domenica 16 settembre 2007

terra di persia

La prima volta che posai i piedi sul suolo iraniano era il 1969, ero in viaggio di nozze e sulla rotta Bombay/Bangkok facemmo scalo a Teheràn. Ricordo i pacchi di pistacchi comprati al duty free e naturalmente le donne in chador.
Nel luglio del 1976 sbarcai invece per cercare la casa che avrebbe dovuto ospitarci nei successivi tre anni. Mia figlia era rimasta a Ponza dove teneva in ostaggio mia sorella. Mio marito ed io, nel caldo choc di quelle tre giornate, visitammo le più pazzesche, sontuose, caleidoscopiche ville di Teheràn, con audacie architettoniche e decorative che mai avrei immaginato di vedere. Arredi di un gusto che mi procurò un vero choc culturale, ori, turchesi, porpore e argenti scialacquati ovunque e dappertutto, con effetti hollywoodiani da iperrealtà. Cercai di immaginare me stessa, mentre urtavo in tutte quelle tende e infrangevo tutti quei vetri colorati. Mi adagiai mentalmente nei miei jeans su quei divani serici di mille colori e mi vidi alle prese con i lampadari veneziani da cento candele. Inimmaginabile. Scelsi così una casa praticamente vuota ripromettendomi di arredarla personalmente. La struttura era però semplice ed elegante, ad un solo piano, il fronte tutto in vetro dava su un parco bellissimo, ricco,vario e curato proprio come ci si aspetta da un giardino persiano. Sul grande prato una piscina piastrellata di azzurro e dietro la casa la piccola costruzione per il personale di servizio. Mamma Esso era generosa, ma altrettanto esigente. A mio marito non fu fatto dono di niente.
Casa e parco erano circondati da un muro altissimo, interrotto da un enorme e pesante cancello di ferro. Era il numero 122 della Khiaban Hekmàt. Al momento di lasciare Teheràn definitivamente mio marito staccò la piastra metallica del numero civico e la portò con sé come souvenir: poco civico. Non il numero, ma il comportamento. Lo apprezzai però moltissimo: ora la placca poggia sul ripiano di una libreria a ricordo della campagna di Persia.
Partivo decisa ad apprezzare ogni singola molecola, minerale, vegetale o animale di quel paese. Nonostante i garbati tentativi di un collega di mio marito, al suo terzo anno a Teheràn, di mettermi in guardia contro possibili disillusioni. -Teheràn è brutta- mi ripeté più volte- una enorme città caotica, senza niente da vedere. Ma io ero sorda a qualunque richiamo alla realtà. Mi preparavo a partire per la Persia, la favolosa Persia! Quell’uomo era, secondo me, uno sciocco immalinconito dalla solitudine, non gli detti nessun credito. Ero decisa a scovare la bellezza che Teheràn sicuramente nascondeva.
Durante l’estate iniziai a studiare il farsi. A Ponza, sotto il pergolato d’uva della casa che mi ospitava, affacciata sulle piscine naturali, ascoltando i concerti per tromba di Haendel, studiavo la grammatica e provavo ad imparare le prime formule di cortesia. All’istituto italiano di lingue orientali mi procurai l’unico vocabolario allora esistente di italiano-persiano, pubblicato appena due anni prima dal reverendo Del Mistro, che da trenta anni viveva in Iran, nella doppia grafia, araba e latina. Presi anche a studiare la storia e la cultura di quel paese bimillenario con il metodo” a tappeto” che mi caratterizza in casi simili. La letteratura, l’arte, la musica, la poesia. Cercai romanzi, diari di viaggio. Non c’era molto, ma quel poco fu mio.
Di quell’estate ricordo Haendel, tutto quel pazzo studiare e i versi di Hafez e Sa’di, riportati nella Letteratura Persiana del Bausani, il nostro grande islamista e traduttore del Corano. Ed è nella sua traduzione che lo lessi, come pure il Divan di Rumi, il grande mistico del duecento. In questo studio incontrai raffinatezza, e i segni di rispondenze antiche tra quella cultura e la nostra. Fu Goethe a rivolgersi ad Hafez così: Hafez, è con te e con te soltanto che voglio gareggiare! Incontrai anche una storia che qualunque popolo porterebbe con orgoglio, una storia dura, e fattasi sempre più dura. Come una brava scolara, ma soprattutto come quella infaticabile lettrice che sono, divorai il divorabile e partii con la sensazione precisa che quel paese mi attendesse per farmi dei doni preziosi.
Quei doni ho dovuto guadagnarmeli, ma me li ha fatti.
Intanto mio marito si era già stabilito a Teheràn e aveva preso servizio. Il suo incarico consisteva nell’addestrare il personale tecnico, ingegneri-chimici e chimici, della NIOC, la National Iranian Oil Company, nei laboratori centrali della compagnia.
Alla fine di setttembre lo raggiungemmo. La mia bambina Francesca detta Picci, di cinque anni, il mio cane pastore Buck ed io. Era il 31 di Shahrivar del 1355 secondo il calendario mussulmano o 2534 secondo il conteggio imposto dal palazzo che faceva risalire la dinastia Palhavi a Ciro il Grande o il 23 settembre del 1976 dopo Cristo.
Vivere in tre secoli diversi e addirittura in due diversi millenni vi toglie una volta per tutte qualsiasi illusione sul senso stesso dello scorrere del tempo. Picci, Buck ed io partimmo di slancio verso quel paese fluttuante tra il presente e il passato.
I bambini e gli animali seguono gli adulti e gli umani con fiducia. Vanno dove vengono condotti. Nel portarli con noi nelle nostre avventure, la nostra responsabilità nei loro confronti cresce enormemente. Io la sentivo benissimo. La mattina in cui partimmo, nel tenere la manina di mia figlia, abbandonata come sempre fiduciosamente nella mia, sperai che questa decisione che avevamo preso anche per lei, fosse giusta e che io non dovessi mai pentirmene. Malgrado tutto, io credo che questa esperienza, che fu difficile anche per mia figlia, le abbia portato qualche cosa di importante nella vita. Tuffata così piccina in un mondo così diverso, imparò a trovare naturali le differenze, a considerarle assolutamente normali, a non farci caso, letteralmente. Buck invece pagò l’arretratezza del paese. Ammalatosi di un’infezione renale non fu curato appropriatamente e quando tentai di curarlo, interpellando telefonicamente il suo veterinario romano, era troppo tardi.
So che oggi Buck, comunque, non ci sarebbe più, ma averlo lasciato laggiù ancora mi dà dolore. Per consolarmi mi dico che in quei tre anni, nel grande giardino di Teheràn, godette di spazi e di una libertà che nel nostro piccolo appartamento romano non aveva mai avuto.
La mia prima battaglia di Persia fu appunto combattuta per Buck, ma non è ancora il momento di raccontarla.


Qualche verso di Hafez, "un granello sulla nostra soglia, un niente...."

Senza la guancia rosea dell’amata, chi può dire bella la rosa e senza una coppa di vino, chi può dire dolce la primavera?

Tu mi tormenti e tu mi manchi. Io vivo, io muoio del male di te. Il mio cuore si serra e si lamenta. Tutto questo non è senza una ragione.

Dolce immagine come hai potuto resistere nei miei occhi deserti? Il ruscello delle mie lacrime ti ha tanto lavata che temevo di vederti svanire.

5 commenti:

  1. Ecco una cosa in cui io e te, Marina, siamo molto diverse:
    "sperai che questa decisione che avevamo preso anche per lei, fosse giusta e che io non dovessi mai pentirmene." Io nel prendere una decisione non penso mai che potrei pentirmene. Una volta, sì mi sono pentita ed ho semplicemente cambiato, invertito la rotta...

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  2. cara paola, com'è che il tuo modo di dire "siamo diverse" suona così simile a "io sono migliore di te"? Intendiamoci, non lo escludo, ma lo sottopongo a dubbio, come faccio con ogni altra cosa.

    Nello specifico, poi: sì, sono una persona che si fa molte domande. Il dubbio, soprattutto il dubbio su se stessi, mi sembra ancora, da Socrate in poi, e a seguire con Cicerone e poi Cartesio e poi Freud e via via attraverso tutta la filosofia,
    fino al nostro Bobbio (Dubitare è il mio credo), il centro della pratica filosofica.
    Ma anche, facendo penetrare la filosofia nella vita, che è l'unico modo perché abbia un senso, io penso che in ogni minima decisione della nostra vita il dubbio DEBBA accompagnarci, se non siamo o sventati o superficiali. O entrambe le cose. Personalmente diffido delle persone sicure di sé, mai sfiorate dal dubbio.
    Ti sembrerò polemica e infatti lo sono.

    cordialmente marina

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  3. Ciao Marina, commento solo la prima parte, al momento, perchè sono fuori casa.

    Io ho scritto "siamo diverse".
    Non ho aggiunto altro.
    Se tu vuoi "sentire che suona" come "io sono migliore di te" puoi farlo, ma guarda che è SOLO una tua interpretazione.
    Non vi sono doppi sensi, dietrologie e nulla d'altro.
    Per me essere diverse è solo essere differenti. Basta.Punto.
    Null'altro.
    Ti ho solo segnalato come prendo di solito io le decisioni. Non ho aggiunto che sia un buon metodo o un pessimo metodo, perchè ...io le prendo così e basta.

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  4. Cara paola, mi dispiace, ma sei capitata nella mia settimana della polemica ad ogni costo.
    Quindi ti dico che per ottenere con la tua frase l'effetto "privo di giudizio sfavorevole implicito" che tu dici di aver perseguito, avresti dovuto e potuto usare una formulazione diversa.
    Ad esempio avresti potuto scrivere:"Cara Marina capisco che il pensiero di un successivo pentimento possa averti attraversata. Io invece non ne ho mai. Quanto siamo diverse!Una volta mi è però successo di pentirmi e ho dovuto invertire la rotta."
    Ho scritto la prima formula che mi è passata per la testa, ma risponde a regole molto rigide e che ogni parlante di una lingua conosce benissimo. Le succhiamo con il latte. Tu padroneggi la nostra lingua molto bene. Quanto a me, retorica e dialettica, me le studio da una vita.Ti confermo che l'effetto del tuo commento, era quello che ho sottolineato.
    Può darsi che ti sia solo sfuggito, e che fosse privo di intenzionalità, ma era quello.
    Comunque non mi ha offesa, ha solo eccitato la mia vis polemica. Quando mi sento offesa reagisco diversamente. E soprattutto tralascio l'analisi linguistica. ;-)

    ciaomarina

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  5. Certo Marina che avrei potuto scrivere il mio concetto in tanti altri modi, ma ...così l'ho scritto...c'aggià fà ??
    (fretta, un po' di ignoranza, ora non ricordo proprio...)

    A Te suonava un un certo modo ?
    Non posso cambiare la tua interpretazione, posso solo spiegarti le mie intenzioni...



    I miei percorsi neuronali almeno dicono così.
    E i percorsi neuronali sono esclusivamente personali, vogliamo dire "molto molto diversi quelli degli uni da quelli degli altri?"

    Ti assicuro che per me la diversità è una condizione da apprezzare e molto.

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