sabato 21 luglio 2007

sotto la protezione di buddha




Non si faccia confusione: la claustrofobia è una cosa( e mi appartiene), la paura del vuoto è un’altra cosa. Si chiama acrofobia e a differenza delle vertigini, che provocano la sensazione di “tutto gira”, ha un effetto paralizzante su chi ne soffre. Costui deve per difesa appiattirsi più che può al suolo, in attesa che l’attacco passi e che egli possa riprendere la posizione eretta.

E’ di acrofobia che soffre Armando, il nostro compagno di viaggio in Afghanistàn e la solidarietà che mi lega ad ogni fobico mi impone di narrare la sua esperienza per come effettivamente si svolse. Senza le fantasiose costruzioni di improbabili marinai mongoli.
Armando voleva tanto salire all’interno del Grande Buddha, insieme a tutti noi, e nonostante la moglie lo pregasse di desistere iniziò e portò gagliardamente a termine la salita. A quei tempi le fobie erano per me solo termini di greco antico e basta. Ma alle paure altrui sono sempre stata sensibile. Forse qualcosa mi diceva che dovevo guadagnare dei crediti finché ero in tempo. Salire sul Grande Buddha era un’impresa. All’interno del Buddha una specie di stretta galleria attorcigliata su su stessa partiva da un piede della statua e saliva per 53 metri verso la testa imponente, con gradini irregolari e mangiati dal tempo.

Affacciati dagli occhi del Buddha ci godemmo per un po’ lo spettacolo. Sia pure dal fondo della parete di roccia che costituiva l’occipite della testa del Buddha, Armando guardò assieme a noi il panorama. Ci preparammo quindi a ridiscendere. Fu allora che Armando, di botto, si sentì male e si lasciò scivolare al suolo rifiutandosi di rialzarsi e di percorrere anche solo un metro in piedi.
La moglie più che preoccupata era seccata per la sua testardaggine. Tutti noi un po’ lo esortammo, un po’ ci scherzammo su, un po’ attendemmo che gli passasse. Ma la situazione sembrava irrisolvibile e così si decise che Armando avrebbe fatto i 53 metri di discesa tutti sul suo sedere, ancorato per maggior sicurezza a due di noi che lo tenevano per le braccia. Sembrava un bambino che ancora non ha imparato a camminare e che si cimenta nella discesa di una scala. Era bianco e tremante e cercava di sorridere. Due uomini lo portavano e io gli camminavo dietro, rincuorandolo e contando per lui i metri che via via ci lasciavamo alle spalle. Era una specie di telecronaca sui generis: dai, Armando, siamo alla bocca, forza siamo al collo...
Ci mettemmo un tempo infinito, non solo perché continuamente lui ci implorava con dei “basta, basta!”, tentando di aggrapparsi alle rocce sporgenti o a qualunque appiglio per fermarsi, ma anche perché era impossibile non ridere. Pur nella comprensione per il suo terrore la scena era oggettivamente comica.
Arrivammo infine ai piedi del Buddha. All’aperto, ma raso terra. Bastò perché Armando riacquistasse colore e vita. Uno di noi, il vero cinico della compagnia, Luciano, scattò una foto durante la discesa. Benché poco riuscita è comunque interessante e un po’ macabra. Armando sta ad occhi chiusi e l’impressione che si ricava è che si tratti del trasporto di un cadavere.
Quando i Talebani hanno fatto saltare i Buddha di Bamyan perché esecrabili ai loro occhi di mussulmani fanatici, nel dolore per la perdita, per la storia pre-islamica di quel paese, di una così straordinaria testimonianza, mi concessi però un piccolo sorriso al ricordo di quanto filo da torcere avevano dato al povero Armando.
Che pure li rimpianse. L’ho incontrato infatti in occasione di un matrimonio e abbiamo ricordato assieme l’episodio. Dice che è stato l’attacco di acrofobia più grave della sua vita, ma che ne valeva la pena.
E' stato lieto di sapere che una organizzazione internazionale si sta impegnando nella raccolta di fondi per la ricostruzione, in tempi migliori, dei Buddha di Bamyan.
Intanto, dallo scorso giugno, un artista Giapponese, Yamagata, sta allestendo un complicato sistema di raggi laser che nella notte proietteranno sulle pareti della roccia di Bamyan le immagini dei due Buddha. Ho ricordato ad Armando che anche con le divinità e affini la vita è un do ut des: Buddha lo protesse allora, metta mano al portafogli e si adoperi per proteggerlo a sua volta.

8 commenti:

  1. Fantastico questo do-ut-des finale !

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  2. Acrofobia, il mio attacco è avvenuto nel Duomo di Christchurch (NZ) e sono scesa "en reculand" dalla parte della salita, con gli
    altri visitatori che protestano ancora ora....

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  3. dove? non conosco NZ?

    en reculand è carina assai

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  4. Nuova Zelanda, Marina....
    Un paese stu-pen-do che ti consiglio vivamente di visitare. Con calma però. Va visto tutto dal Sud al Nord.

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  5. Nuova Zelanda! Tu mi vuoi male! Ormai non potrei più stare chiusa oreed ore in un aereo.
    Ma a nuoto, forse....

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  6. ed ogni volta con i tuoi racconti viaggio anche io, non solo per il mondo ma anche lungo il tempo..con ironia. Meglio di così?

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  7. Mi chiamo Elda ed oltre 40 anni fa in Afganistan ci sono stata, dovrei andarmi a rivedere le centinaia di diapositive che abbiamo fatto all'interno del Budda per affermare che essendo tagliata la parte superiore del viso non c'era possibilità di affacciarsi, ma con assoluta certezza posso garantire che i 5 o 6 laghi di Band i amir sono a quasi 1000 metri sopra Bamian, a 3.500 mt circa, lì non ci sono laghi

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  8. ciao Elda, anche per me sono passati molti anni (35) e dovrei io stessa andare a riprendere le foto. Non mi sono posta il problema di verificare sulle carte i miei ricordi che, naturalmente, possono essersi mischiati. Lo verificherò con altri amici. Il mio scopo non è stato quello di dare informazioni quanto di ricostruire delle sensazioni: le tue osservazioni che verificherò mi fanno pensare di dover forse correggere il mio approccio.
    ciao e grazie della visita, marina
    PS se hai un blog lo visiterò volentieri

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