venerdì 31 agosto 2007

terroristi/lavavetri

Quando mi trasferii a Parigi nel 1986, la città aveva subito nel corso degli ultimi mesi diversi e sanguinosi attentati, alcuni rivendicati dal GIA, (Gruppo Islamico Armato, algerino) altri dal CSPPO (Comitato Solidarietà Prigionieri Politici Orientali), altri ancora mai rivendicati né attribuiti. Trovai una città pesantemente militarizzata.
L’esercito era ovunque: sulle strade, alle fermate degli autobus, fuori dei cinema, alle entrate dei grandi magazzini, nei giardini, e naturalmente nel metrò, nelle stazioni, negli aeroporti e insomma in ogni dove.
Per me un po’ troppo esercito, ma, insomma, di morti ne avevano avuti davvero tanti (e poi altri ne avrebbero avuti mentre vivevo lì) e poi la città era la loro, mica la mia...
Anche la prevenzione era fatta a tappeto. Messaggi in tv e alla radio, grandi cartelloni, tutta la stampa mobilitata nel diffondere la parola d’ordine che era: cittadini collaborate. Siate attenti e segnalate. Osservate, notate e segnalate. Segnalate. Segnalate. Segnalate. Benchè ospite ero cittadina anche io (E poi chi non è, almeno un po’, cittadino della Francia?).
Cosicché quando osservai, segnalai.
La prima volta, mentre aspettavo un’amica sugli Champs Elysée, notai un grosso borsone blù incustodito accanto alla porta di ingresso del grande Presunic, angolo rue du Colisée.
Dopo un po’ che lo osservavo e mentre la gente entrava e usciva, mi dissi che forse qualcosa non andava in quel borsone e, fatti pochi passi, lo segnalai ad un militare che stazionava in camionetta poco distante. Si scatenò un putiferio. Nel giro di pochissimi minuti, la zona era recintata, il pubblico veniva fatto sfollare dal grande magazzino sulla via laterale, una miriade di auto della polizia convergeva sul posto e gli artificieri erano all’opera. Un ufficiale dell’esercito mi ringraziò con una virile stretta di mano e me ne tornai a casa felice per aver fatto il mio dovere di cittadina.
Poiché del fatto nessun giornale fece menzione il giorno dopo, presumetti che non ci fosse niente di così irregolare in quel borsone, e per giorni continuai a ridere con mia figlia e mio marito per aver sventato un inesistente attentato, creando il massimo dei casini possibili alle forze dell’ordine francesi. (Lessi anni dopo, che in ogni caso, in quei tempi, i giornali evitavano di menzionare gli sventati attentati per non diffondere panico tra la cittadinanza).
La seconda volta in cui, col mio temperamento collaborativo, evitai un attentato ( o forse no) fu quando, salita sul pullman che doveva portarmi in aeroporto, vidi precipitosamente scendere, all’ultimo minuto, la mia vicina di sedile. Aveva appena deposto nel bagagliaio, davanti a me, una splendida sacca in puro cuoio di Russia, e se ne sparì nel terminal, senza riprendersela. La cosa dapprima mi suggerì l’idea che avrei potuto impadronirmi della sacca all’arrivo, spacciandola per mia, ma poi mi insospettì. Cosicchè anche questa volta segnalai la presenza sospetta all’autista. Eravamo già sul boulevard periferique. Il pullman inchiodò, l’autista iniziò un concitato dialogo telefonico e nel giro di un nulla eravamo circondati da poliziotti, vigili, artificieri. Fummo sbarcati e un pullman sopraggiunto, sostituì il nostro e ci portò in aeroporto. Non persi neanche l’aereo. Il mio volo infatti era un simpatico AZ che mi attese, anche se non consapevolmente. In questa circostanza fui ringraziata da un signore in grigio, suppongo dei servizi di sicurezza, che mi fece anche un impercettibile accenno di baciamano. Anche questa volta, del risultato del mio allarme non seppi più niente e in famiglia si ricominciò a sghignazzare su questa mia pervicace volontà di far accorrere a vuoto le forze di polizia della Francia.
A segnalare comunque ci avevo preso gusto e non dico che andassi in cerca di ordigni, ma insomma un’occhiata qua e là la gettavo sempre.
Nello stesso tempo però, tutti quei soldati mi comunicavano una certa inquietudine, la città era un po’ troppo in divisa per me, c’erano in giro troppe mitragliette e troppi pastori tedeschi al guinzaglio. Su questo punto anche il mio cane pastore, (il mio amato, indimenticabile, splendido Orso), che era belga e ciò nonostante, anche in terra di Francia, senza nessun complesso, era d’accordo.
Secondo me la città non guadagnava in bellezza da tutto quel brulicare di poliziotti e soldati e soprattutto noi cittadini non guadagnavamo in relax.

Quando poi, dopo tre anni, tornai definitivamente in Italia, capii di essere veramente tornata a casa (sole e cielo a parte), un mattino in cui, fiancheggiando il grande palazzo della Fao, vidi abbandonato in terra un grande borsone, blù anche questo, accostato ad un’aiuola. Esitai un po’ ma, condizionata penso dall’ esperienza parigina, mi rivolsi ad un vigile, presente, del tutto casualmente penso, al semaforo lì vicino e gli segnalai la presenza dell’oggetto privo di padrone. Mi ascoltò bonariamente e poi esclamò. Testualmente. “Ah, sì, è il materiale di lavoro del lavavetri, lo tiene lì. Tutto a posto, signò.” Tutto a posto signò!? Fantastico! Mi rilassai immediatamente. Ero tornata nella mia inimitabile, ineguagliabile città!

l'orda

Questa storia dei lavavetri mi ha fatto tornare in mente un episodio di una ventina di anni fa’, che fra poco vi racconterò. Intanto però anticipo a tutti voi, ufficialmente, che intendo chiedere una licenza di lavavetri.
Sono una donna e come tale i vetri li lavo discretamente bene, sono disoccupata e questo dovrebbe darmi un bel po’ di punti in graduatoria, (non ho dubbi che verrà fatta una graduatoria), ho qualche piccola conoscenza in Comune e naturalmente questo conterà. Siamo in Italia, no? Credo proprio di aver svoltato.
Indosserò dei guanti felpati viola, già visti all’Ikea e mi farò fare dei bigliettini da visita da dare ai miei clienti, (con un bel logo in cui si intrecciano due tergicristalli), assieme ad un cioccolatino, per fidelizzarli.
Potrò finalmente comprarmi quei meravigliosi tailleur di Armani che mi commuovono fino alle lacrime, e magari, perché no, il delizioso cappellino rosso con relative scarpette, che indossa elegantemente mister XVI.

Mi viene da piangere! A Roma abbiamo già la licenza per Centurione, più difficile da ottenere di quella da semplice miles e per raccogliere le monetine gettate dai turisti nella Fontana di Trevi, dalla notte dei tempi raccolte furtivamente da poveracci, si partecipa ad una gara tra associazioni di buona volontà, che poi le devolveranno(le devolveranno?) agli stessi poveracci che se le raccoglievano di notte.
‘Sti lavavetri possono scassare l’anima non poco, ed è vero che con noi donne sono pressanti e aggressivi. Ma di uomini pressanti e aggressivi nella città, ne girano a palate (ed infatti io con la pala li raccoglierei, se intendete quello che voglio dire), ben vestiti, al volante delle loro auto, che, dopo che ci hanno lanciato un insulto e strette contro il marciapiede per divertirsi un po’, si fermano soddisfatti e ghignanti al semaforo, dove il lavavetri spugnerà ben bene i loro vetri, per l’iperbolica somma di venti centesimi. O forse quaranta, se puliscono anche quelli di dietro.
Se i vigili non fossero imboscati negli uffici anagrafici più reconditi, se qualche poliziotto girasse per la città, invece di sottostare ai portoni dei potenti e degli impotenti sottosegretari, se insomma almeno uno di quelli che dovrebbero appunto deterrere comportamenti violenti e aggressivi, facesse pulitamente il suo lavoro, forse la nostra società potrebbe senza grossi traumi reggere all’urto di queste masse di lavavetri che si precipitano su di noi urlanti e scarmigliati, il coltello tra i denti e la spazzola bavosa sotto il braccio.
Io non so se il racket dei lavavetri esista o no. Ma delle due l’una: se esiste, va identificato e smantellato, lasciando in pace l’ultima “spazzola” del carro, se non esiste, si striglino ben bene i violenti e si lascino gli altri a spugnettare i nostri vetri, traguardo sociale cui non credo siano molti gli italiani ad aspirare.
Mi sento meglio.
E passiamo all’episodio di cui prima.
Anzi, ne farò un post a parte.

giovedì 30 agosto 2007

sono solo canzonette?

Musica di Battisti-Parole di Mogol

....Le discese ardite
e le risalite
e poi giù il deserto
e poi ancora in alto
con un grande salto...


Sono solo canzonette? Intanto io canto...

principio di archimede

Un corpo immerso in un fluido in equilibrio subisce una spinta diretta dal basso verso l'alto di intensità pari al peso del volume del fluido spostato.


Immaginiamo che il “corpo” sia un nucleo di scoraggiamento, sfiducia, stanchezza e delusione. Muto, spesso, opaco e pesante. Ipotizziamo che questo “corpo” si immerga nel “fluido” di una serie di giornate piatte, incolori e amorfe. Che si bilanciano l’un l’altra nell’alternarsi di insignificanza e difficoltà.
Abbiamo quindi il “corpo” ed il “fluido in equilibrio”.
Ci attendiamo la “spinta” verso l’alto, lo stacco, l’impennata. L’intensità sarà pari al peso che ci ha trascinato giù o meglio al peso del volume di piccoli contrattempi o grandi tensioni in mezzo ai quali ci siamo fatti strada nella nostra discesa.
Risalire. Questo ci ha promesso Archimede. Così lo chiamano: principio di Archimede. È una legge fisica, risalire.
Noi crediamo alla scienza. Non come ad una fede, ma come ad un metodo. E la sua parola d’ordine è verificabilità.
Attendiamo di verificare. Attendiamo la risalita.

mercoledì 29 agosto 2007

ah Fanny, Fanny!

"...Renato Curcio un eroe.. e " le Brigate Rosse un fenomeno molto coinvolgente e passionale..."
Così si è espressa Fanny Ardant in una intervista al settimanale Anna.
Confesso che, come molti nella sinistra extraparlamentare (come si diceva allora) io ebbi all'inizio simpatia per le Brigate Rosse. Passai poi per la fase dei "compagni che sbagliano" per svegliarmi definitivamente all'uccisione di Guido Rossa, operaio.
So che Renato Curcio non è implicato in fatti di sangue, ma considerarlo un eroe mi sembra a dir poco inappropriato. Quanto alle Brigate Rosse, "fenomeno coinvolgente" sì, tanto è vero che ha coinvolto un bel po' di persone innocenti.
L'Ardant ha chiesto perdono ai parenti delle vittime spiegando di aver parlato a partire dalla sua "visione della vita".
Avrà anche una qualche visione della morte?

les temps des cerises

Ho letto che ai funerali di Trentin, Giovanna Marini ha cantato, accompagnandosi alla chitarra, “Le temps des cerises”, la canzone della Comune di Parigi, come espressamente chiesto da Trentin stesso.
Questa scelta, politica sì, ma anche tenera, mi è piaciuta. Les temps des cerises è una bella canzone popolare, ancora bella oggi dopo centoquaranta anni. Composta da Antoine Renard (musica) e Jean-Baptiste Clément (parole) nel 1867, divenne l’inno degli insorti nel 1871, negli ultimi giorni della repressione nel sangue della Comune di Parigi. Nonostante il tragico episodio cui è affidato il ricordo, è una canzone delicata e piena di speranza.
Dopo essermela canticchiata un po’ per conto mio,pubblico almeno il testo. Su youtube, però, ne troverete diverse versioni. Io segnalo qui la più ingenua, cantata da Lise Lassalle nel 1958, cui il bianco e nero dona secondo me più fascino.
http://www.youtube.com/watch?v=6MzXrc9SfOM

Quand nous chanterons le temps des cerises
Et gai rossignol et merle moqueur
Seront tous en fête
Les belles auront la folie en tête
Et les amoureux du soleil au cœur
Quand nous chanterons le temps des cerises
Sifflera bien mieux le merle moqueur

Mais il est bien court le temps des cerises
Où l'on s'en va deux cueillir en rêvant
Des pendants d'oreilles
Cerises d'amour aux robes pareilles
Tombant sous la feuille en gouttes de sang
Mais il est bien court le temps des cerises
Pendants de corail qu'on cueille en rêvant

Quand vous en serez au temps des cerises
Si vous avez peur des chagrins d'amour
Evitez les belles
Moi qui ne crains pas les peines cruelles
Je ne vivrai pas sans souffrir un jour
Quand vous en serez au temps des cerises
Vous aurez aussi des peines d'amour

J'aimerai toujours le temps des cerises
C'est de ce temps-là que je garde au cœur
Une plaie ouverte
Et Dame Fortune, en m'étant offerte
Ne saura jamais calmer ma douleur
J'aimerai toujours le temps des cerises
Et le souvenir que je garde au cœur

Approfitto per parlare di Giovanna Marini.
Quando cominciai a studiare musica alla Scuola Popolare di Testaccio, aspettavo con impazienza di potermi iscrivere al corso della Marini, che tutti gli anni teneva delle esercitazioni teorico-pratiche su canti di musica popolare italiana di tradizione orale. Brani da lei stessa ricercati paese per paese, registrati, trascritti, raccolti con un lavoro pioneristico e appassionato.
Al mio secondo anno a Testaccio, finalmente mi potei iscrivere.
Giovanna Marini, compositrice, cantante, chitarrista, allieva di Segovia, etnomusicologa, e sicuramente qualche cosa ancora che mi sfugge, è una signora cordiale, semplice, alla mano. Sempre sorridente e piena di energia. Alta, poco aggraziata, sempre in lunghe gonne e maglioni sovrabbondanti, grandi sciarpe, corti capelli e mani straordinarie. Grandi, agilissime mani che non si fermano mai. Quelle mani sono state la mia disperazione.
Infatti per dirigere la Marini usa una chironomia (gesti della mano )che indicano il primo grado e via via gli altri fino al settimo.In pratica si parte dal do(se lo consideriamo tonica) e si torna al do.Comunque i gesti non sono molti, sono appena sette. Ma la Marini li usò dalla prima lezione con una spedita disinvoltura che sembrava presupporre da parte nostra la stessa speditezza. Il che, almeno da parte mia, non era. Non solo dovevo identificare il suo gesto, leggerlo nel suo significato, ma poi dovevo cantare la nota corrispondente. Intendiamoci, lì tutti lo facevano con la massima tranquillità tranne quelli come me, alla prima lezione. Ma la Marini il problema del principiante non se lo poneva mai. Io sospetto che fosse il suo sistema di selezione: chi la seguiva era ok, gli altri tanto valeva che cambiassero corso. I corsi della Marini erano sempre superaffollati, vecchi studenti la seguivano per anni ed anni, affascinati dal suo lavoro, per migliorarsi o solo per vederla lavorare. Noi nuovi eravamo sperduti e ignorati in mezzo agli aficionados. Bisognava cavarsela da soli.
Nel mio corso di teoria io avevo imparato la chironomia e la mia insegnante, la straordinaria Emanuela Garroni, ci aveva fatto fare diverse esercitazioni, ma qui la faccenda era diversa. La Marini ci dava uno spartito in cui erano scritti i testi e niente note e tenendo d’occhio le parole, guardando lei e i suoi rapidissimi gesti dovevamo cantare in coro. I miei neuroni impazzivano. Lei ci seguiva con gli occhi senza mai un commento, un incoraggiamento o una critica. Cantava beata e chi la seguiva la seguiva. Ero entrata al suo corso adorandola, dopo un paio di volte cominciai ad odiarla. Al termine della terza o quarta lezione mi avvicinai per parlarle. Le dissi delle mie difficoltà, dovute secondo me al fatto che lei andava troppo veloce. Quelle sue mani correvano come lepri. Mi permisi di suggerirle di fare i brani a due velocità, una prima volta lentamente ed una seconda più velocemente. Si mise a ridere. Disse che era un’ assoluta sciocchezza, che tutto quello che dovevo fare era sì tenere d’occhio le sue mani, ma INTUIRE dove quel canto andasse a parare. -I canti popolari li abbiamo dentro di noi anche se non lo sappiamo- disse. -Lasciati andare e IMPROVVISA, vedrai che mi seguirai anche tu. Fidati.- Ero furiosa. Lasciarmi andare? Improvvisare canti in calabrese, pugliese, sardo o molisano!? Io non ce li avevo proprio, dentro di me! A mia discolpa o a mio demerito devo dire che ho sempre un approccio razionale ai problemi, che il “lasciarsi andare” mi vede assolutamente contraria perché incapace.
Pensai di abbandonare il corso. Ma il corso della Marini, pur alla scuola popolare, non era mica regalato. E poi le sconfitte, come le digerisco male!
Non avevo nessuno con cui esercitarmi e mi dissi che avrei fatto un ultimo tentativo e poi mi sarei ritirata.
Arrivando alla lezione pensai anche, polemicamente, che avrei fatto proprio come diceva lei, avrei intuito e improvvisato e peggio per lei se le avessi incasinato tutto il suo bel coro. Le avrei dimostrato che le sue idee erano teoriche e la sua didattica una vera utopia.
La lezione ebbe inizio. Lei partì gagliardamente con una melodia lucana, di cui ci aveva fornito le scarne parole. Non le ricordo, ma era un canto di morte e di dolore.
Le seguivo le mani, ma se non facevo in tempo a identificare la nota (la terza? la settima? boh!), cantavo comunque, un po’ orecchiando gli altri (che secondo me andavano ognuno per proprio conto), un po’ tirando ad indovinare. Insomma INTUIVO E IMPROVVISAVO. Hei, aveva ragione lei! Dopo un po’ di questo buttarmi alla “come la va, la va”, siccome il canto era circolare, mi trovai a cantare proprio la melodia giusta. Ci avevo preso! O meglio, lei ci aveva preso!
Da allora il sistema della “come la va, la va” divenne il mio sistema. Niente più mi faceva paura. Non dico che le mani neanche gliele guardassi più, ma non erano al centro della mia attenzione. Capii che al centro della mia attenzione dovevo mettere il canto e che dopo qualche verso sbagliato avrei trovato il capo della melodia e poi anche la coda. Terminai il mio corso. L’anno seguente seguii quello sulle canzoni di lotta, più facile per me. E, come tutti i suoi aficionados, continuai a ripetere i suoi corsi, anno dopo anno, finché frequentai la scuola. Per sentirla cantare, per vederla sorridere e soprattutto per guardare quelle sue terribili, fantastiche mani.




insonnia/in somnia

Roma di notte
di Fëdor Ivanovič Tjutčev

Roma riposa nell’azzurra notte.
La luna è sorta e la città nel sonno,
solenne e desolata, ha tutta invasa
e l’ha ricolma della sua gloria silente.

Dolce è Roma a quel raggio, e a quella luna
il suo cenere eterno s’apparenta.
Quasi un sol mondo, fulgido ma morto,
fosser la luna e la città dormiente.

quasi haiku

cuscino bianco
rivoltolato
notte
calda

martedì 28 agosto 2007

per ilaria caffari

Ciao Ilaria,
questo post raccoglie l'accorato appello di Paola, collaboratrice del tuo papà ai tempi di Teheràn. Avrebbe tanto piacere di riprendere i contatti con te. Se leggi questo post chiamala. Sul mio post "flash", dove lasciasti il tuo commento, troverai i suoi recapiti.
ciaomarina

se....

Non c’è proprio nessuna parte della mia lingua materna che io non ami. Verbi, avverbi, preposizioni e congiunzioni. Per non parlare di nomi e aggettivi.
E i pronomi, allora? Li trovo splendidi, come gli articoli e le interiezioni.
Possediamo una lingua meravigliosa e io me la studio incessantemente, proprio come quei ragazzini che smontano e rimontano i loro giocattoli.

Oggi mi sono dedicata al congiuntivo.
Qualcuno si chiederà perché esista addirittura un’ associazione per la salvaguardia del congiuntivo, il SIC.
Esiste perché c’è un decremento nell’uso di questo modo, sia pure limitato alla lingua parlata.
Ma tranquilli, nell’italiano scritto, anche senza pretese letterarie, il congiuntivo è ben saldo.(Serianni).
Quello che mi affascina del congiuntivo è il suo lanciarsi su piste possibiliste, anche su timori, sì, ma soprattutto su volontà, supposizioni, desideri....
Il congiuntivo ci allontana di un piccolo scarto dalla realtà e dalla constatazione obiettiva di qualcosa, scioglie un attimo per noi la catena dell’indicativo, ci sottrae a quel suo “indice” che può essere rassicurante, sì, ma anche perentorio.
Splendida libertà di frasi come : “Che sia già ora di alzarsi?” stiracchiandosi languidamente e ricacciando il capo sotto il cuscino.
Tutt’altra cosa rispetto a : “È ora di alzarsi”. Così categorico, così militare.
Oppure: “E se fosse lui?” di fronte ad un suono di campanello. E dietro, rapidissima, vola la fantasia, immaginando scenari di tenera affettuosità o sfrenata passione, secondo il temperamento del parlante. L’alternativa in indicativo sarebbe: “Sarà lui?”
Scusate, ma l’unica risposta possibile diventa “boh!”. Veramente prosaico.
Anche quando il congiuntivo vuole trasmettere un comando, dare una prescrizione, lo fa con eleganza, senza brutalità. “Ho bisogno che tu mi faccia sentire il tuo affetto.
É chiaro, ma non pressante.
Se lui o lei non capisce è proprio di coccio. E vuoi mettere con un brutale imperativo “Fammi sentire il tuo affetto!” Verrebbe da rispondere: “Perché? Me l’avanzi?”
Oppure l’interrogativa un po’ inquisitoria e piagnucolosa: “Perché non mi fai sentire il tuo affetto?”
Che, se l’anaffettiva è una donna, si scoccia a morte e ti trova patetico, se è un uomo ti risponde che sei tu che non riesci a sentirlo, questo famoso affetto. Lui l’affetto ce lo mette. La sorda sei tu.
No, meglio usare il congiuntivo.

Il congiuntivo è duttile, si piega, ed è molto democratico, si lascia usare dagli arricchiti (il famoso “mi consenta”) e dai poveri in canna, ricchi solo del loro buon gusto linguistico. “Mi faccia la carità” è una formula che dà diritto secondo me ad una immediata donazione. Infatti, quel congiuntivo, quel “mi faccia” significa, me la faccia se può, me la faccia se le sono simpatico, se non va di fretta...insomma ti lascia libero di farla o meno, senza sentirti né incalzato né malvagio. Niente a che vedere con “Fammi la carità”. Troppo imperativo. Viene da rispondere: “E perché?”
Quanto alla formula interrogativa dell’indicativo:”Mi fa la carità?” ha un che di piagnucoloso e il passante frettoloso potrebbe rispondere sbrigativamente “No, non te la faccio”.


Il congiuntivo ha anche una sua forza, intendiamoci, non è mica uno smidollato. Pensate alla bellezza definitiva di una frase come “Che ci provi!” Che sfida sintetica, che pathos! O anche “Se li tenga i suoi soldi!” Tutt’altro sdegno rispetto a “I suoi soldi se li può tenere.” Ma che fiacchezza! Chiaro, per carità, ma insomma moscio, senza temperamento.
Il congiuntivo ha anche una vena comica. Il “fusse ca fusse la vorta bona” di Nino Manfredi o il surreale “Non l’avesse mai detto! Non l’avrebbe sentito nessuno” di Rascel. Ce n’era uno di Totò, ma accidenti, non mi torna in mente. Chiunque lo ricordi me la segnali. Grazie.


C’è però un congiuntivo da far tremare le vene e i polsi (endiadi, splendida figura retorica, ricordarsi di parlarne in un post).
Ed è il congiuntivo del periodo ipotetico, la protasi di un periodo ipotetico. Vale a dire la condizione cui sono sottoposti i nostri desideri, le nostre speranze, i nostri sogni. La nostra vita, talvolta. Alors là, sono guai.
Il periodo ipotetico è un campo minato. Minato appunto dal congiuntivo.

Qui tutto si regge su una condizione. “Ti aspetto stasera, sempre che tu voglia”.
Se tu volessi, potremmo partire per New York”. Fin qui va ancora tutto bene, no? Sono quesiti, ma non drammatici.
Ma sentite questa: “Se tu mi amassi, non mi lasceresti sola.”
Qui la faccenda già è più delicata, qui si volteggia sopra una rete, si naviga a vista e c’è anche nebbia, cari miei.
La parlante ha scelto il congiuntivo. Apparentemente la frase dice: “Tu mi lasci sola, ergo tu non mi ami, ergo sei uno str....”.
Ma il congiuntivo è un modo molto astuto. Quando la donna dice “Se tu mi amassi”, attende una sconfessione del dubbio insinuato nella sua protasi. Lascia una porta aperta. Lui può rispondere con calore: “Ma io ti amo!” e tutto si aggiusta. Quel “se tu mi amassi” è un’autostrada spalancata di fronte a qualunque uomo. È in quel “Se tu mi amassi” che deve infilarsi. E la storia può avere un lieto fine, proprio perché lei ha usato il congiuntivo. Se però lei scegliesse una formula diversa, se per esempio dicesse: “Tu mi lasci sempre sola! Non mi ami!” le cose si farebbero difficili. Lui si sente messo sotto processo, accusato e già condannato. Si irrita, si infastidisce. Reagisce male. La faccenda degenera. La storia non avrà un lieto fine.
Anche una formula, sempre in indicativo, ma pacata, non ottiene un miglior risultato. “Tu non mi ami, è per questo che mi lasci sempre sola.” Qui lo stile è l’uomo, anzi in questo caso la donna. Questa donna qui è categorica, si sta dando la zappa sui piedi. L’uomo può agguantare al volo l’occasione e dire: “Sì, effettivamente non ti amo, ciao e salutami tua madre”.
Ricordate, partite sempre con un congiuntivo, per l’indicativo c’è sempre tempo..

Veniamo adesso ad un congiuntivo un po’ più carognetta.
Se ti avessi incontrato prima!”. Questo è un congiuntivo traditore, lo devo ammettere. Sì, hai un bel sognare tutto un possibile, travolgente amore, in caso di un incontro avvenuto prima. L’incontro non c’è stato, caro mio e, in questo caso, il congiuntivo equivale ad un indicativo, né più né meno. È come dire: “Non ci siamo incontrati, mi dispiace. Adesso io ho casualmente per moglie questa modella jugoslava, con uno stratosferico stacco di coscia e tu stai con un rappresentante di prodotti farmaceutici a contratto stagionale, con un po’ di pancetta e l’alito pesante”.
O anche: “Che peccato! quando ci siamo incontrati ormai ero la signora Onassis e tu facevi parte dell’equipaggio dello yacht di mio marito!”
Ma qui siamo ancora in un congiuntivo in fondo sognatore, sventato, provocatore, un congiuntivo che sfida la vita e le dice: “Ah, ti avrei fatto vedere io, a te”!
Ci avviciniamo al dramma, quando entriamo nella sfera dei rimorsi e dei rimpianti.
Lì il congiuntivo può colpire duro.
Se avessi saputo a vent’anni quello che oggi so di me!” Ecco, una frase così, da sola, rende il congiuntivo un modo disperante. Qui il condizionale sarebbe più clemente. “Vorrei aver saputo a vent’anni quello che so oggi di me!”
Oppure: “Non ti avessi mai incontrata!” Solo a sentirla, una frase così, ci si sente vinti e disperati assieme al parlante che l’ha formulata.

E infine il terribile: “Se rinascessi”. Eccolo il volto duro del congiuntivo.
Ecco, qui davvero atterra. È spietato, è letale.
Certo, per un attimo, possiamo trascurare questa terribile, irrealistica protasi e volgerci invece all’ apodosi, fluttuare in un mare di fantasticate, splendide, vite alternative. Sognare, dietro a quella ipotetica rinascita. “Farei la ballerina di tango”,
“Farei l’istruttore di vela e passerei la mia vita sul mare”, “Farei la guerriglia assieme al subcomandante Marcos”, “Sposerei il marito di mia sorella e la farei schiattare di gelosia”, “Sarei corrotto, corruttore e ricchissimo”, “Imparerei l’aramaico e farei ricerche archeologiche in Iraq”, “Lascerei scie di profumo in tutti gli ascensori e consumerei uomini come kleenex ”, “Sarei un grande chef e cucinerai ai meeting del G8”, farei, sarei......Il buon, vecchio, caro condizionale......
Ma per quanto le lingue siano duttili, per quanto si lascino plasmare, pasticciare, stravolgere e ricreare, le lingue non possono ingannare la realtà. L’apodosi può essere il più colorato dei film, la commedia più scatenata, il quadro o la foto più accattivante, patinata, smagliante. L’acido di quel congiuntivo, la corroderà. E a quel congiuntivo non ci sono alternative. Non realistiche, comunque. Grammaticalmente la frase è corretta. Ma il parlante sa che fattualmente è sbagliata. Certo, la dirà. Nessun parlante può veramente impedirsi di dire “Se rinascessi”, ma lo dirà sorridendo di questo congiuntivo così spericolato, così folle, così osé. E, se realista e saldo di nervi, riderà un poco anche di se stesso e della vita.

PS L'irresistibile congiuntivo di Totò è "Ma mi faccia il piacere!".
Me lo ha ricordato gentilmente Anna.

nascere

In occasione della data di nascita di mia figlia, avevo scritto un piccolo post sulla mia esperienza di partoriente. Ma una giovane donna, amica di mia figlia, stava vivendo le ansie e le paure dell’attesa del parto. Parecchie paure, come è del tutto naturale. Così, sapendo che mi leggeva e temendo che il mio ricordo potesse in qualche modo turbarla, decisi di non pubblicare il mio post. Ieri il suo bambino è nato, lei sta bene, lui pure. Insomma tutto a posto.
Così, cara Nadia, ecco il mio post.
Assieme a tanti auguri e ad un abbraccio.

Era un giovedì e acquistai l’Espresso all’edicola in prossimità della clinica dove mi stavo recando a partorire.
Tranquilla e spavalda, con il mio parto in mano come la mia vita.
O almeno questo era quanto credevo.
Ma quando la parola “cesareo” fu pronunciata, oltre a trovare indelicato questo cambiamento di programma, mai concordato con il destino, avvertii un intenso formicolio interno che diceva chiaramente: mamma.
Se non un’amorosa sollecitudine, cercavo quella energia implacabile e quell’indomita volontà con cui piegava genti e fatti al suo volere.
E infatti, giunta in clinica, chiarì subito che il parto cesareo sarebbe stato preso in considerazione solo di fronte ad una più che accertata necessità e non certo per garantire un supplemento di parcella al professore.
Bastò. Partorii nel più naturale dei modi ma il professore, non avendo gradito la chiarezza di pensiero di mia madre, si rifiutò di farmi accedere anche alla blanda partoanalgesia prevista per quei tempi.

Sapendo che la natura usa il vecchio trucco di far dimenticare alle donne le traversie del parto, per indurle a procedere sulla via della continuazione della specie umana, e non volendo in ogni caso perdere il ricordo di un momento così significativo della mia vita di donna, mi appuntai un paio di concetti.
Scrissi tre sole frasi “Sono stata agita, la natura ha fatto tutto da sé.
Anche senza la presenza della mia coscienza la nascita avrebbe avuto luogo.
Sono solo un mammifero."
Comunque l’appunto precauzionale si rivelò superfluo, perché la sensazione di essere solo uno strumento cieco della forza vitale, non la dimenticai mai.
Oggi che quella nascita è lontana trentasei anni, se mi fermo un attimo a ricordare, quella sensazione è ancora là, forte e precisa come allora. Spero che nessuna donna si senta offesa da questo mio ricordo che non vuole in nessun modo inficiare la loro partecipazione consapevole al parto. Anzi, questa, non solo la riconosco come vera e preziosa, ma anche come meravigliosa.
Ma alla mia esperienza, che ho riportato con la più totale sincerità, sia riconosciuto lo stesso valore di testimonianza di quelle proposteci dalla mistica della maternità.

lunedì 27 agosto 2007

concertar cantando

Acceso il computer, stamattina ho trovato la convocazione per le prove del mio coro.
Abbiamo già un appuntamento per una esibizione. Un po’ sui generis perché si tratta del matrimonio di una di noi, una giovane e bella soprano.
Cantiamo regolarmente a tutte le cerimonie dei componenti del coro. Funerali compresi, naturalmente. Sicché posso già immaginare il mio coro, al quale auguro come a me medesima, una lunga, lunga vita, che canta al mio. Per quel tempo forse il Comune avrà messo a disposizione qualche bel locale per i funerali laici. Speriamo si preoccupi anche dell’acustica!
Comunque la mail della segretaria del mio coro mi dà lo spunto per queste poche note sulla vita del corista. Naturalmente si parla di un coro amatoriale, niente Santa Cecilia, niente Opera, niente RAI.
Ma fedele alle mie convinzioni di fondo, secondo me la cultura, come la politica, la fanno le piccole realtà di impegno sparpagliate negli angoli del nostro paese.
Va beh, la faccio troppo lunga.



Inverno.
Le chiese sono fredde. Terribilmente fredde.
La prima preoccupazione è coprirsi. Molti strati che ci infagottano, eppure non riescono del tutto a proteggerci. Le chiese sono umide e l’umidità sale dai marmi del pavimento, si trasmette ai piedi e risale lungo il corpo.
La tenuta ufficiale prevede un tuffo nel nero: gonna lunga, giacca, scarpe. Molto mortificante, secondo me, tanto che ogni tanto mi vien voglia di passare ad un coro gospel. Sogno di avvolgermi in enormi mantelli rossi e viola e di dondolarmi al ritmo del canto. Ma un coro così non l’ho ancora trovato. E poi non lascerei mai il mio Maestro. Così mi imbottisco e affronto le basse temperature.
I collant non sono mai meno di due, talvolta la gonna nasconde dei leggers, sotto la giacca un body più un maglioncino, e sopra, spesso, un cappotto. C’è addirittura chi mette una mantella. Le sciarpe si sprecano.
Gli uomini, les pauvres, sono più sfortunati, possono imbottirsi meno. Non credo che indossino mutandoni in lana sotto i calzoni o maglioncini sotto la camicia. Ma molti tengono un cappotto nero sopra la giacca. Ma loro sono il sesso forte.
Spesso arriviamo al Concerto di Natale, chi più chi meno raffreddato. C’è il rischio di uno starnuto, di un colpo di tosse. Suspence. Nel caso, sguardo di fuoco da parte del Maestro.


Colpita da un accesso di tosse mi è capitato di dover impercettibilmente arretrare fino a nascondermi sul fondo dell’abside e lì semisoffocarmi per attutire il suono dei colpi di tosse. Molti di noi portano acqua con sé. Io ho una fiaschetta di quelle piatte da whisky nella tasca del cappoto o della giacca. Negli assolo dell’orchestra, quando il pubblico si disinteressa di noi, nascondendosi un po’ si riesce a bere una sorsatina che rinfresca la gola. Si succhiano anche caramelle. Amare, perché gli zuccheri fanno male alla voce. Malgrado tutte le precauzioni, il giorno dopo il concerto, qualcuno è a letto con la febbre, o con un grosso raffreddore o con un bel mal di gola.
Il fatto è che un concerto non dura mai meno di un’ora e mezza e prima c’è la prova sul posto, per accordarci con l’organo della chiesa e prima ancora, nei locali interni, una mezz’oretta di vocalizzi. E anche i locali interni non sono quasi mai riscaldati.
E durante il concerto si sta fermi, in piedi, per circa due ore, comprensive di eventuale bis.
Insomma i concerti di inverno sono caratterizzati da freddo e malanni di stagione.
Ma godono del clima del Natale. Pubblico più indulgente e sempre molto contento di riconoscere i grandi classici della tradizione natalizia. Pubblico un po’ ingenuo in genere.

Primavera
È al concerto di primavera che presentiamo il frutto del lavoro svolto nel corso dell’anno. Dal mese di settembre quattro ore e anche più di prove ogni settimana e poi lo studio a casa e l’ascolto, durante le varie attività casalinghe, pressoché esclusivamente, dell’opera che stiamo studiando. Per rendermela familiare io l’ascolto sul mio lettore di CD nei miei percorsi in autobus o, clandestinamente, mentre guido. E spesso la canto anche con qualche sguardo perplesso da parte dei miei vicini ai semafori. Studio molto, aiutandomi con la mia tastiera per essere certa di memorizzare l’altezza giusta dei miei attacchi. Cerco anche di imparare le entrate della mia sezione, i soprani. Succede che sono sicura del fatto mio, e poi alle prove, quando si tratta di cantare insieme alle altre sezioni, improvvisamente mi perdo. Le voce delle altre sezioni possono funzionare da sostegno ma anche disorientare.
Un’opera corale presuppone una tessitura, le voci delle quattro tonalità (ma possono essere anche otto e allora sono dolori!) debbono intrecciarsi con esattezza. Ogni voce deve seguire il suo filo colorato, riempiendo la trama musicale con l’ ordito esatto, per altezza, melodia, tempo e spesso dinamica (il forte o piano per intenderci) che l’autore ha indicato. E che il Maestro pretende.
Le fughe sono in genere la parte più difficile da preparare. Ci vuole un’aderenza costante al proprio tema, per seguirlo senza farsi dis—trarre dalle altre voci che riprendono, a piccoli intervalli, il nostro, ma con piccole variazioni, oppure rispondono con un ritmo diverso o ancora cantano degli abbellimenti di diversissima melodia mentre noi tentiamo di mantenere ferma la nostra. Quando infine la fuga è “montata”, cioè riusciamo a cantarla a quattro voci dall’inizio alla fine senza accavallarci, o superarci, o contagiarci con le melodie, si tira un sospiro di sollievo: il più è fatto. La prova del fuoco è quando il Maestro dice: -Pronti? ci rivediamo alla fine-. Significa che per nessuna ragione si interromperà e che, errori o non errori, si deve comunque andare avanti, cantare tutta la fuga fino all’ultima nota, anche nella più totale cacofonia. Very thrilling!

Estate.
A meno di avere una tournée già prestabilita, i Concerti estivi capitano spesso all’ultimo minuto. Succede che un altro coro, troppo piccolo o improvvisamente sotto organico, chieda un rinforzo, che una defezione ci veda sostituti, o che un Comune, indeciso fino all’ultimo, decida di inserire nel programma della sua estate culturale un concerto per coro. Per le ragioni più differenti: perché il balletto previsto ha dato forfait, perché dopo aver stampato il programma si scopre che la compagnia già contattata chiede troppo o invece perché improvvisamente la Giunta di un paese si accorge di potersi permettere anche un altro spettacolo.
D’estate, l’organico varia. Tutti prendiamo, chi prima, chi dopo, le nostre vacanze e così non si sa mai esattamente quanti saremo. Può capitare di ritrovarci con pochi soprani, o con niente contralti o un solo basso e appena due tenori. Insomma è un po’ un terno a lotto. L’impasto di voci ne risente, ma il maestro riesce sempre ad aggiustare le cose o almeno a farci credere che si sono aggiustate per darci quel po’ di fiducia o di incoscienza che serve per cantare anche in quelle condizioni.
L’estate è anche la stagione in cui si canta di tutto. I Comuni che ci ospitano ci possono chiedere “la qualunque” e a noi non resta che sperare che “la qualunque” faccia parte del nostro repertorio. Le prove sono poche e ci lasciano sempre scontenti. Ma un coro deve saper vivere pericolosamente.
Anche il caldo è nemico del corista. Si suda e poi si cerca una correntina e la voce si abbassa o se ne va addirittura, oppure nella nostra tenuta (che benché estiva prevede comunque tutto quel nero e soprattutto niente braccia nude!) ci sciogliamo di caldo, immobili sui sagrati o sui palchi senza poterci né sventolare né detergere.
La segretaria del nostro coro è una simpatica signora canadese di religione protestante, calvinista. La sua idea di compostezza, massimo ideale per il corista di musica sacra, è molto retrò e molto convenzionale. I pantaloni sono banditi in nome di un preconcetto a loro sfavorevole che li identifica come “sfacciati”. Ogni anno tentiamo una ribellione, ma la signora, canadese di nascita, è però tedesca di origine, imperativa e autoritaria. Io sono stanca di tornare nel 2007 a battermi per indossare dei pantaloni e in genere indosso la scomodissima, per me, gonna lunga. Solo ogni tanto, così, per farle capire che sono collaborativa ma non dòma, mi metto il mio bel tailleur pantaloni senza neanche comunicarglielo. Lei finge di non vedermi. È un test cui ci sottoponiamo entrambe. Ed entrambe finora lo abbiamo superato bene. Sorridendoci.

Autunno.
A settembre il coro riprende la sua attività. Si inizia sempre con grande entusiasmo. Ci si conta. Defezioni? Qualcuna ogni tanto, ma arrivano nuove leve. Passano attraverso l’audizione del Maestro, pubblica, fatta lì sui due piedi. La ricordo con vero sgomento. Il Maestro ritiene di dover presentare il suo lato peggiore nel primo incontro con il nuovo corista. Così, tanto per fargli capire con chi avrà a che fare.
Poi però diventa paziente ed amabile, spiritoso e infaticabile. Il Maestro è un uomo audace, lo si vede quando ci presenta il nuovo lavoro da preparare. Niente gli sembra mai troppo difficile. Ci fa misurare con autentici mostri della musica corale.
Si divide tra multipli impegni, le lezioni in Conservatorio, i Madrigalisti romani, e prestazioni professionali dal Brasile alla Bulgaria. Noi temiamo sempre che possa abbandonarci. All’inizio della nuova stagione bisogna ritrovare la propria voce, che inoperosa stenta a ritrovare la sua forma, ma soprattutto bisogna ritrovare i propri muscoli addominali. I nostri addominali sono costantemente presi di mira dal Maestro. Gli attribuisce una tale importanza che sembrerebbe possibile cantare senza corde vocali, ma non senza addominali. La verità è che la differenza tra la voce ed ogni altro strumento musicale, (perché la voce questo è, in tutto e per tutto) è che il tuo strumento lo porti con te, non lo puoi mettere in un astuccio perchè si conservi. Vive con te e con te si ammala o si strapazza, il tuo strumento sei tu e la sua forma è la tua forma, fisica e psichica. Le lezioni del maestro Pantaneschi sono anche lezioni di anatomia e fisiologia. I primi tempi ci sconcertavano, possibile mai che avessimo tutti questi muscoli in gola e tutte queste misteriose parti mobili? Adesso abbiamo familiarizzato, e niente ci impressiona più. Se mi dicesse che ho un motore diesel in gola mi adopererei per riscaldarlo senza battere ciglio.


Adesso ci avviciniamo alla ripresa delle prove ed essendo io una corista modello, ho ripreso qualche spartito, tanto per mettere alla prova la voce.
Confesso che è fiacca, e gli addominali sicuramente non sarebbero di soddisfazione del Maestro. Meglio rinforzarli un pochino prima che le prove inizino. Quanto al fiato, anche quello si fa cantando. E’ spaventoso quanto velocemente si riduca se non ci si esercita. E il “non respirate”! imperativo del Maestro può essere delle volte semplicemente omicida. Se, esalata l’ultima nota di quelle da eseguire con un solo “fiato”, gli cadessimo esanimi davanti, non ci direbbe altro che “bravi!”
Insomma c’è da lavorare.
Vado.

domenica 26 agosto 2007

ricordo di Grace Paley

Martedì scorso ho inserito nella mia lista di libri da acquistare, l’autobiografia di Grace Paley, “L’importanza di non capire tutto”, in uscita presso Einaudi, come avevo letto in una bella intervista alla scrittrice, pubblicata su la Repubblica.
Il giorno dopo, mercoledì 22 agosto, Grace Paley, ottantadue anni di impegno su tutti i fronti della vita, è morta.
Di Grace Paley ho letto tutti i racconti e non ce n'è uno che mi abbia delusa. I suoi libri ci raccontano sempre gli stessi personaggi, seguiti attraverso il tempo e le vicende della loro vita. Chi ha letto i primi, si è imbattuto in storie minime, di donne, bambini, uomini che popolano una piccola comunità, il quartiere del Bronx in cui nacque e visse quasi tutta la sua vita, e che torneranno nelle successive raccolte.
Non il Bronx paradigma della violenza, ma quello della sua giovinezza, abitato da ebrei della classse media.
Le sue storie sono fatte di dialoghi, sono poco esplicative, sono fatte di sfumature del linguaggio, e spesso di battute fulminanti. Eppure una sola di quelle storie, in cui sembra non accadere niente, squarcia il buio di un’ intera esistenza, ne svela il senso, e ce la rende indimenticabile. Perché i suoi personaggi sono proprio come noi, hanno vite come le nostre, incontrano le nostre stesse difficoltà a portarle avanti e si battono come noi per conservare dignità e speranza.
Da Grace Paley non c’è da aspettarsi nessuna avventura, tranne quella della vita quotidiana, che può essere farsa, dramma o tragedia, ma è, sempre, il vivere comune.
Con le sue little disturbances, i suoi piccoli contrattempi.
Il suo riprendere a distanza di anni le stesse figure che ci ha fatto conoscere nella sua prima raccolta e ripresentarcele in un momento diverso della loro vita è straordinario. Perché tutto questo non accade attraverso i lunghi tempi di un romanzone saga, ma in piccoli brevi racconti concisi. Le stesse donne che abbiamo incontrato al parco, piegate a tirare su i calzettoni dei loro bambini o che chiacchierano mentre li tengono d’occhio, le rincontriamo nel libro successivo. Non tutte, qualcuna è morta o si è trasferita, ma le altre, sedute sulle panchine del parco parlano delle loro preoccupazioni per i figli ormai adolescenti, delle loro speranze per i nipoti sopraggiunti, della fatica di star dietro ai vecchi genitori. Descritti così forse i suoi racconti non fanno venir voglia di precipitarsi dal libraio e me ne dispiace, perché la qualità di quei racconti è assoluta. Grace Paley è una grande narratrice e i suoi personaggi indimenticabili. Quello che c’è di speciale è che in questi racconti in cui spesso mancano i fatti, e la trama è quasi inesistente, si sente fortissimo quel fatto che è la vita. In un certo senso Grace Paley non aveva bisogno dei fatti e poi sosteneva che la trama in un racconto uccide la speranza e lei non voleva toglierne ai suoi personaggi. Dietro la scorrevolezza apparente della scritura, dietro il suo linguaggio chiaro, semplice, concreto i suoi racconti nascondono un grande lavoro letterario. Tanto che la sua produzione è relativamente limitata. Vero è che Grace aveva molte altre cose di cui occuparsi, e attivamente, nella sua vita. Femminista e pacifista, entrambe le militanze molto attive e niente affatto pacifiche, la Paley ai tempi della guerra del Vietnam girò il mondo in missioni di pace e di protesta e in campagne di stampa. Portò il suo sostegno ai disertori e le sue proteste per la politica del suo paese in giro per tutti gli USA. Fece anche sei mesi di prigione per aver steso assieme ad altre dieci donne una bandiera contro il nucleare, sul prato della Casa Bianca. Era indomabile, una donna riccetta e piccina sempre sorridentemente incazzata.
Quando i grandi critici presero a rimproverarle la scelta di non dar vita ad un vero, importante romanzo, Grace Paley rispose di preferire il racconto perché “l’arte è troppo lunga e la vita è troppo breve.” Aveva due figlie, un marito molto amato, un padre di cui si prese cura fino alla fine. Una donna come molte altre. Solo che scriveva. -Scrivo quando ne ho voglia- diceva. -Scrivo nella metropolitana.-
Ma su quello che scriveva tornava e ritornava. Inseguiva un’idea precisa di ritmo e di tono, quel ritmo e quel tono che rendono un suo racconto semplicemente inconfondibile.
Nella sua visione della vita non c’è sentimentalismo alcuno, ma neanche cinismo.
C’è fede nella vita e nel cambiamento. Un suo straordinario personaggio, impossibile da non amare, è Faith Darwin: è convinzione comune che sia il suo alter ego. Io amo sia Grace che Faith.

Grace Paley “Piccoli contrattempi del vivere-Tutti i racconti”.
Einaudi 2002

quasi haiku

solo la lampadina
fulminata
rivela l’alba
all’insonne
che legge.

sabato 25 agosto 2007

spigolando

Qualche volta, per chiudere la giornata con un sorriso, sia pure amaro, mi rileggo qualche pagina di Ennio Flaiano, le cui opere sono collocate strategicamente accanto al mio letto.

Ieri sera ho appuntato queste inezie.

due cose
Due cose sono utili
all'industria culturale:
il poeta che tace
e l'aumento di capitale.

Due cose sono utili
al poeta che tace:
il boom dei romanzieri
e la noia della pace.


artisti
Oggi lo scrittore non vive in camere mobiliate
né scrive sui tavolini dei caffè
né passa i mesi d'estate solo nel suo quartiere,
come Campana, Barilli, Cardarelli.
Oggi lo scrittore ha ben altri modelli.
Oggi lo scrittore se va in giro la notte
non è per placare la sua antica malinconia
ma per portare a spasso uno del gruppo Agnelli.
E si arreda la casa come una volta le cocottes
perché riceve molto e fa tanto Truman Capote.


pace
Un pittore impegnato
qui giace
morì scrivendo sui muri: Pace


nevrosi
Chi vive nel nostro tempo raramente sfugge alle nevrosi.
Per vivere bene non bisogna essere eccessivamente contemporanei.


E adesso vado per more.

venerdì 24 agosto 2007

opre femminili

Comunicazione di servizio: in questi giorni mi dedico alle “opre femminili”. Ovverosia cucino per la mia dispensa.
Ho iniziato con le marmellate. Per ora ho fatto quella di fichi e quella di pesche.
Se sabato ai Castelli coglierò abbastanza more, farò anche quella di more. Vorrei fare anche quella di melone, perché mi piace fare qualche cosa di nuovo.
A seguire preparerò il Ketchup, le erbe sottosale e il pesto.
Non farò i pomodori pelati, perché quella stagione della mia vita è finita per sempre. Grazie a dio mi sono affrancata da quell’ ambizione smodata.
Sono incerta su melanzane e peperoni sott’olio.
Quello che invece farò sicuramente sarà il dado per il brodo, sia di carne che vegetale.
E poi si vedrà.
Andrò dove mi porterà la fantasia.

Tutto questo per dire che in questi giorni scriverò poco, un po’ alla scappa e fuggi.
Ma voi restate nei paraggi, non scappate.

save Pegah Emambakhsh

Amici, un post al volo.
Forse conoscete la storia di Pegah Emambakhsh, la donna iraniana accusata di essere lesbica, e fuggita dal suo paese dopo che la sua compagna vi era stata arrestata, torturata e condannata a morte per lapidazione. (la sentenza non si sa se sia stata eseguita). Pegah si è rifugiata in Gran Bretagna, ma ora il Governo vuole rinviarla in Iran perché non ha saputo offrire le prove di essere lesbica (Sic). Doveva partire verso il suo destino di morte il 23, si è riusciti a rinviare l'espulsione al 28, ma occorre esercitare ulteriore pressione sul Governo Inglese.
Se volete potete indirizzare il vostro appello a savepegah@hotmail.com, con oggetto save pegah
Per avere più notizie: open-mind.noblogs.org/post/200708/22/chi-vuole-il-sangue-di-pegah-emambakhsh-la-deportazione-di-pegah-prorogata-al-28-agosto

giovedì 23 agosto 2007

Tu mi dai il male

Ho letto, finalmente, “Tu mi dai il male” di Susi Brescia. Seguendo il consiglio appassionato di Donnigio. E lo ringrazio per avermene parlato.
Il libro racconta la storia atroce di Marie Trintignant e Bertrand Cantat.
Lei, attrice, figlia di Jean-Louis Trintignant, lui, cantante e leader dei Noir Desir, gruppo rock francese. Belli, famosi e innamorati.
Ma Marie Trintignant è morta a 40 anni nell’estate del 2003, dopo essere stata percossa dal compagno. Bertrand è stato riconosciuto colpevole di omicidio e condannato ad otto anni di prigione dal Tribunale di Vilnius, in Lituania, dove la tragedia ha avuto luogo.
Nel libro Susi Brescia ricostruisce l’intera vicenda collocandola all’interno di un piccolo romanzo. I due si amano, un amore come un rapimento, ma Marie ha una complicata storia di altri uomini e mariti e figli mai lasciatasi alle spalle e ancora presenti nella sua vita quotidiana. Quanto a Bertrand, lui taglia con la moglie ogni ponte poiché Marie vuole così. Ma escludere anche i figli dalla sua vita lo amareggia. In una notte in cui probabilmente entrambi hanno bevuto, una reciproca gelosia e rabbia sembra far deflagrare la razionalità elettrica dei due artisti. Lei si scaglia su di lui, si accapigliano e Marie è colpita da Bertrand con quattro manrovesci potenti. Marie entra in coma. Morrà, dopo una notte in cui le diverse persone accorse sul luogo del dramma, non capiscono il suo stato e non la soccorrono. Bertrand è distrutto da rimorso, colpa, dolore. Condannato, fa la sua galera mentre sulla sua vita e sulla morte di Marie si monta tutto un carrozzone, in cui c’è chi specula, chi recita, chi si accapiglia, chi si accanisce. Anche questo aspetto è orribile.
La storia sembra lineare. C’è un uomo che ha ucciso una donna picchiandola.
Susi Brescia insinua in noi il dubbio che questa storia sia diversa da altre storie di uomini che picchiano e uccidono le loro donne. Ricostruisce per noi la storia di quell’amore e soprattutto il clima di quella sera tremenda, al termine di una giornata in cui entrambi erano stati sottoposti a pressioni fortissime. Alla fine del libro molte domande mi agitano. Che cosa conta in questa storia? Che Bertrand sia un artista, poeta e musicista? Che amasse Marie? Che non volesse ucciderla? Che Bertrand senza Marie si senta perduto? Che da subito si dichiari colpevole, ben oltre la colpevolezza che i tribunali gli attribuiranno? Di una colpa di cui lui solo conosce il peso? Colpevole sì, ma non di aver voluto uccidere. Questo dice Bertrand. Io gli credo. Quattro manrovesci violenti, dice Bertrand e lei è caduta. Ed era stata Marie a scagliarsi su di lui, la loro era una vera lotta. Io gli credo. Ma qualcosa di duro resta in me. Perché ci sono comunque quattro manrovesci in più. Eppure io sono dispiaciuta anche per Bertrand, non credo che uscirà mai veramente da quella notte tremenda.

In occasione di un’altra storia analoga che ora non ricordo, (sono davvero troppe) mio marito osservava che la cosa terribile della nostra specie, solo della nostra specie, è che il maschio della specie può uccidere con la sua nuda forza, senza arma alcuna, la femmina della specie. Il maschio della specie può uccidere con la sua sola forza la femmina della specie. La semplicità lineare di questa considerazione (la linearità è una delle caratteristiche più preziose del pensiero di mio marito) non è arrivata alla coscienza dell’uomo. Non arriva fino in fondo alla coscienza dell’uomo. Quello che penso alla fine del libro (e lo capisco ora) è che anche nella coscienza di un artista, nella sensibilità di un artista, quella consapevolezza non è giunta. Perché una consapevolezza profonda significa “tabù” e il tabù non ammette eccezioni. Questo è quello che hanno pagato, Marie con la sua vita e Bertrand con quello che gli resta della sua.

Nel suo post di qualche tempo fa’ (e al quale devo la scoperta dei Noir Desir e del talento di Bertrand) Donnigio si chiede se “la pietà e il perdono e la compassione non appartengano al genere umano.” Parlava di pietà, perdono e compassione per Bertrand perché quelle per Marie le considera, giustamente, dovute. Non nel senso di banalmente scontate, ma nel senso di vere e semplicemente umane. Di questo sono sicura. Prima di scrivere questo post io mi sono seriamente interrogata sui miei sentimenti verso Bertrand. Non mi dispiace se Bertrand riprenderà il cammino della sua vita, tornerà a suonare e cantare. Non sento il bisogno di saperlo in galera. Sono contenta se la vita di Bertrand tornerà ad essere una vita.
Ma se penso a Marie qualche cosa vibra diversamente dentro di me. Marie io non la conoscevo, non sapevo neanche che Trintignant avesse una figlia attrice. Ma provo dentro di me un senso fortissimo di ribellione e di rabbia. E di dolore per lei.
Sì, è vero sono dispiaciuta anche per il dolore di Bertrand, a cui credo, ma in un modo diverso.
Lui resta per me solo un uomo che ha commesso una cosa orribile, ha pagato ed ora ha il diritto di ricostruire la sua vita. Io non gli contesto questo diritto. Dirò di più, io sono contenta se la vita tornerà ad essere buona con lui. Ma fra me e lui resta un velo, la pellicola sottile della razionalità. Invece se penso a Marie ecco, sono proprio presa da un brivido, sono le mie viscere che mi fanno male e non ho altro modo per dirlo.
Ti farò una confessione, Donnigio, che dato il mezzo è quasi una pubblica confessione: sono incapace di vendetta, lo sono davvero, ma non so esattamente che cosa significhi perdonare. Se significa che dentro di noi la rabbia e il rancore si sono sciolti per sempre, allora no, Bertrand non l’ho perdonato. Perché se penso a Marie la rabbia mi risorge uguale dentro. Se invece perdonare significa non solo non cercare, ma neanche desiderare il male della persona colpevole, pur conservando dentro di sé, fortissimo, il senso dell’offesa ricevuta, allora forse posso dire di aver perdonato Bertrand.
Ecco Donnigio, questo è il groviglio in cui mi hai messa.

a parte

Quello che aggiungo adesso è un appunto che avevo preparato la scorsa settimana e che volevo sviluppare, ma mi accorgo che non c'è bisogno di aggiungere niente.

Nel corso della trasmissione “W l’Italia diretta” su Rai 3 di martedì scorso, dovuta al lavoro prezioso di Riccardo Jacona e della sua equipe di bravi ed appassionati giornalisti, la Ministra per i diritti e per le pari opportunità, Barbara Pollastrini, ha diffuso gli ultimi dati relativi alla violenza sulle donne in Italia. Uno di questi è semplicemente agghiacciante.
La prima causa di morte per le donne italiane tra i 16 ed i 44 anni sono le percosse.
Non il tumore, non gli incidenti automobilistici, ma la violenza di un uomo.
Nel 90% dei casi l’uomo era o era stato il partner della donna.
Nel 2006 ogni due giorni è stata uccisa una donna italiana e 7 al giorno sono quelle che subiscono violenza sessuale.
Nel primo semestre del 2007 si registra già una crescita del 22%.
I dati dell’Istat coincidono con quelli dell’osservatorio europeo sulla violenza sulle donne. Giustamente in Spagna si parla di femminicidio.
A me sembra una grave emergenza nazionale, un fenomeno sul quale la società intera deve interrogarsi e che il Governo deve porre all’ordine del giorno con una priorità assoluta. Assoluta.
Aggiungo anche che non c’è una sola forza politica italiana, dentro o fuori dal governo, dentro o fuori dal Parlamento, che faccia sentire la sua voce su questo tema.

mercoledì 22 agosto 2007

ineffabili

Ho casualmente incontrato un’amica di vecchia data. Aveva fatto variopinti acquisti nei pressi di Piazza Vittorio e, un po’ affaticata, li portava alla sua macchina. L’ho immediatamente liberata di ogni peso e me ne sono caricata io. Perché?
Perché si tratta di una ineffabile.


Le ineffabili sono quelle donne cui la natura ha dato una bellezza luminosa fino a diventare abbagliante. Una bellezza che si impone ma non aggredisce. Il che fa sì che incanti anche le altre donne. Una bellezza che soggioga. Uomini, donne, bambini, cani, oggetti persino! Le ineffabili sono quelle donne che camminano per il mondo con una sicurezza inalienabile, indossata come una seconda pelle. Forse come la loro vera pelle.
Passano attraverso i piccoli e grandi cataclismi del mondo sapendo che niente offuscherà i loro progetti, perché qualcuno si sarà occupato di metterli al riparo.
Se piove, qualcuno le coprirà con un ombrello e se si soffoca dal caldo, qualcuno offrirà loro un posto all’ombra. Se una valanga vien giù, i Vigili accorreranno a salvarle in priorità. Se un cecchino spara da un tetto, si premurerà di evitarle. Se una ineffabile decide di ridipingere la sua casa, più di uno si offrirà di farlo per lei. Lei non lo avrà chiesto, si sarà limitata a desiderare. E’ solo questo che chiediamo ad una ineffabile: comunicarci i suoi desideri per quando non riusciamo a intuirli. Questo è il suo apporto alla relazione e noi gliene siamo grati. Le ineffabili sono creature la cui calma è olimpica perché sono delle dee e come tali il mondo le riconosce.
Io subisco il fascino delle ineffabili come chiunque altro. Forse dovrei invidiarle, ma non posso. Al contrario, come tutti, mi adopero perchè la loro vita scorra il più fluidamente possibile. So riconoscere una divinità, quando ne incontro una.

Qualcuna potrebbe obiettare che donne così non esistono. Che ogni donna ha la sua piccola insicurezza, la sua ansia, la sua linea di frattura.
In effetti questa è la regola, ma come tutte le regole anche questa ha la sua eccezione e l’eccezione è costituita dalle donne ineffabili. Non sono molte ma esistono.
Io ne ho conosciute almeno due e di una di loro voglio parlarvi. La chiamerò S.


ATTO PRIMO
Roma tra il ‘70 e il ’75.
Manifestazione probabilmente non autorizzata, non ricordo bene. Massimo casino. Carica della polizia, fuggi fuggi.
Ma anche lancio di sanpietrini, anche molotov e lacrimogeni.
Mi sembra di ricordare che era la manifestazione in cui qualcuno assaltò l’armeria presso Ponte Sisto.
Situazione di stallo, un piccolo gruppo resta preso alla fine di via dei Giubbonari, presso il cinemetto di piazza Farnese. Si aspetta che torni la calma, ma non ci si può muovere. Vola un po’ di tutto, cassette della frutta, bastoni, c’è fumo, spari.
Io non sono propriamente una fifona ma le manifestazioni mi piacciono ordinate e pacifiche, muscolari anche, ma penso che gridare le proprie ragioni e anche la propria rabbia sia sufficiente. In più non mi piace che mi si usi come massa da manovra.
Comunque mi trovo lì nel gruppo.
In queste situazioni l’istinto della chioccia avvampa in me, comincio a tenere il conto di tutte le persone che mi sono care e che si trovano nel corteo, le controllo, le tengo d’occhio, le chiamo, mi assicuro che ci siano tutte e tutte in buone condizioni.
Anche in quella circostanza faccio così, con tutto il mio istinto di protezione all’opera. Ad un certo momento mi accorgo che all’appello manca S.
Il cuore mi salta un battito. Signore dov’è S? che cosa è successo a S? Comincio a chiedere in giro. Nessuno mi ascolta, nessuno sa nulla, io sono prossima al panico. La immagino riversa da qualche parte, colpita da un candelotto o da un sanpietrino o arrestata.
Ma non posso muovermi. Continuo a scrutare intorno a me sempre più agitata e poi improvvisamente la vedo uscire da una piccola macelleria sulla piazza.
S. è una ragazza bellissima, sfiora il metro e ottanta, è magra, slanciata, ha lunghi capelli neri e una pelle bianca perfetta, lunghe gambe, un viso aristocratico, grandi occhi neri. S. è semplicemente perfetta.
Una ineffabile. Ed ecco, S. viene verso di me, tranquillamente, il sorriso fresco, le belle spalle dritte, i jeans arrotolati alle caviglie sottili, la maglietta bianca a v, avanza con la grazia e l’eleganza di sempre. Resto come incantata: è S., è come è sempre stata, è sana. S. passa tra il fumo, evitando con grazia i rottami a terra.
Tra le mani tiene un pacchetto.-Ma dove eri? che ti è successo?-
-Ero andata a comprare un po’ di carne tritata per la gatta.-
Ecco: ineffabile.


ATTO SECONDO
Prima notte a Città del Messico. Mia sorella, S. ed io.
Non abbiamo prenotazione e capitiamo in un albergo un bel po’ dimesso.
Saliamo nella nostra camera: è meno che dimessa. Le lenzuola sono grige, il terzo letto affonda a sedercisi sopra, uno scarafaggio fugge precipitosamente di fronte a noi.
Si dà il caso che mia sorella non abbia paura o orrore degli scarafaggi, molto semplicemente non può coesistere con uno scarafaggio (giorni dopo, ormai nello Yucatan, dormirà ad occhi aperti, letteralmente, nell’ansia di dover controllare la presenza di scarafaggi nella stanza, facendomi prendere una paura spaventosa).
Intanto S. ha fatto la doccia, ma decidiamo di cambiare albergo, questo è anche un po’ sordido, non ci piace.
Fatti i bagagli scendiamo e al banco comunichiamo la nostra decisione.
Ne nasce una discussione. Loro vogliono farci pagare una notte perchè è stato usato il bagno, noi ci rifiutiamo, loro si rifiutano di consegnarci i nostri documenti.
L’aria si fa rapidamente pesante, discutiamo animatamente.
Ad un certo punto riesco a mettere le mani sui documenti e ci avviamo in fretta all’uscita. Loro minacciano di chiamare la polizia, io dico che sarò io a chiamarla.
Un po’ strattonata, un po’ sospinta riesco ad uscire. Mia sorella parte in cerca di un taxi. Ma S.? Oh Signore, hanno trattenuto S.!
No, mentre mi batto contro i messicani S. è lì dritta e svettante, sulla soglia dell’albergo, ai piedi ha la sua valigia di cuoio e in mano tiene il suo beauty case. Guarda serena davanti a sé nella notte, ignorando la contesa.
Mia sorella arriva con il taxi, io mi ci butto dentro col mio bagaglio mentre i messicani tentano di trattenermi.
Ma S. no, lei consegna elegantemente all’autista valigia e beauty case perché li metta nel portabagagli e sale tranquilla sul taxi, mentre attraverso il finestrino i messicani continuano ad insultarmi. Quanto a lei nessuno si è nemmeno sognato di disturbarne l’uscita di scena.
Ineffabile.

ATTO TERZO
A New York, S. ed io.
Siamo arrivate in giornata da Roma, lei, hostess dell’Alitalia, ripartirà l’indomani mattina. Ora dobbiamo ritirare dei volantini alla sede del movimento per i diritti delle donne. Nell’indicarci l’orario, un classico 9-18, ci hanno però raccomandato di andare in mattinata. Sono le 5 del pomeriggio, ma S. domani vuole riportare con sé i volantini in Italia.
Così andiamo subito. Dalla Quinta Avenue, basta fare due passi all’interno e ci troviamo in un mondo completamente diverso: una strada tranquilla, palazzi di ragionevole altezza, niente macchine.
C’è però una decina di donne, forse anche qualcuna di più, in gonne strette all’inverosimile e brandelli di magliette sui seni strizzati. Hanno enormi fiori di carta colorati tra le mani e subito li agitano nelle nostra direzione. Con ogni evidenza sono prostitute e con ogni evidenza scontente di vederci.
E’ per questo che ci è stato consigliato di andare al mattino.
-Lasciamo stare- faccio a S.- dai, diamo fastidio- S. tira diritto.
Le donne sembrano sempre più irritate, lanciano frasi in uno slang incomprensibile ma con un tono comprensibilissimo.
-Lasciamo stare- ripeto - vengo io domani mattina a prendere i volantini-
Ma S. li vuole ora.
Devo confessare che io subisco il fascino di S. come ogni altro vivente, dirle di no mi è praticamente impossibile. Ma l’aria è brutta, mi irrito per la sua testardaggine.
Le sibilo:- Guarda che possiamo sostenere il WWL anche senza farci menare dalle puttane di New York-
Loro, le puttane, vengono nella nostra direzione sempre più minacciose.
Io tento di fermare S., ma lei tranquillamente si dirige su una delle più arrabbiate. E’ una piccoletta nera, tutta muscoli e uno sguardo furioso.
Attendo l’ineluttabile, ma S., sorridente, serena, con la sua grazia solita, si china verso di lei dalla sua sovrana altezza e con entrambe le mani le prende le sue, che tengono un grande fiore arancio e gliele stringe e intanto nel suo inglese disincarnato le dice con calore:- You are so wonderful, so, so wonderful!-Sembra la regina d’Inghilterra.
La piccoletta è immobile, la guarda come incantata e intanto S. sale rapidamente i tre scalini ed entra nell’ufficietto. Io la seguo senza parole.
Quando usciamo le donne non fanno quasi più caso a noi e S. stringe tra le mani il pacco di volantini.
Ineffabile.
Per anni tra amiche abbiamo continuato a chiamare le prostitute “le so wonderful”.


S. aveva un compagno, G. poi divenuto suo marito, poi il suo ex marito e dopo un successivo matrimonio di S., il suo amante.
Era bello come e più di lei, e apparteneva al tipo del ragazzaccio. Anche il ragazzaccio è un tipo interessante, un giorno ve ne parlerò. Per ora vi anticipo solo che una coppia formata da una ineffabile e da un ragazzaccio è mi-ci-dia-le.

martedì 21 agosto 2007

scrivere/non scrivere

Marocco. Non ricordo esattamente dove.
Un vecchio si prende cura di un orto. Apre il rubinetto di una pompa. Con una piccola zappa apre un varco in un muretto di terra rossa e vi fa scorrere l’acqua. L’acqua avanza e allaga un primo rettangolo di terra. Il vecchio chiude il varco a monte e ne apre un altro a valle. E l’acqua placida passa nel nuovo rettangolo di terra e avanza così, da un letto di terra ad un altro letto di terra, allagando via via una serie di piccoli orti e dissetando le piantine verdi ben allineate.
Anche nelle valli di Bamyan, fra le gole dell’Hindukush, ho visto i contadini procedere nello stesso modo.
Una operazione così semplice, così calma e così ingegnosa.
Scrivere può essere un procedimento molto simile. L’acqua che ci germoglia dentro diventa fiume tranquillo e scorre sotto forma di parole.
Nei momenti più felici un varco si apre tra il pensiero e la parola e questa scorre sulla carta. E si procede così. Un pensiero dopo l’altro viene irrigato dalla parola, che lo esplicita e spesso lo restituisce più nitido, più chiaro, brillante talvolta come il verde di quegli orti.
Le pagine si riempiono piano piano, man mano che le parole si fanno strada.
Quando manca l’acqua siamo a secco. Tautologico ma vero.
Ma quei contadini, così lontani nello spazio, entrambi lavoravano all'alba.
Nel silenzio. Sceglievano l'alba perché la terra chiedeva loro questa piccola delicatezza, poter accogliere l'acqua in un momento di sete fresca. Ma io sono sicura che sceglievano l'alba anche per potersi dedicare a quel lavoro, di pazienza e concentrazione, nel silenzio e nella tranquillità. Nella solitudine anche. Talvolta l'acqua dei nostri pensieri, filtrando piano e colmandosi delle nostre parole, ci trova assediati dal giorno cacofonico, dalla pressione di mille istanze diverse. E sentirle, in quel momento, così estranee a noi, niente può. Siamo amareggiati ma impotenti. Così le parole pian piano si ritirano, scendono in qualche pozza profonda, da dove un giorno risaliranno. O forse no.

lunedì 20 agosto 2007

gioco aereo?

Pur nell'entusiasmo per la vittoria della Supercoppa, Francesco Totti, caro al mio cuore, ha mantenuto tutta la sua pragmatica tranquillità." Abbiamo dimostrato di essere una grande squadra- ha detto-adesso che inizia il campionato, rimaniamo con i piedi per terra."
Detto da un calciatore, che con i piedi in terra fa il suo mestiere, ne dimostra insieme l'intelligenza tattica e la visione del gioco.
Con affetto, per Francesco.

tremate...

Questo post è per voi illusi, smemorati, inconsapevoli, voi che oggi, 20 agosto, credete di percorrere una strada dolcemente in salita, verso il culmine di una gioia, di una felicità, di un’allegria ancora tutte da assaporare..
E invece no! La strada ha già toccato il suo culmine, il passo è già stato valicato, scende, la strada, lungo un piano inclinato che si lascia alle spalle sia la gioia che la felicità che l’allegria...
Le giornate, miei cari, si sono accorciate, le sere arrivano prima, le ore di luce stanno già contraendosi. Le ombre si allungano verso di voi.
Ufficialmente sarà estate fino al 23 settembre, ma i fichi che chiamerete settembrini sono già dolci, maturi al punto giusto.
Non c’è inganno, né tradimento, tutto è saputo e risaputo. Ve lo avevo detto, il 21 giugno, nel mio post ‘solstizio d’estate’. Ricordate?
No, non ricordate. O non avete letto. O avete letto e vi siete detti, ma che cavolo scrive ‘sta qua? Che ce ne importa a noi del solstizio d’estate?
Errore. Grave errore.
Ve lo avevo detto che quella specie di stasi, quel miracolo di equilibrio giorno/notte, sarebbe durato lo spazio di un giorno, una manciata di giorni, va, per essere generosi, e che con la notte del 24 giugno il sole avrebbe ripreso il suo cammino, apparentemente sospeso, per sorgere visibilmente sempre più a sud.
Ma non un commento. Nemmeno un “ricevuto”.
Male, molto male.
Pensavate forse che tutti i popoli della terra non fossero altro che ingenui, superstiziosi e mediocri osservatori? Che si dedicassero a festeggiare la notte del 24 giugno, così, per qualche sciocca fantasia improvvisata? E la chiesa cattolica secondo voi perché si sarebbe impadronita della notte delle streghe trasformandola nella notte di san Giovanni Battista? Per sport? Per ingenuità forse? Ingenui voi!
Se da millenni e per millenni gli uomini hanno intessuto riti e miti e leggende e tremori e stupori intorno a quella notte è perché sapevano e sanno quello che voi avete voluto dimenticare. Quello che pure vi ho detto chiaramente.
“Godiamoci questi lunghi giorni di sole prima che le giornate riprendano a declinare.
Lo faranno. Impercettibilmente ma lo faranno.”
Ebbene, lo hanno già fatto. Mentre voi sbadatamente cincischiavate con le vostre giornate, sprecandone un pezzetto qui e un pezzetto là, sbocconcellandole come un frutto alla fine di un pasto abbondante, loro, le giornate, si stavano pian piano accorciando.
Scommetto che non avete acconsentito a nessuno dei riti che vi ho proposto. Razionalisti, vero? Duri e puri, scommetto. Beh, è quello che credete di voi. Il razionalista vero, non si fa cogliere alla sprovvista dalla realtà. Le rende omaggio riconoscendola, senza ficcare il capo nella sabbia. Se veramente foste razionalisti avreste letto nel cielo quel che c’era da leggere e oggi questo post non vi coglierebbe di sorpresa.
Non negate, il brivido che vi ha percorso le spalle mi ha rigato il monitor!
Insistete? Quello che ho scritto non vi interessa, non vi riguarda?
Beh, lo avrete voluto voi. Ecco qua il mio vaticinio: stasera poserete la vostra testolina svagata sul cuscino e quando domani mattina aprirete gli occhi, SARÀ NATALE!

omaggio botanico

È morto Ippolito Pizzetti. Aveva ottantuno anni ed era il nostro più insigne disegnatore di giardini e paesaggi. Ma era soprattutto, per me, un maestro. Senza nessuna spocchia, nessuna pretesa, ha divulgato per decenni tutta la sua conoscenza in forma piana, semplice e riproducibile, su giornali e riviste. Io lo seguivo sull’Espresso e poi su Repubblica e naturalmente ho acquistato e letto, anzi studiato, tutti i suoi libri.
Il mio terrazzo è, in gran parte, suo figlio.
Un figlio un po’ scavezzacollo, con delle deviazioni che lui avrebbe severamente criticato. Ma la maggior parte di quello che ho imparato sulle piante e su come farle vivere, l’ho imparato da Ippolito Pizzetti.
Gli sono molto grata. Viveva a Roma e il suo terrazzo, di cui ci raccontava successi, sconfitte e meraviglie era esposto a sud come il mio. Perciò io approfittavo tre volte dei suoi suggerimenti: stessa città, stesso clima, stessa esposizione. Lui raccontava i suoi esperimenti e io mi cimentavo con lui. Umilmente, ma senza paura.
Tutti i miei successi di giardiniera li devo a lui, tutti gli insuccessi vanno addebitati a me. La cosa che più ci divideva era la coerenza paesaggistica. O meglio la mia incoerenza. Io amo occuparmi di piante perché amo vedere la vita affermarsi. Pertanto chiudo un occhio se la pianta in questione, che spesso ho salvato da situazioni di pericolo, non si armonizza, botanicamente e ambientalmente parlando, con le altre presenti sul mio terrazzo. Questo dispiacerebbe a Ippolito Pizzetti.
Perciò, per restare almeno parzialmente fedele alla sua lezione, ho creato sul mio terrazzo un piccolo angolo che io chiamo “virgiliano”, piante di sicura presenza romana nei tempi dei tempi: l’olivo, il ligustro, il mirto, la vite, l’alloro, il fico, il lentischio.
Nauralmente poi amo i colori, gli odori, i profumi, il rigoglio delle mie piante, ma il piaceree l'orgoglio che mi dà il cappero stentato fatto vivere attraverso tre-anni-tre di tentativi, scavando piccole nicchie nel muro di calcare per ricreargli un ambiente familiare, non me li danno neanche le decine e decine di gardenie che fioriscono da maggio fino ad agosto, né il gelsomino profumatissimo di Capo di Orlando.
Quella voglia tenace di vita del cappero è per me più dolce ricompensa di ogni facile trionfo rosaceo. Le due foto che inserisco non rendono giustizia al mio terrazzo e di conseguenza né a me né ad Ippolito Pizzetti stesso.
Ma la stagione declina, le piante hanno quasi tutte terminata la fioritura, alcune iniziano già la lenta marcia verso l’autunno. Ve le riproporrò al giugno prossimo nel loro massimo fulgore. Magari la tecnologia per quel giorno mi avrà messa in grado di trasmettervi anche i profumi. Inoltre come fotografa faccio pena.

domenica 19 agosto 2007

estate

Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore
-ci si risveglia come in un acquario-
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.
Vincenzo Cardarelli


Di poesie sull'estate ne sono state scritte a migliaia. Ne conosco anche di più belle, ma è l'insistenza di Cardarelli sull'opposizione luce/oscuramento che mi interessa. Per questo mi sono permessa di mettere in corsivo le parole che vi alludono direttamente o indirettamente.

di ritorno

Non so ancora se sono di passaggio o stabilmente rientrata.
Comunque per ora sono qui.
Contenta di esserci.
E di ritrovare tutti voi, scriventi e leggenti.

venerdì 10 agosto 2007

szszszszszszsz

Spesso
l’essenza
nasconde
il suo senso.

In assenza
di senso
ci si sente
spento.

Per assentire
all’essenza
bisogna
sentirla
dentro.

L’inezia
è solo
una traccia
per trovare
il senso
dell’essenza.
m.p.

quale vacanza?

Vacanza. Dal latino vacans, che è sgombro, libero, vuoto.
Vuoto. Forse è per questo che tutti si affannano a riempire la vacanza di qualcosa, di molte cose, di tutte le cose possibili. Un po’ troppo di tutto è appena abbastanza per riempire il vacuo.
È quel vuoto che ci spaventa? Quel vacans che potrebbe inghiottire le nostre vite e privarle di significato? Inghiottire anche le nostre fragili identità e privarle di significato?
-Sono in vacanza e ora chi sono io? Non sono più il direttore generale. Sono nudo, in un calzoncino di cotone, un corpo né bello né brutto. Chi sono io?-
Vacanza. La città si fa vacante. Le vetrine si svuotano, i parcheggi hanno larghi spazi vuoti, è vuoto l’ufficio postale e si fanno vuote le strade con pochi indolenti refrattari. Fuggire dal vuoto.
Il vuoto ci fa paura. Vuoto è una parola vertiginosa. Non aspettiamo le vacanze per avere tempo vuoto davanti a noi, per noi. Le aspettiamo perché speriamo di avere un tempo diverso davanti a noi. Di diventare diversi noi. E quando ci accorgiamo che non siamo diversi, che non era l’accumulo di incombenze a fare di noi quello che siamo, alors là on craque.Vacanza. Riempire presto e come viene, il vuoto che ci piomba addosso.Riempire esagerando.
Il rossetto dev’essere più rosso, l’aperitivo più alcolico, la panna doppia, l'abbronzatura più scura, il portafoglio più gonfio.
Vacanza. Tappare la vacanza. La porzione più abbondante, la velocità doppia, più cose da vedere, più luoghi da visitare, il volume più alto, la risata più fragorosa. Tutto più, tutto di più.
Ma....
Vacanza. Silenzio. Supini. Un rumore smorzato di onde, un fruscio verde di foglie. Un libro. Una musica.
Una mano cara da stringere. Eppure è questo che vogliamo. Vacanza come riposo, come ritorno a un qualche luogo di noi, fracassato dalla quotidianità impellente in cui conduciamo le nostre vite.
Vacanza. Ah!
A presto.

giovedì 9 agosto 2007

estate

Io cammino al sole. Inverno ed estate io cammino al sole. Posso lamentarmi: che caldo! ma poi finisco per tornare al sole. Capita che mio marito ed io si cammini su marciapiedi opposti d’estate, perché lui necessita di ombra ed io necessito di sole.
Non è solo il semplice bisogno fisico di ricaricare la batteria del mio organismo (siamo figli delle stelle, no?) e neppure della sola condizione favorevole alla produzione di serotonina, che, come si sa, viene prodotta per lo più durante il giorno e in estate, quando aumenta la luce solare. Del resto dell’effetto benefico della luce solare sull’umore già Plinio il vecchio, Galeno, Ippocrate, Celso, avevano capito tutto. La ragione vera è che io sono un’ adoratrice del sole, animista e pagana. Non che io non senta il caldo, ma nel caldo, per quanto caldo, nell’ aria calda, asciutta e anche arroventata che circonda il corpo io mi trovo bene, mi dà un piacere vitale, mi sprona alla vita. Il freddo invece mi paralizza. Il freddo mi fa piangere. Lo temo, lo odio, lo disprezzo. No, non risulta che si possa disprezzare il freddo, ma io lo disprezzo. Io personifico anche il freddo, animista l’ho gia confessato, dunque posso disprezzarlo. Cosa credi di fare? Chi ti credi di essere? E poi, cosa vuoi da me? Stai tentando di uccidermi, lo so, lo sento. Ma io resisterò, resisterò. Ogni anno, d’inverno, viene il momento in cui penso che sto per estinguermi, che il freddo ha vinto e non uscirò mai viva da questa stagione orrenda. Mi succede a febbraio, a febbraio je craque. Un tempo a febbraio partivo. Me ne andavo a cercare il caldo altrove. Adesso mi chiudo in casa e attendo la mia fine. Rassegnata, pronta al peggio, disgustata. Lamentarsi del caldo, che fiacca, che sfinisce, che abbatte, è un topos. Come tale l’applico anche io e lo rispetto negli altri. Ma in fondo a me qualcosa dice: bada che senza caldo la vita non ci sarebbe. Una voce molecolare percorre il mio sangue. Io l’ascolto e le rispondo. Sì, è così. Grazie. A chi erigereste un tempio? Un altare? Ma al sole, è evidente! Io semplicemente ripercorro il cammino dell’uomo. Sono partiti tutti dall’adorazione del sole, gli uomini. Io immagino il loro terrore al tramonto, la domanda allora necessariamente muta: tornerà? O resteremo per sempre in questa notte terrorizzante e paralizzante? E il sollievo all’alba. Ogni tramonto il terrore, ogni alba il sollievo. Così per migliaia di anni... Così, se il sole imperversa, io non mi sento di maledirlo e anche sfuggirlo è una pratica un po’ carogna. Uno dei momenti di massimo, contraddittorio, quasi doloroso piacere vitale?

Ecco la ricetta.
Lasciare la propria 500 qualche ora parcheggiata al sole, finestrini chiusi. Quindi aprirla, scottandosi un po’ la mano sulla maniglietta rovente e penetrare all’interno. Chiudere la portiera. In un istante una vampa secca ti avvolge, circonda il tuo corpo come un abbraccio permeante. Caldo. Sotto la mano bruciante del caldo percepisci tutto il tuo corpo, lo senti vivo, senti di averne uno, reattivo. Molto reattivo dev’essere, perché già il volto ti si arrossa e se non apri presto i finestrini, l’abbraccio del caldo rischia di mandarti al creatore. Ma quei brevi momenti di fisicità calda sono stati la vita. È come riconoscere di che cosa siamo fatti. Memoria e piacere squisito.

mercoledì 8 agosto 2007

signori, mariateresa!






non è uno splendore? sì, lo è!

non sono io l'autore

Il post di oggi non è mio. E' della mia amica Mariateresa.
L'ho trovato controllando la mia posta questa mattina.
Riporto sia la mail di accompagno che il racconto accompagnato.
Lo adoro. E' il ritratto della mia amica. Intelligenza, umorismo, cultura, fantasia, creatività....
Altre doti (perché ne ha molte altre) sono o molto fisiche (la pelle, il seno, il sorriso ecc. ma ho scoperto con raccapriccio di non avere una sua foto con cui mostrarvele) o molto spirituali. E non c'è foto, Tac o risonanza magnetica che potrebbe mostrarvele. Solo avendo la fortuna di conoscerla di persona si possono scoprire. Fortuna che, sia pure con un po' di preventiva gelosia, auguro a tutti voi. Grazie Mariateresa. Per il raccontino, ma soprattutto, di esistere.
Bando alle ciance. Ecco qui di fila e-mail e racconto.



Cara Marina,

stamattina ho un regalo per te. Un "Racconto cretino" scritto ieri sera con tutte le parole "Ricorrenti" del tuo blog. Tutte. Non una di meno non una di piu'. Tutte in pochissime pagine.......Spero ti faccia ridere. Baci Mariateresa




RACCONTO CRETINO
Lo so. Ma ci voglio proprio provare ... voglio proprio vedere cosa ne esce a scrivere così, tutto d'un botto, un racconto che abbia un senso. Unica regola: la fantasia che unirà le parole chiave ricorrenti (e selezionate dall'autrice) nel blog Ineziessenziali. Ce ne vuole moltissima—di fantasia—per tirare a campare, lo sappiamo tutti. Beh, non ne verrà fuori un bestseller della letteratura questo è sicuro ma forse mi divertirò un poco e anche la mia depressione si distrarrà per un attimo.
Vi sembra un gioco? Infatti lo è e allora si parte (veramente ero già partita...).
Il sig. Giles Wolf si era stufato. Si era stufato di non toccare la vita. Si era trasferito dall'Australia (dove abitava, pur non essendovi nato, da moltissimi anni, talmente tanti ma quanti? Boh, lui è temporally- e spatially- e directionally-challenged, in altre parole, lui non si sa districare nelle categorie spazio e tempo)...vabbè chiudiamola 'sta parentesi. Si era trasferito dall'Australia a Roma per “toccare la vita” come diceva lui, e sperava di riuscirci frequentando i mercatini rionali, passeggiando in quei quartieri affollati di semplice umanità di cui questa città è piena, ascoltando la musica di questa lingua a lui all'inizio sconosciuta. Ma non c'era riuscito. Non sapeva bene cosa fosse questa vita di cui tanto sentiva parlare. Non era sicuramente lavorare, vivere l'amore, soffrire per la morte di qualcuno. Non era sicuramente amare gli animali, fare politica, andare a letto con donne spiritose e spitirose (sono quelle spiritose con le spine come le rose). Non era ... non era... non era starsene in cucina da soli a mangiare un'ottima mozzarella di bufala annaffiata da un ottimo vino d'annata (come si chiamava quel vino, mannaggia, quello che aveva sorseggiato quella volta che si era recato in viaggio al Parco Naturale del Vercors?... niente ... Mr. Wolf non se lo ricorda... era un nome tipo.. tipo... Orkeny... ma che stai dicendo, quello è Istvàn Örkény, quel buffo autore di racconti microscopici, vabbè, chissenefrega) [chiedo il nome di un vino al Bip, lui se ne intende di vini, gli dico: un vino che comincia con la O... e lui sputa: Ornellaia... ma io dico: Ornellaia non somiglia a Orkeny, come faccio adesso a far credere che a Giles (diamogli del tu a 'sto povero Mr. Wolf) venga in mente il nome Orkeny anziché Ornellaia? Uomini, non puoi mai far conto su di loro] rinuncio al nome del vino.
Insomma, Giles desiderava “vivere la vita” in modo pieno e profondo ma per quanto ci provasse tutto gli scivolava e niente riusciva a penetrarlo. Decise, allora, di parlare col Comandante; lo chiamavano così quello strano tipo che aveva conosciuto dai Dickinson una sera d'agosto che faceva un caldo ma un caldo e Roma era un forno. C'era andato perché i Dickinson—ai quali non piacevano le vacanze perché le vacanze sono per chi lavora e i Dickinson non lavorano ma vivono di rendita (oddio, veramente lei, Susan, era un soprano e, a volte, aveva pure tenuto dei concerti ma insomma non amava cantare ai concerti)—l'avevano invitato con tanta insistenza: “Vedrà, si divertirà, da noi ci si diverte sempre”. E allora era andato. Si era infilato il camicione bianco di cotone acquistato in Iran in uno dei suoi viaggi (viaggiava molto Giles, sempre per rincorrere la vita) ed era andato. Non senza prima prendere il libro che voleva portare con sé (aveva pensato che, se si fosse veramente rotto le palle, se ne sarebbe andato con una scusa e si sarebbe recato in qualche locale di Trastevere o di San Lorenzo, si sarebbe seduto ad un tavolino, avrebbe ordinato qualcosa da bere e si sarebbe messo a leggere finché non si fosse fatta l'ora di tornare a casa). Il nostro eroe (sì, perché chi cerca di dare un senso alla propria e altrui vita è davvero un eroe) stava leggendo Geolithology and provenance of materials of some historical buildings and monuments in the centre of Florence (Italy) di P. Malesani, E. Pecchioni, E. Cantisani e F. Fratini ed era arrivato alla descrizione di alcuni edifici di Firenze: “... The Palazzo Guidacci (13th–19th century), nowadays the location of the Banco Ambrosiano Veneto and private
homes, has common plaster and Pietraforte, with elements in artificial Pietra Serena and artificial Pietraforte...” Gli piaceva leggere di cose concrete più che di filosofia, religione, poesia, o psicologia. Era solo una questione di gusti. Vuoi mettere la solidità della pietra serena con l'aleatorietà delle questioni poetiche?
Insomma, fu lì dai Dickinson che conobbe il Comandante, alto, secco, di poche parole e poche espressioni facciali. Cinquant'anni più o meno. Il Comandante si chiamava Gianni Serianni—cor Serianni nun so' mesi ma so' anni—si diceva così nell'ambiente di sinistra da lui frequentato e che lo frequentava. Era un avvocato la cui fama, appunto, era quella di “nun so' mesi ma so' anni”. Ma continuavano a chiamarlo, ad affidare a lui le proprie sorti di imputati. Perché il Comandante sapeva sempre cosa dire, sapeva sempre qual era la cosa più appropriata, sapeva sempre cosa c'era da fare. Lo si intuiva al solo vederlo, così imponente.
Allora, Giles decise di andare a trovare il Serianni a casa sua (non c'era bisogno d'avvertirlo, lui era sempre in casa). Anche questa volta si portò il solito libro. Non si sa mai, pensò. Alla domanda di Giles su come toccare la vita, il Comandante non seppe rispondere, disse solo: “Stai giocando a tennis?” A tennis? No, cosa c'entra? Io odio il tennis e poi non saprei con chi giocare e dove giocare. Che idea... e questo sarebbe il saggio, quello che sa sempre cosa dire eccetera eccetera? Meglio che me ne torni al mio libro, meglio scrivere a Donna Clara di Donna Moderna, meglio darsi alla politica? No. Quello mai. Occhei, allora trovo una scusa: “Scusa, Gianni, ho una forte emicrania” e viaaaaa verso nuove avventure.
Baretto non meglio identificato a San Lorenzo (venendo dall'abitazione di Gianni, è più di strada per tornare a casa), Weißbier e libro: “... The Palazzo Guidacci (13th–19th century), nowadays the location of the Banco Ambrosiano Veneto and private homes, has common plaster and Pietraforte, with elements in artificial Pietra Serena and artificial Pietraforte. The building Canto dei Giugni, now used for dwellings and restaurants, consists of common plaster in the upper part of the...” sì, prego, prenda pure la sedia, non è occupata “...façade and Pietraforte in the lower part, with ornamental elements in Pietra Serena and Pietra Bigia. Palazzo Uguccioni (16th century), attributed to Mariotto di Zanobi Folfi, was built entirely in Pietraforte with Pietra Serena and common plaster...” Come? Assomiglio a Totti? No, mi spiace, non sono Totti ... né sono suo parente. But... this Totti, I think I heard this name, chi è?
La conversazione scorse leggera, si parlò di Totti et alii (cioè, altri giocatori che Giles non conosceva), di webcam, di gatti, di scuola, di Jacques Brel... e più parlava e più stava bene, più stava bene più parlava, uno scilinguagnolo... Il suo interlocutore (Orazio di nome e Campana di cognome, Orazio Campana) era un agente di viaggio ma, come William Hurt di Turista per caso non aveva mai veramente viaggiato, contentandosi di leggere storie varie di paesi lontani. Dopo un lunghissimo tempo si alzarono all'unisono, pronti a continuare a chiaccherare fino alla fine del mondo. Le strade erano deserte, la fine del mondo non doveva essere lontana. Ma Giles doveva fare pipì, non aveva pensato ad usufruire del bagno del barettononmeglioidentificato e ora... va bene, torniamo sulla terra, scambiamoci i numeri di telefono, ti va? Nooooo, che faccia hai fatto, Orazio, no, non sono gay, tranquillo. Acc... il libro, l'ho dimenticato sulla sedia del barettoeccetera, della serie “bookcrossing forzato”, ammesso e non concesso, of course, che qualcuno si voglia cibare il volume Geolithology and provenance of materials of some historical buildings and monuments in the centre of Florence (Italy) di P. Malesani, E. Pecchioni, E. Cantisani e F. Fratini. Allora, 'sto telefono? Ecco il mio... 347...
Giles torna a casa. Era la sera del giorno che aveva chiesto della vita al Comandante, la sera della sera che aveva conosciuto Orazio Campana, la sera della sera che aveva parlato di Gramsci con tanta leggerezza con uno sconosciuto. Occhei, pipì, bicchiere d'acqua, nanna.
È un altro giorno che comincia. Giles ha voglia di cioccolata, di cioccolata, di filastrocche e di scilinguagnolo. Tre vizi contemporaneamente. Forse forse forse... ma no, questo non è “toccare la vita”. È che la cioccolata è buonissima, le filastrocche fanno bene al cuore, lo scilinguagnolo fa bene a tutto il resto. Squilla il telefono. Ciao, sono Orazio, che fai 'sto pomeriggio? Ti va di giocare a tennis con me? Ho prenotato il campo ma la mia ragazza non si sente bene... vieni?
Bella coincidenza! Il tennis. C'è un certo umorismo in questa situazione. Giles odia il tennis. Sì, ha imparato a giocarlo ma non gli piace. Però si sente stuzzicato. E vada per il tennis, purché si continui a parlare, parlare, parlare di tutto e di niente, di Camus e di Afghanistan, degli animali in versi del Marcoaldi e di pizza al pomodoro, di Yourcenar e di arredamento. Orazio, Giles non ha mai conosciuto nessuno come te.
Si prepara al volo... nessun libro stavolta: scarpe da tennis, calzettoni, calzoncini bianchi, maglietta (dove la trovo tutta 'sta roba nell'armadio?); alla meno peggio siam pronti al match (speriamo porti una racchetta per me, magari quella della sua ragazza).
“Come si chiama la tua ragazza?” ping pong ping “Francesca, e la tua?” pong ping pong “Al momento sono single... come mai Francesca sta male?” ping “Veramente, non è che sta proprio male, è incinta e l'idea della maternità, a volte la fa uscire fuori di testa. Ha detto che oggi, (ping) piuttosto che vedermi e vedere la mia faccia da schiaffi (pong) preferiva sbracarsi sul divano in compagnia di Seneca.” “Però, che caratterino!”
Inizia lo scilinguagnolo. Orazio riporta una notizia sentita alla radio prima di uscire da casa: “Researchers have found they can use drugs to wipe away single, specific memories while leaving other memories intact. By injecting an amnesia drug at the right time, when a subject was recalling a particular thought, neuro-scientists discovered they could disrupt the way the memory is stored and even make it disappear.” Così, in inglese, perché Orazio ha una testa...ma una testa... Beh, non ci si crede, ma dove arriveremo, dico io... una medicina che ti cancella i brutti ricordi.
Vediamo, quale brutto ricordo cancellerebbe Mr. Wolf, se potesse? Beh, c'è quella volta, quella notte al Park Hotel Imperatore Adriano di Guidonia, era solo, manco si ricorda che ci stava facendo in quell'hotel a due passi da Roma, ah, sì, aveva bevuto troppo ad una cena ed aveva ritenuto più prudente non guidare. Nel bel mezzo della notte... un rigurgito, si stava strozzando mentre dormiva per un rigurgito notturno, acidi gastrici su per la gola, vomito tosse sputi occhi di fuori. Che orrore!
Oppure quell'altra volta, alla Jervis Public Library che si trova al numero 613 di North Washington Street, anche stavolta Rome ma Rome nello stato di New York. In quel caso non era solo, ero con Sylvie Cohen, la nipote “americana” di Moravia (sì, sì, quel Moravia). Lo avevano accusato ingiustamente di aver trafugato un libro (Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Effettivamente, lui era entrato per consultare qualcosa in quel volume, qualcosa per vincere (o perdere) una scommessa con Sylvie; effettivamente il volume risultava poi non rintracciabile ma lui non c'entrava proprio per niente. Una figura di merda, interrogatori, domande, supposizioni, un vero incubo.
Ma forse voi sperate che ci sia un finale in questa storia? Una risposta alla domanda di Giles sul come toccare la vita? No, mi dispiace, non c'è ... dato che non avete pagato il biglietto.

Mariateresa e Marina (lei ci ha messo 66 parole, io 1893)

------------------------------------------
Post Scriptum o Post "post": Il paradosso è che Mariateresa è convinta di non saper scrivere. In suo onore inuaugurerò una nuova rubrichetta dal titolo "paradossi".

martedì 7 agosto 2007

scuola/bidelle e bidelli

Parliamo dei bidelli, volete? Intanto dichiaro subito che non ho nessunissima intenzione di chiamarli altrimenti che bidelli. Politically correct o meno che sia. Il bidello è una Istituzione e alle istituzioni non si cambia nome sotto l’onda di una farisaica frenesia definitoria. Bidelli e bidelle dunque. I miei rapporti con i suddetti sono stati molto complessi. Da un lato di solidarietà. Pagati ancora meno degli insegnanti,già tenuti alla fame, conducevano vita grama. Dall’altro di irritazione e conflitto. Loro verso di me, io verso di loro. I bidelli ritengono che la scuola, intesa come edificio, sia di loro proprietà e che gli alunni (ma spesso anche i presidi e gli insegnanti) siano degli occupanti abusivi. Gente che sta lì per disfare il lavoro che loro hanno fatto. Anche se non sempre lo hanno fatto. Perché, invece di levitare, i ragazzi camminano, calpestando il suolo che loro hanno spazzato e, ma non sempre, lavato? Perché orinano nelle cinque ore di lezione invece di liquidare (battuta involontaria, giuro) la pratica a casa loro? Perché si siedono spostando i banchi, invece di calarcisi dall’alto lasciandoli inchiodati al posto che loro gli hanno dato? Perché talvolta a giugno avanzato hanno caldo ed aprono finestre che loro dovranno richiudere? E perché durante la ricreazione invece di smaterializzarsi istantaneamente, ridono e scherzano e fanno confusione come se fossero dei ragazzi e non delle pedine della dama? Allora lo fanno apposta! E quella rompiscatole della P. che cosa vuole da loro? Cos’è questa storia che i banchi vanno spolverati? Che ce le hanno a fare le maniche gli alunni? Compravo alcool ed ovatta e mi pulivo la cattedra e spesso anche i banchi. Intanto tentavo gentilmente di ottenere che i bidelli se ne occupassero. -Ci scrivono sopra- obiettavano. -Questo è un problema differente- ribattevo -lei risolva il suo, io mi occuperò del mio.- Che compagna sei? mi disse uno. -Tua no, se non fai il tuo lavoro-Certi bidelli passavano per le classi una mezz’ora prima della fine delle lezioni e invitavano gli alunni con necessità fisiologiche a soddisfarle immediatamente, perché poi avrebbero chiuso i bagni.Per guadagnare tempo lavavano i pavimenti della scuola alla quarta ora, mentre avrebbero dovuto farlo al termine delle lezioni. Non sempre era possibile accordare le due esigenze. Qualche vescica o qualche intestino si ostinava ad avere stimoli non coincidenti con gli orari di riordino della bidella. Apriti cielo! Il ragazzo veniva rinviato in classe fra gli urli e la bidella mi irrompeva in classe minacciosa. Non dovevo mandare i ragazzi al bagno dopo le 12 e 30! -Scusate un attimo ragazzi.- Uscivo furiosamente sorridente. -Non si azzardi mai più a rimandare in classe un alunno che ha bisogno di andare in bagno.- Lo fanno apposta dicevano loro, per dispetto-. Era anche vero naturalmente. Oppure delle volte i ragazzi chiedevano di uscire tanto per distrarsi un po’, perché erano stanchi di stare seduti, verso la fine delle lezioni. Quei pochi minuti fuori della classe me li restituivano più attenti e meno ciondolanti. Io facevo il mio mestiere, erano i bidelli che non volevano fare il loro. Ricorrevano al preside. I presidi hanno un timore sacro dei bidelli, mi sono sempre chiesta perché. Ne sono succubi. Io venivo quindi richiamata all’ordine. -Professoressa non faccia uscire gli alunni dopo le 12 e 30. -Non battevo ciglio. -Neanche in casi di estrema necessità, Preside? -Ma no, certo che no! che dice? -Ah, ecco, mi pareva.- Per cui al successivo: -Posso uscire professò? -Estrema necessità?- chiedevo io. –Estrema, professò.- Vai.
Quando la bidella irrompeva in classe ero categorica e falsa. -Mi dispiaceeeee, signora! Estrema necessità!-
Ma qualche volta in cui ero più nervosa o più stanca mi rifiutavo di partecipare alla commedia. -Allora, che problema c’è? -Investivo la malcapitata. -Il suo contratto stabilisce che lei pulisca i bagni al termine delle lezioni, non prima.- Lei rimandi indietro ancora una volta un alunno e io farò personalmente pipì nel bagno degli alunni tutti i giorni alle 13 e 35-. Era una battaglia risorgente. I bidelli per ritorsione passavano alla delazione. Dritti dal Preside: -I ragazzi fumano al bagno-.Il Preside mi richiamava. -I suoi ragazzi fumano in bagno. -Lei sa Preside che non posso entrare in bagno al seguito dei ragazzi, è la legge che lo esclude. Però potremmo installare dei sensori. In ogni caso Preside forse i colleghi potrebbero evitare di fumare in classe, così, per solidarietà. Che ne dice Preside?- Sconfitto.
Ma, tornata in classe, ai ragazzi facevo vuotare la tasche. Sequestravo sigarette e fiammiferi. Loro protestavano.
Non avevano mai una lira e quelle sigarette sequestrate gettavano a terra la loro economia. - All’uscita tutti intorno alla macchina- Ridaccele professò, ridaccele, dai.- Qualche volta, impietosita, le restituivo, qualche altra me ne accendevo una partendo. -Così impari a fumare a scuola.- I bidelli sono ottime persone ma la scuola non ne sapeva usare le energie e quelle inutilizzate si atrofizzavano fino al punto che i bidelli le usavano solo per mantenere costante la loro temperatura corporea. O per sbrigare faccende personali. Nella noia stupida delle lunghe ore senza far nulla, i bidelli si inventavano duemila attività alternative. Ho visto bidelle pulire le verdure a scuola, lavorare a maglia, o all’uncinetto, la più banale delle attività per una bidella; ma anche risuolare scarpe, riempire i cuscini di lana, ricamare, preparare bomboniere che poi vendevano, e fare marmellate su fornelletti di fortuna. Ascoltare la radio o leggere il giornale era la prassi, ma persone più fantasiose e creative, riparavano il loro ferro da stiro o altri piccoli elettrodomestici, rincollavano piatti rotti o, ho visto anche questo, tagliavano su quattro banchi accostati l’abito da sposa della figlia.
A forza di fare niente si facevano convinti che dovevano non fare niente.
Si sarebbero lasciati morire lì sulla loro sedia, non volevano fare più neanche un passo. Ho conosciuto un bidello che si rifiutò di portare nelle aule una circolare del preside perche non era camminatore!
Non che avesse problemi di deambulazione, semplicemente la sua qualifica escludeva il girare per le aule. E, benché non avesse praticamente niente da fare tutta la mattinata, la qualifica è la qualifica.
Naturalmente c’erano anche bidelle e bidelli che non solo si occupavano di tenere pulita la scuola, ma in più erano veramente materni con gli alunni, li confortavano quando venivano messi fuori dell’aula, quando si sentivano male, quando baruffavano fra di loro o i loro amori adolescenziali si spegnevano. Uscivano a comprare la pizza agli affamati o coprivano i ritardatari, preparavano le camomille per i mal di pancia e uscivano a comprare le aspirine: fluidificavano con poche mosse la difficile vita dell’alunno. Erano i miei alleati e spesso i miei informatori. Mi raccontavano le storie delle famiglie degli alunni, dandomi spesso la chiave per capire, di loro, qualche cosa di più. In ogni caso bidelli e bidelle, allora come ora, sono il vero potere nella scuola. I bidelli sanno tutto, nulla può sfuggire al loro sguardo bionico. Solo la polvere sui banchi, quella sì.