martedì 4 settembre 2007

professò/addio

Gli addii debbono essere rapidi e, possibilmente, preventivi.
Arrivare, cioè, un attimo prima dell’esaurimento totale del rapporto, che questo sia con una persona, con una casa, con una città, con un mestiere, con un animale, con un oggetto anche.
Io almeno la vedo così. Evitare che invece di un addio diventi una “svendita”, una “liquidazione”, uno “scarto” addirittura.
Gli addii sono dolorosi, è per questo che li affretto. Non ne conosco di indolori.
Né che cessino di esere dolorosi. Non che io sia un rimpianto che cammina, ma le stilettate del ricordo si esercitano con frequenza in me. Basta il nome di una località, o una immagine, e zac.
Il fatto è, che io ho l’addio fulmineo e la separazione ritardata.
Detti l’addio alla casa di Sabaudia, dove avevo passato circa dieci estati tranquille e raccolte, in un attimo.
La vuotai solo delle cose cui tenevo di più, passando come una furia da un ambiente all’altro e in meno di un’ora ero seduta in macchina accanto a mio marito, pronta per tornare a Roma. Guardavo composta davanti a me e non piansi né le lanciai un’ultima occhiata. Non torno mai sul luogo dell’addio. Mi sento proprio come un assassino. Infatti ho ucciso qualcosa. Il legame con la casa, la persona, l’oggetto, ecc.
Ma separarmene, dentro di me, è un’altra cosa. Tutta un’altra cosa. Quella casa ha continuato a vivere, dolorosamente, dentro di me, piccolo pezzettino di me smarrito. Dopo quindici anni, pochi giorni fa’ le sono passata davanti, e ho potuto constatare che ancora una volta il teorema della separazione lunga e protratta e, in definitiva, mai risolta, era valido.
Purtroppo di persone, cose, animali, luoghi e oggetti da cui è doloroso separarmi ce ne sono, nella mia vita, una quantità spropositata.
Io sono una mosca presa all’interno di una ragnatela, che si infittisce continuamente, di relazioni affettive, le più improbabili e spesso ingiustificate. -Affetto e pena- mi uscì detto quando il mio psichiatra mi invitò a indicare una specie di motto araldico per me. Mi lego di affetto nella brevità di un nanosecondo, con un' infinità di esseri, viventi o meno. Spesso questa affettività è a senso unico. Persone cordiali, simpatiche, benevolenti, con cui ho diviso stagioni brevissime della mia vita o solo un viaggio o una serata, mi salutano con calore e tranquille si separano da me.
Pronte a dimenticarmi, già cominciando a dimenticarmi mentre ancora mi salutano.
Anche io le saluto allo stesso modo, ma loro vengono con me e me le porterò dentro per chissà quanto tempo.
Non me ne lamento, la medaglia ha due facce (del resto provate voi a fabbricare una medaglia con una faccia sola!). I moti affettivi del nostro cuore sono una delle cose belle della vita e io me li tengo stretti, con tutte le loro controindicazioni.
Questo lungo, troppo lungo prologo, per parlare del mio addio alla scuola.

Ero stanca. Del resto io non conosco mezze misure. Tento da sempre di misurarmi, ma non ci riesco. Mi butto nelle cose con lo slancio di un tuffatore e la costanza di un maratoneta. Resto spesso senza fiato. Ma poiché sono testarda, continuo imperterrita ad andare, a fare, a dare. Energia, fantasia, impegno, tempo, metto sempre a disposizione tutte le mie risorse in qualunque cosa io faccia, come in ogni relazione. Non so cosa sia una posizione conservativa. Anche se mi piace teorizzarla.
Con la scuola è stato così, ed anche peggio.
Fino a stancarmi molto. Gli ultimi due anni, tornavo a casa il venerdì totalmente priva di voce, con il mio immancabile pacco di compiti da controllare e un' enorme stanchezza addosso. Per due giorni non parlavo, bisbigliavo, per permettere alle mie corde vocali di riprendersi per il lunedì. E il lunedì ripartivo, più stanca del venerdì.
E poi, diciamola tutta, non ero più l’insegnante che ero stata, non mi piacevo più, ero diventata impaziente, poco fantasiosa, più rassegnata. Mi stavo sedendo. E non volevo.
Non volevo diventare come quegli insegnanti, stanchi e passivi, che da sempre odiavo o compativo. E se un giorno avessi dato un tema in classe, solo per stare due ore, tranquilla, a pensare ai fatti miei? Ecco, a questo non volevo arrivare.
Io credo che esistano molti modi di essere una buona insegnante, ma nessuno che non contempli, anche, una dedizione al proprio lavoro.
Anche qui, si trattava di dare un addio preventivo. Per non lasciare nella scuola un altro insegnante inutile e per conservare a me stessa il rispetto che porto agli insegnanti veri. La decisione la presi piano piano, mentre mi piacevo sempre meno.
Ma poi agii in fretta.
Portai in Segreteria la mia domanda di congedo definitivo. Il Preside della Scuola di Torre Spaccata, un uomo simpatico, una brava persona, mi mandò a chiamare. Voleva capire. Cercai di spiegargli. Disse delle cose gentili, qualche parola per dissuadermi. Ma in breve il colloquio finì. Uscii e mi limitai a sospirare. La domanda fu inoltrata.
A settembre mi presentai nella scuola per la quale, in attesa dell’accoglimento del congedo, avevo fatto la mia domanda di trasferimento. Roma! Dopo ventidue anni mi mandavano a Roma! Era la scuola più vicina che io avessi mai avuto. Quattro fermate di autobus da casa. Ed era lo stesso edificio che ospitava il mio liceo di ragazza. L’Augustus. Arrivai a scuola un po’ trasognata. Ripercorrevo la stessa strada di quando avevo sedici, diciassette anni. Il grande cortile all’ingresso, le vetrate immense da cui guardavamo i ragazzi che giocavano a pallone. I corridoi dove scherzavamo durante la ricreazione. Il cortile dove facevamo ginnastica nella bella stagione e le foto di gruppo al termine dell’anno. Per un attimo mi augurai che tardassero ad accogliere la mia domanda di congedo. Ci riunimmo per il primo Consiglio di Istituto. Arrivò il Preside. Per la scuola era nuovo, ma io lo avevo già avuto anni prima a Marino. Ci salutammo con calore. -Dopo passi in Presidenza-mi disse. Capii.
Quando mi sedetti di fronte a lui mi interpellò un po’ bruscamente. -Ma che ha fatto?-
E indicava il mio fascicolo posato sul tavolo. -Sono stanca Preside- dissi. -Ma che sciocchezza è questa! Ha avuto lutti in famiglia? -Ma no, preside.- Malattie?- No, no. -E allora lei non può lasciare la scuola. -La ringrazio Preside, ma sono troppo stanca. Non funziono più. -Anche se lei funziona solo a metà, va ancora benissimo. Dia retta a me, ritiri questa domanda. Ora è arrivata a Roma, non deve più viaggiare, si affaticherà meno. -Non è solo il viaggio Preside, sono stanca mentalmente. Non mi vengono più idee. -Senta, professoressa, le darò una prima classe e vedrà che le idee le torneranno subito. Poi questa è una scuola sperimentale, avremo molta più libertà, vedrà si troverà bene.-
Più parlava, peggio mi sentivo. Scuotevo la testa e non obiettavo.
Mi ricordò un episodio. -Si ricorda cosa mi disse? “Se la scuola italiana pensa di liberarsi di me, ha sbagliato i suoi conti!” Ridemmo insieme. Sì, mi ricordavo.- Bhe,- dissi, sono io che mi libero della scuola italiana. -No, è proprio il contrario, P. Andandosene, lei dimostra che la scuola è un posto per burocrati e disillusi. -Sto diventando proprio una burocrate disillusa, Preside. E non voglio-. Lui diventava sempre meno cordiale e sempre più irritato.
Strapazzava il mio fascicolo. -Faccia ancora un anno, ne riparliamo a settembre prossimo. Si prepari un orario comodo, glielo approvo da subito. -Non è questione di orario, Preside. Io non ce la faccio più. La prego, non insista-.
-D’accordo. Può andare-. Secco. Senza neanche darmi la mano.
Uscii. Ero agitatissima. Avevo un nodo in gola. Ma ero anche arrabbiata con lui. Tornai indietro. Bussai.-Avanti.-
-Scusi Preside, ma non può farmi uscire dalla scuola così. Non è giusto.-Mi tremava la voce.
Non esitò neanche un istante.-Ha ragione disse. Non è giusto. Non lo merita.-
Si alzò, venne verso di me e mi tese la mano. -Grazie professoressa per il suo lavoro. Davvero. Mi dispiace molto perderla e mi dispiace per la scuola. Ma lei sola sa come si sente. Le faccio tanti auguri. Posso abbracciarla?-
Così ci abbracciammo ed uscii per la seconda volta dalla Presidenza.
Non mi fermai finché non fui sulla grande strada trafficata. Era un bellissimo mattino di settembre. Tanto sole. Ero un po’ abbacinata. Ma inghiottii, presi un grande respiro e mi incamminai.

Ho un’amica, ex collega, che andò in pensione solo due anni dopo di me. Ma non resistette più di qualche anno. Chiese il reintegro, che è una pratica difficilissima e richiede ragioni serie e motivate. Si sobbarcò ad un' infinità di battaglie per tornare in cattedra. Ce la fece. Quando iniziò la pratica mi disse:- Dai, torniamo indietro insieme.- Ma indietro non si torna. Non io comunque. La scuola invece è venuta con me. Così come pezzetti di me sono restati nei più impensati posti della Provincia romana.
Sere fa’ in televisione parlavano degli incendi che hanno devastato anche le campagne laziali. È andato a fuoco il bosco di Roiate. Ho sentito la solita stilettata. Zac. Ho pensato a quando scendevo dal pullman al bivio per Roiate e mi incamminavo a piedi verso Bellegra. Il bosco correva sui due lati della strada, erano castagni e lecci.
Se il rimpianto significa pentimento e il desiderio di tornare indietro, onestamente, non posso parlare di rimpianto. Ma di un fondo di dolore, e insieme di affetto, un intenerimento dolente per tutti quei paesi, per quegli edifici, per le aule sempre troppo fredde, per i ragazzi tutti diversi e tutti speciali. L’addio c’è stato, ma la separazione non è mai avvenuta, io so che non avverrà mai.

Una sola volta ho pensato che avevo sbagliato a lasciare la scuola. Riderete, lo so.
Fu nel ’94, quando perdemmo le elezioni e nei collegi del sud est della città, le mie borgate, Berlusconi fece man bassa. Nella mia presunzione, nella mia megalomania, nel mio delirio di onnipotenza, pensai -oh, dio, che cosa ho fatto! me ne sono andata e quelli hanno votato a destra!-

16 commenti:

  1. Gli addi alle persone ed alle cose scavano piccoli solchi dentro di noi. Proprio ieri sera ho salutato una collega che cambia azienda. Solite promesse di rivedersi, risentirsi, ma già so che finirà tutto in un lento, lentissimo, sfumato. E l'addio alla casa in cui sono nato e cresciuto fino ai 15 anni, traumatico ed inevitabile, non si è ancora concluso. Quando ci sono passato davanti, due anni fa, non l'ho riconosciuta e mi sono sentito defraudato dei miei ricordi.

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  2. "piccoli solchi" molto ben detto.
    Se tu ancora stai salutando la tua casa dell'infanzia e io quella al mare da quindici anni, pensa che sarà quando ci saluteremo noi! D

    Fuori di scherzo, è proprio così ,gli addii non si concludono.
    Comunque meglio così che perdere le emozioni risorgenti. Teniamocele, Finà...

    ciaomarina

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  3. ...mi viene in mente sempre De Andrè, quando diceva "io vi dico, è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati"..

    Marina, te l'ho gia detto che adoro il tuo modo di raccontarti e di raccontare la vita? Penso di si...e lo sottolineo!!! ;-)
    A presto...

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  4. Mi astengo dal parlare di addii, sono fresca di questa esperienza: è come un lutto, tremendo! Non mi ci fate pensà....

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  5. @Anna: mi spiace di aver toccato un tema delicato, ancora fresco. Non ci pensà, dai...

    ciaomarina

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  6. @Donnigio: il grande De André aveva mille volte ragione. Ma lui era un poeta.

    E piantala con i complimenti se no mi si impicciano le mani e non riesco più a scrivere!


    ciaomarina

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  7. Certo che vi è un vero abisso tra scuola statale e ad esempio le società di formazione aziendale. In entrambe si "insegna" ma le modalità di gestione dei Docenti e di valutazione dell'impatto educativo non sono paragonabili...
    IO ad esempio vengo "valutata" seminario per seminario e se non passo la valutazione dei miei studenti e dei supervisori (Direzione del Personale) NON vengo più richiamata.
    Cosa che è anche accaduta una volta (non solo a me...) e...cavoli se mi sono subito messa in riga, cavoli se mi sono presa altri giorni di attenta preparazione prima di ripropormi per l'aula.
    Nel mio ambiente questa è la prassi, la norma, la regola.
    I Docenti fanno molta attenzione ai feed-back.
    Due feed-backs negativi di fila e...sei fuori....

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  8. Penso anche io che forme di periodica valutazione ed aggiornamento siano utili in tutte le professioni. Circa l'idea però di far valutare gli insegnanti dagli studenti sono recisamente contraria. Immagino che tu abbia a che fare con adulti. Io penso invece alla scuola media e superiore.
    Prima di aprire un confronto fuori tema confermami l'età dei tuoi seminaristi. Anche se già la parola seminario costituisce una traccia.


    ciaomarina

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  9. I miei allievi hanno circa ed in media 15 - 20 anni meno di me.
    La procedura è la stessa delle Business Schools da Harvard all'Insead ecc...
    Intorno alle 14.00 del primo giorno
    il/la Docente viene invitata ad uscire dall'aula ed un responsabile (di solito appartenente alla Direzione del Personale)chiede agli allievi di dire "tutto" quello che ...hanno da dire. Poi la stessa persona della direzione del personale riferisce ed ha un colloquio privato con l'insegnante fuori dall'aula. A questo punto l'insegnante rientra in aula e termina la lezione. Alla fine della lezione viene distribuito un feed-back agli allievi da compilare in forma scritta seduta stante.
    Da questi due feed-backs (verbale e scritto) dipendono le nostre carriere.

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  10. è interessante, ma come prevedevo è un discorso non estendibile alla scuola.
    Sono due situazioni completamente diverse, nella forma, nelle finalità, nel rapporto, non confrontabili.

    cmq, buon feedback!

    ciaomarina

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  11. Io trovo - anche e soprattutto perchè vissuto sulla mia pelle - che il "far valutare un'insegnate dai propri allievi" sia molto molto utile, per entrambi.
    Gli allievi intanto si sentono ascoltati e presi in considerazione.
    L'insegnante poi ha così modo di "vedersi dal di fuori", di "autoregolarsi", correggersi se del caso, migliorare la propria esposizione sia nel contenuto che nei vari metodi di illustrazione degli stessi.
    L'insegnante non può sempre aver ragione e quando cel'ha...lo dimostri con gli argomenti a sua disposizione, con le lezioni, appunto.

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  12. Se parli di un rapporto tra adulti, sono d'accordo con te.
    Anche sulla fallibilità dell'insegnante, ovviamente, sono più che d'accordo, ma mi trova assolutamente contraria un'inversione del rapporto di referenzialità tra un adolescente e un adulto.
    Si possono trovare forme diverse e soggetti diversi per la valutazione dell'insegnante.
    Il lavoro di un insegnante per alunni dai dodici ai diciotto (ma secondo me ormai si va ben oltre)non ha come suoi principale problemi l'esposizione dei contenuti.
    Quello che scrivi del tuo lavoro è interessante ma inapplicabile, a mio parere, al rapporto reale tra un insegnate di scuola media o di liceo e i suoi alunni.


    ciaomarina

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  13. Certo che quando si inizia a lavorare in una azienda qualunque si viene messi a contatto con un Mentore, si possono (e a volte devono) frequentare molti corsi di formazione prima e di aggiornamento poi..
    C'è sempre qualcuno a cui chiedere informazioni, consigli o altro.

    Dopo aver "vinto" la cattedra per l'insegnamento della Lingua e Letteratura Inglese sono dovuta entrare in un'aula senza appoggio alcuno.
    Avevo superato l'esame di abilitazione scrivendo un tema in lingua inglese, facendo una buona traduzione di un articolo e discusso di non so più quale opera di Shakespeare. Bella forza, adoro Shakespeare ed avevo lavorato per anni all'estero utilizzando la lingua inglese...

    Cosa sapevo di COME si insegna ? Nulla.
    Cosa sapevo di COME RAGIONA un ragazzo ? Nulla
    Cosa sapevo di TECNICHE di insegnamento e di PSICOLOGIA ?
    Non ne conoscevo neppure l'esistenza !
    E...CHI avrebbe dovuto aiutarmi ? Forse la Preside...la quale telefonò ai miei genitori invece di parlare con me ?

    Forse, e lo spero!, le cose sono cambiate dal 1979 ad oggi...
    Lo sono,.. cambiate, intendo ?

    O forse sarebbe il caso di riunire i vari responsabili e far fare loro una lunga riflessione in merito ? Anche un buon Brainstorming...

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  14. 'sta storia della preside che telefonò ai tuoi genitori mi intriga. Come li conosceva?
    perplessa, marina

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  15. Non li conosceva. O cercò il numero sulla Guida del telefono o lo trovò tra le mie carte. Fatto sta che telefonò loro. E così se avessi avuto la benchè minima intenzione di ripensare alle mie dimissioni...No, proprio NO !

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  16. Ah, ecco perche' ha vinto Berlusconi!
    ;-)

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Non c'è niente di più anonimo di un Anonimo