mercoledì 27 giugno 2007

professò/su e giù

Sapevano di fumo stantio, di formaggio forte e di umidità rappresa i pullman Zeppieri, erano sporchi, scomodi, vecchi, guidati da autisti sempre scontenti, in perenne conflitto sindacale con una proprietà che li spremeva come limoni.
Ma ci salivo all’alba con un senso di gratitudine. Mi sistemavo in uno dei vecchi sedili sformati e chiudevo gli occhi.
Il sonno arrivava subito e nel tepore di quella umanità stanca sognavo. Mi svegliavo riposata da quel supplemento di notte miracolosamente recuperato e pronta per le mie cinque ore di lezione. Eravamo una piccola comunità noi pendolari sulle strade della Provincia di Roma, ma al mattino ci sentivamo troppo insonnoliti per salutarci e poco disposti alla conversazione. Come saluto un cenno del capo e giù tutti ad appisolarci. Al ritorno io leggevo il giornale, correggevo dei compiti, o semplicemente guardavo passare dietro il finestrino la miracolosa campagna romana. Fu su un pullman Zeppieri andando verso Bellegra nel sessantasette che lessi che era morto Che Guevara, e su un pullman Zeppieri nella primavera del settantaquattro seppi della rivoluzione portoghese dei garofani. Ricordo i titoli e le foto. Il dolore e la gioia. Era molto prima dei riti e molto prima dei cliché. Il dolore e la gioia erano ancora veri, gli slogan non li avevano sommersi. E il Che non era il gadget più venduto del mondo occidentale. Sui pullman Zeppieri in quegli anni era possibile incontrare gli Inti Illimani.
Si sapeva che scendevano da uno dei Castelli Romani per andare negli studi di registrazione. Sedevano in fondo al pullman uno accanto all’altro e ripassavano i loro pezzi. Nessuno ci faceva un gran caso. Quanto a loro sembravano ignorare del tutto di essere diventati il fenomeno musical-politico di quegli anni. Non esisteva il divismo e gli Inti Illimani erano considerati compagni. Una volta anche io li incontrai. Era giugno, si tenevano gli esami di Licenza Media e in fondo al pullman che mi riportava a Roma gli Inti Illimani giocavano con i loro strumenti. Era il 1974, in Germania si giocavano i Mondiali di calcio.
Uno di loro mi chiese il giornale per leggere i commenti alla partita del Cile. Mi sorprese un po’ che tifassero per la loro nazionale. Io sono stata molto sciocca (suppongo di esserlo ancora) e in più li avevamo costretti del tutto arbitrariamente nel ruolo di accaniti oppositori di Pinochet. Così mi aspettavo che tifassero contro il loro paese.
Non ricordo quasi niente di quei mondiali, tranne che l’Italia e il Cile vennero sconfitti contemporaneamente. Se ricordo che fummo buttati fuori entrambi molto presto è solo per via degli Inti Illimani. Nel restituirmi il giornale il più bruttino dei cinque mi disse filosoficamente: non importa, tra quattro anni si rigioca. Riprese in mano il suo strumento a canne accostate e si rimise a suonare senza entusiasmo. Quando scesi al ponte Casilino salutai con un ciao il figlio del sole.
Hasta la proxima -mi rispose.Fui tentata di rispondergli-Hasta la victoria siempre.

Dopo la nascita di mia figlia, la mia giornata si accelerò. Avevo più fretta di tornare a casa. Smisi di prendere i pullman Zeppieri e cominciai a viaggiare con la mia 500. Ero imprudente senza rendermene davvero conto. Ma poi slittai in un giorno di pioggia sulla Casilina e dopo un paio di testa coda mi ritrovai sopra i binari della ferrovia Roma Fiuggi. Il trenino era passato da poco. Non mi feci proprio niente, tranne un morso alla lingua, non so come. Ma fu un’esperienza interessante.

Io Marina, illuminista e razionalista, dichiaro qui ufficialmente che mentre giravo come in un vortice ho davvero “rivisto la mia vita come in un film”. Per dirlo il più chiaramente possibile: davanti ai miei occhi scorsero velocissimamente infiniti fotogrammi che riassumevano la mia intera vita. Proprio come raccontano gli ospiti del Maurizio Costanzo show o di Uno Mattina. Non sento ragioni, che mi crediate o no, non ritratterò. Se gli studiosi del cervello non sono in grado di darne una spiegazione è un problema loro. Io so quel che so.

Una mattina mi fermai a prendere un caffè in un baretto alla Borghesiana. C’erano due, tre autisti Zeppieri. Uno di loro lo conoscevo. Mi disse: glielo pago io il caffè, professoressa, glielo devo-Me lo deve?- Gli infami scommettevano su quanto tempo sarebbe passato prima che mi “scatafasciassi” con la mia 500. Sembra che lui ci sia andato più vicino di tutti.
Mi feci pagare anche il cornetto. Ma soprattutto divenni più prudente. Non proprio quanto avrei dovuto forse, ma la puntualità nella scuola non è un optional. L’insegnante è responsabile penalmente di quanto accade in classe nella propria ora e la persona che sul momento si accolla la classe del ritardatario non per questo si accolla anche la responsabilità penale.
Questa lunga pratica della puntualità mi è rimasta infissa nel cervello come una ossessione.
La mia 500 è presto diventata una piccola corriera. A salire verso i colli portavo qualche collega e a riscendere ne portavo altri, secondo le coincidenze degli orari. Per qualche tempo portai con me al mattino il mio cane Buck. Gli lasciavo il finestrino della macchina aperto e lui gironzolava per la campagna mentre facevo lezione. Quando era stanco saltava in macchina e lì mi aspettava. Poi azzannò un paio di galline e mi fecero capire che non avrebbe avuto vita lunga. Dovetti lasciarlo a casa. Per protesta i primi giorni al mio ritorno mi fece trovare nell’ingresso tutto il trasportabile della casa, asciugamani, scarpe, cuscini, tutto ben bene “spisciazzato”. Ma poiché era un cane tutto sommato corretto sopra ci trascinava anche il rotolo di carta igienica staccato dal bagno con tutto il suo supporto. Per un periodo venne con me una collega di matematica che divenne una mia carissima amica. Era lesbica, il più nascostamente possibile. Nella scuola eravamo in due a saperlo come pure a goderci il racconto delle sue notti burrascose in locali molto off. Infatti, non era solo lesbica, ma anche un po’ troppo audace. Appena saliva in macchina si sistemava il più comodamente possibile per dormire. –Poi ti racconto-mi diceva e cadeva addormentata. Quando in macchina con noi c’era qualche altra collega o, come poteva capitare, la Preside, inforcava, estate o inverno che fosse, degli occhiali nero fumo, stampava un sorriso sulla bocca e fingeva di essere tra noi. Quando, scaricata la collega scendevamo dalla vettura mi chiedeva: si è capito che dormivo? Bhe, devo dire che non si capiva. Riusciva a dormire mantenendo inalterato il sorriso sulle labbra..
Le avventure capitatemi con la mia 500 sono talmente tante che mi è semplicemente impossibile anche solo prendere in considerazione l’idea di separarmene. L’ho vista in pericolo troppe volte e troppe volte ho trepidato per lei. È stata la mia sola automobile e lo resterà. Auto storica, sì. Del resto non lo sono anche io?

5 commenti:

  1. Molto, moltissimo dipende dal significato che vogliamo dare alla parola "storica". Già se togli una sola consonante cambia in stoica...ma tu come ti senti ad essere s-t-o-r-i-c-a ?

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  2. Intanto un cordiale saluto.
    Ripasserò a trovarti: io nel 1967 avevo tredici anni e tifavo (oltre per la Nazionale italiana, per Bob Kennedy e Martin Luther King)
    L'anno dopo, il 1968, un campionato Europeo di calcio ma due assassini che segnarono
    indelebilmente la mia vita politica: riformista e socialista. http://lucianocomida.blog.kataweb.it/il_ringhio_di_idefix/2007

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  3. E' stato bello viaggiare sulla tua 500 tra i tuoi ricordi. Grazie professoressa!

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  4. In 500 vi ci porterò ancora, ma guardate che per la benzina si divide! ;-)

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  5. ciao Anonimo Idefix, mi sembra che hai sempre tifato molto bene!

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Non c'è niente di più anonimo di un Anonimo