanto vecchia lettrice dell’opera omnia di Schulz. ;-)



È mia convinzione, arbitraria ma granitica, che quell’uomo sapesse ridere tanto bene come sapeva piangere.

mercoledì 17 ottobre 2007

fatica

Come si può giocare a freccette se ti spostano continuamente il bersaglio?
Come andare in meta se la linea viene arretrata proprio mentre ci stai scivolando sopra?
Come puoi fare goal se mentre il “cucchiaio” vola ti abbattono la porta?
Come fare canestro se mentre balzi lo sollevano più in alto?

Insomma, mi avete lasciato solo la maratona? O intendete spostare anche il Colosseo?

martedì 16 ottobre 2007

Crozza docet....

Da cantare sulle note dell'Internazionale
(piangendo)

Compagni, avanti il gran partito
Noi siamo dei lavorator
Ma anche degli imprenditori
Stiamo un po' di qua e di là!

Noi non siamo più nelle officine
O nei campi a lavorar
Siamo in barca oppure alle anteprime
Oppure in chiesa per pregar

Noi veniam da lontano
E lontano si andrà
Con stile e in aeroplano
Viaggiando in business class!

Su lottiam l'ideale
Nostro alfine sarà
Se non si sa quale
Ma che importanza ha!

Viva Rosy, viva Walter, viva Franceschin....