mercoledì 29 agosto 2007

les temps des cerises

Ho letto che ai funerali di Trentin, Giovanna Marini ha cantato, accompagnandosi alla chitarra, “Le temps des cerises”, la canzone della Comune di Parigi, come espressamente chiesto da Trentin stesso.
Questa scelta, politica sì, ma anche tenera, mi è piaciuta. Les temps des cerises è una bella canzone popolare, ancora bella oggi dopo centoquaranta anni. Composta da Antoine Renard (musica) e Jean-Baptiste Clément (parole) nel 1867, divenne l’inno degli insorti nel 1871, negli ultimi giorni della repressione nel sangue della Comune di Parigi. Nonostante il tragico episodio cui è affidato il ricordo, è una canzone delicata e piena di speranza.
Dopo essermela canticchiata un po’ per conto mio,pubblico almeno il testo. Su youtube, però, ne troverete diverse versioni. Io segnalo qui la più ingenua, cantata da Lise Lassalle nel 1958, cui il bianco e nero dona secondo me più fascino.
http://www.youtube.com/watch?v=6MzXrc9SfOM

Quand nous chanterons le temps des cerises
Et gai rossignol et merle moqueur
Seront tous en fête
Les belles auront la folie en tête
Et les amoureux du soleil au cœur
Quand nous chanterons le temps des cerises
Sifflera bien mieux le merle moqueur

Mais il est bien court le temps des cerises
Où l'on s'en va deux cueillir en rêvant
Des pendants d'oreilles
Cerises d'amour aux robes pareilles
Tombant sous la feuille en gouttes de sang
Mais il est bien court le temps des cerises
Pendants de corail qu'on cueille en rêvant

Quand vous en serez au temps des cerises
Si vous avez peur des chagrins d'amour
Evitez les belles
Moi qui ne crains pas les peines cruelles
Je ne vivrai pas sans souffrir un jour
Quand vous en serez au temps des cerises
Vous aurez aussi des peines d'amour

J'aimerai toujours le temps des cerises
C'est de ce temps-là que je garde au cœur
Une plaie ouverte
Et Dame Fortune, en m'étant offerte
Ne saura jamais calmer ma douleur
J'aimerai toujours le temps des cerises
Et le souvenir que je garde au cœur

Approfitto per parlare di Giovanna Marini.
Quando cominciai a studiare musica alla Scuola Popolare di Testaccio, aspettavo con impazienza di potermi iscrivere al corso della Marini, che tutti gli anni teneva delle esercitazioni teorico-pratiche su canti di musica popolare italiana di tradizione orale. Brani da lei stessa ricercati paese per paese, registrati, trascritti, raccolti con un lavoro pioneristico e appassionato.
Al mio secondo anno a Testaccio, finalmente mi potei iscrivere.
Giovanna Marini, compositrice, cantante, chitarrista, allieva di Segovia, etnomusicologa, e sicuramente qualche cosa ancora che mi sfugge, è una signora cordiale, semplice, alla mano. Sempre sorridente e piena di energia. Alta, poco aggraziata, sempre in lunghe gonne e maglioni sovrabbondanti, grandi sciarpe, corti capelli e mani straordinarie. Grandi, agilissime mani che non si fermano mai. Quelle mani sono state la mia disperazione.
Infatti per dirigere la Marini usa una chironomia (gesti della mano )che indicano il primo grado e via via gli altri fino al settimo.In pratica si parte dal do(se lo consideriamo tonica) e si torna al do.Comunque i gesti non sono molti, sono appena sette. Ma la Marini li usò dalla prima lezione con una spedita disinvoltura che sembrava presupporre da parte nostra la stessa speditezza. Il che, almeno da parte mia, non era. Non solo dovevo identificare il suo gesto, leggerlo nel suo significato, ma poi dovevo cantare la nota corrispondente. Intendiamoci, lì tutti lo facevano con la massima tranquillità tranne quelli come me, alla prima lezione. Ma la Marini il problema del principiante non se lo poneva mai. Io sospetto che fosse il suo sistema di selezione: chi la seguiva era ok, gli altri tanto valeva che cambiassero corso. I corsi della Marini erano sempre superaffollati, vecchi studenti la seguivano per anni ed anni, affascinati dal suo lavoro, per migliorarsi o solo per vederla lavorare. Noi nuovi eravamo sperduti e ignorati in mezzo agli aficionados. Bisognava cavarsela da soli.
Nel mio corso di teoria io avevo imparato la chironomia e la mia insegnante, la straordinaria Emanuela Garroni, ci aveva fatto fare diverse esercitazioni, ma qui la faccenda era diversa. La Marini ci dava uno spartito in cui erano scritti i testi e niente note e tenendo d’occhio le parole, guardando lei e i suoi rapidissimi gesti dovevamo cantare in coro. I miei neuroni impazzivano. Lei ci seguiva con gli occhi senza mai un commento, un incoraggiamento o una critica. Cantava beata e chi la seguiva la seguiva. Ero entrata al suo corso adorandola, dopo un paio di volte cominciai ad odiarla. Al termine della terza o quarta lezione mi avvicinai per parlarle. Le dissi delle mie difficoltà, dovute secondo me al fatto che lei andava troppo veloce. Quelle sue mani correvano come lepri. Mi permisi di suggerirle di fare i brani a due velocità, una prima volta lentamente ed una seconda più velocemente. Si mise a ridere. Disse che era un’ assoluta sciocchezza, che tutto quello che dovevo fare era sì tenere d’occhio le sue mani, ma INTUIRE dove quel canto andasse a parare. -I canti popolari li abbiamo dentro di noi anche se non lo sappiamo- disse. -Lasciati andare e IMPROVVISA, vedrai che mi seguirai anche tu. Fidati.- Ero furiosa. Lasciarmi andare? Improvvisare canti in calabrese, pugliese, sardo o molisano!? Io non ce li avevo proprio, dentro di me! A mia discolpa o a mio demerito devo dire che ho sempre un approccio razionale ai problemi, che il “lasciarsi andare” mi vede assolutamente contraria perché incapace.
Pensai di abbandonare il corso. Ma il corso della Marini, pur alla scuola popolare, non era mica regalato. E poi le sconfitte, come le digerisco male!
Non avevo nessuno con cui esercitarmi e mi dissi che avrei fatto un ultimo tentativo e poi mi sarei ritirata.
Arrivando alla lezione pensai anche, polemicamente, che avrei fatto proprio come diceva lei, avrei intuito e improvvisato e peggio per lei se le avessi incasinato tutto il suo bel coro. Le avrei dimostrato che le sue idee erano teoriche e la sua didattica una vera utopia.
La lezione ebbe inizio. Lei partì gagliardamente con una melodia lucana, di cui ci aveva fornito le scarne parole. Non le ricordo, ma era un canto di morte e di dolore.
Le seguivo le mani, ma se non facevo in tempo a identificare la nota (la terza? la settima? boh!), cantavo comunque, un po’ orecchiando gli altri (che secondo me andavano ognuno per proprio conto), un po’ tirando ad indovinare. Insomma INTUIVO E IMPROVVISAVO. Hei, aveva ragione lei! Dopo un po’ di questo buttarmi alla “come la va, la va”, siccome il canto era circolare, mi trovai a cantare proprio la melodia giusta. Ci avevo preso! O meglio, lei ci aveva preso!
Da allora il sistema della “come la va, la va” divenne il mio sistema. Niente più mi faceva paura. Non dico che le mani neanche gliele guardassi più, ma non erano al centro della mia attenzione. Capii che al centro della mia attenzione dovevo mettere il canto e che dopo qualche verso sbagliato avrei trovato il capo della melodia e poi anche la coda. Terminai il mio corso. L’anno seguente seguii quello sulle canzoni di lotta, più facile per me. E, come tutti i suoi aficionados, continuai a ripetere i suoi corsi, anno dopo anno, finché frequentai la scuola. Per sentirla cantare, per vederla sorridere e soprattutto per guardare quelle sue terribili, fantastiche mani.




5 commenti:

  1. La canzone sussurra
    "...mais il est bien court le temps des cerises..."

    Vorrei tanto invece che dicesse
    " moi aussi j'ai eu mon temps des cerises..."

    Perchè non ci accontentiamo mai ?
    Forse ...perchè alcuni di noi hanno poca serotonina ed altri invece troppa per cui finiscono con l'annoiarsi?...

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  2. Non è che non ci accontentiamo, è che focaliziamo sul negativo (invece che sul positivo).
    Ciò dipende da automatismi ancestrali del nostro cervello "animale", per così dire. La parte di cervello più razionale invece, che si è evoluta più di recente e ha molti meno millenni di vita della prima, fa fatica a contrastare gli automatismi (in genere negativi).
    Come un portatore sull'elefante, che più che guidarlo si fa guidare.
    La "metafa" non è mia, come tutto il resto. Leggiti "Felicità: un'ipotesi" di Johnatan Haidt, che mi ha davvero illuminata. L'ho scioperto sul blog di Marina, che ve lo dico a fa'.

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  3. Conosco e stimo la Marini, non conoscevo invece la canzone e ti ringrazio per aver colmato la mia ennesima lacuna.

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  4. Grazie a Marina e a Blonde!
    Sebbene sia una (abbastanza) assidua lettrice di Marina, beh Johnatan Haidt mi era sfuggito.
    Cos� sto provando il piacere di scoprire non solo lui, Johnatan, ma anche Daniel Gilbert ed il suo Stumbling on Happiness e poi Darrin M. McMahon e poi Derek Parfit ...
    Una goduria, credetemi!
    GRAZIE !

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  5. piano, piano, me li devo segnare tutti.....

    ciaomarina

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