sabato 30 giugno 2007

in gita

Il ministro della Salute dello scorso governo, prof. Sirchia, in occasione del gran caldo, consigliò di accompagnare i vecchi nei grandi centri commerciali perché potessero trovarvi riparo dall’afa. Dev’essere per questo che alle undici del mattino mia figlia mi ha prelevata per accompagnarmi all’Ikea insieme alla mia amica emmeti. Prima di recarci all’Ikea però, forse per solidarietà, abbiamo accompagnato per qualche chilometro le migliaia di automobilisti che avanzavano incolonnati verso le autostrade. Ho apprezzato soprattutto le frequenti soste per ammirare capannoni in vendita e stazioni di servizio. Ma ad un certo momento abbiam pur dovuto abbandonare i nostri compagni di viaggio. Invece di prendere la strada diretta per l’Ikea, abbiamo preferito attraversare tutto l’asse viario di Roma Sud. Quando poi ci è parso che si fosse fatta l’ora giusta, le tredici, abbiamo finalmente imboccato la Tuscolana e ci siamo dirette all’Ikea. Dentro festeggiavano ancora il Family Day, ma senza bandiere bianche e gialle. Prima di dedicarci all’esame delle merci, abbiamo pensato di pranzare.Vassoietto, indefinibile pietanza e bevanda per ognuna di noi. Quindi sparecchiare e rassettare. La signora Ikea tiene molto all’ordine e le piace che i suoi clienti siano lesti e collaborativi. Mia figlia Francesca ed emmeti si sono quindi chiuse per una decina di minuti nell’acquario di due metri per quattro che la signora Ikea ha approntato appositamente per chi fuma. Mi ha un po’ sorpresa che i vetri non fossero oscurati perché chiunque, anche un bambino innocente avrebbe potuto vederle mentre aspiravano ed espiravano il fumo. Ho pensato bene di lasciare questo mio suggerimento nella cassetta della posta dei clienti. La signora Ikea ci tiene molto a che tutti noi si collabori per rendere la sua casa sempre più accogliente. Volevo suggerire anche di assumere una donna ad ore per sparecchiare al posto nostro, ma sembra che questo sistema ci consenta di risparmiare 0,5 centesimi di euro e allora ho dovuto ammirare la previdenza della signora Ikea.
Emmeti, Francesca ed io abbiamo pensato di costituire una piccola unità di reciproco sostegno e aiuto anti acquisti, per due ragioni fondamentali. La prima che viaggiavamo in tre nella mia 500 e di conseguenza lo spazio per merci varie era alquanto ridotto, la seconda che tutto quello che di utile può essere acquistato all’Ikea lo avevamo già acquistato in precedenti spedizioni. Rimaneva solo il manifestamente inutile e il nascostamente dannoso. Abbiamo riportato dei piccoli ma significativi successi lasciando sui loro scaffali diversi oggetti di inesplicabile uso ma molto, molto affascinanti, togliendoceli di mano l’un l’altra. Più di una volta però, mentre una di noi era intenta a praticare azione di dissuasione su un’altra, la terza ha dovuto far ricorso al self help, voltando bruscamente le spalle a lumetti a forma di mano con le unghie in polistirolo di cinque colori diversi o a scolapasta con sostegno estraibile incorporato per appoggio sul lavandino. Credo che si chiami Svenxst. O forse Skventss. Comunque tutto è andato per il meglio, anche perché quello che sentivo in coscienza di non dover acquistare l’ho regalato a emmeti e così ha fatto lei con Francesca e Francesca con me. Insomma siamo state generose e accorte insieme. Comunque quando siamo uscite, per l’ora del tè, eravamo molto soddisfatte di noi e delle nostre cinque buste Ikea. Prima di venir via Francesca ed emmeti hanno passato ancora una decina di minuti a fumare nell’acquario. Devo dire che a quell’ora dei vetri oscuranti non c’era più bisogno perché il fumo espirato aveva completamente saturato la piccola vasca di vetro, con un bellisimo effetto camera a gas. Ancora una volta la signora Ikea aveva avuto ragione. Il viaggio di ritorno è stato molto simpatico soprattutto perché Francesca ed emmeti mi facevano da ufficiali di rotta segnalandomi la distanza laterale dagli altri veicoli, la presenza dei marciapiedi, l’angolo da tenere nelle svolte a destra e sinistra. Quanto all’andar dritto, no, ho fatto tutto da me, avevo ben venti cm liberi di parabrezza proprio davanti agli occhi. Verso le sette dopo aver lasciato emmeti, mia figlia Francesca mi ha riaccompagnata a casa. L’ho ringraziata per la bella gita e le ho chiesto, per il prossimo giorno di caldo, che invece di portarmi dalla signora Ikea, mi uccida con il gas. Ha detto che si può fare.

venerdì 29 giugno 2007

filosofia sulla strada

A bordo della mia vecchia 500 mi fermo ad un semaforo a meno di un metro dall’auto davanti. Un motorino tenta di infilarsi tra le due vetture ma è costretto a desistere per mancanza di spazio. Nel tentativo però mi dà una bella botta al fanalino anteriore destro. Non me ne preoccupo più di tanto, la mia macchina necessita già di un intervento radicale alla carrozzeria. Ma mi dà fastidio che la ragazza alla guida del motorino mi si riaffianchi senza neanche un gesto di scusa. Mi chino verso il finestrino, lo apro e la chiamo con un'aria un po' ironica-signorina? Non faccio in tempo a dire di più -Ma che cosa vuole da me? -prorompe- corro da stamattina alle sette per lavorare. Che cosa vuole lei dalla vita mia?
-Per esempio che non mi scassi il fanalino?- vorrei dirle. Ma dà gas e s’infila agilmente tra la mia vettura e quella che mi precede, intanto avanzata di un poco. Non sono veramente arrabbiata. E rifletto un attimo alla mattinata di quella giovane donna. Avrà avuto l’eta di mia figlia, forse avrà un figlio, forse lo ha accompagnato all’asilo e ora sta andando a lavorare forse..
Sì, va bene, ma il mio fanalino?

Non più di dieci minuti dopo. Sono ferma ad un altro semaforo che sta per dare via libera. Mi si accosta un tipo malmesso -damme quarche cosa, i signori nun m’hanno dato gnente- e indica con un gesto largo le belle macchine intorno a noi. -So’ uscito da poco nun ce vojo tornà dentro.- Ma io ho solo fogli da 20 e pochi spiccioli. Mentre il semaforo scatta afferro il portamonete e scusandomi glielo rovescio in fretta sulle mani. Escono poche monete-mi dispiace -faccio- ho solo questi. Ma lui non sembra scontento. Mentre ingrano per partire mi lancia un incoraggiante -aò sei miserabile, ma sei grande!-Gli faccio un cenno di saluto con la mano. Mi grida ancora dietro-Ci siamo visti!-

Tipi della mia città.
Torno a casa dopo aver collezionato un complimento un po’ sui generis ‘miserabile ma grande’ e quella accorata domanda ‘che cosa vuole lei dalla mia vita?

Già. Che cosa vogliamo dalla vita degli altri?
Io sicuramente poco. Ho modeste ma chiare aspettative: che mi lascino in pace. Conducano la loro vita come gli pare e lascino me condurre la mia come pare a me.
Per il resto “ci siamo visti”.

giovedì 28 giugno 2007

postcomitato

I postcomitato sono la mia pena. Da ogni comitato si esce con qualche nuovo amica/o. Io ho una forte affettività. Se incontro persone che mi piacciono, il passaggio a voler loro bene è garantito. Ma. C’è un ma. I miei ritmi di socialità sono molto intervallati e quelli di convivialita non misurabili in tempi umani.
Un comitato elettorale prevede purtroppo molte future cene. Io odio andare a cena fuori. Già un pranzo mi turba ma una cena mi destabilizza.
Invitatemi a cena fuori e vi farete una nemica. Spostate a sabato la cena programmata per mercoledì perché vi ho detto che mercoledì ho un impegno e sabato inventerò una nuova scusa e se vi intestardirete ne ho già pronta una per giovedì prossimo e cosi via. Non potrete mai vincere con me a questo gioco. La mia fantasia è inesauribile.
Il fatto è che io cerco di salvare la mia pelle, poiché vivo un invito a cena come uno dei peggiori attentati alla mia serenità e al mio equilibrio psichico e quando ci si batte per la propria sopravvivenza si diventa spaventosamente determinati.
Io divido gli esseri umani in quelli che mi prendono come sono e quelli che mi vogliono far adattare alle loro abitudini di vita. I secondi posso anche amarli ma me ne terrò alla larga. Io credo molto al “vivi e lascia vivere” uno dei motti più citati e meno applicati. Io invece non lo cito mai (concedetemi questa piccola eccezione) ma lo applico sempre e mi aspetto che chi si considera mio amico lo applichi nei miei confronti. Se questo non accade io mi sottrarrò. Conserverò il mio affetto all’inadempiente, ma non mi vedrà più.
La radicalità di questa posizione viene molto criticata in famiglia.
C’è il rischio che, insistendo, i familiari stessi vengano da me ostracizzati.

comitato elettorale/due

Visto che Walter oh Walter si è affacciato torniamo ai miei ricordi di comitati elettorali.

Il primo sindaco che avevo contribuito a far eleggere, al termine del suo mandato si ricandidò, ma nel 1997 al comitato per la sua rielezione non partecipai. A parte che la vittoria era già certa e si discuteva solo circa la sua entità, battaglia quindi poco divertente, il candidato non mi interessava più. Diciamo sobriamente che non mi sentivo più di preparargli una crostata.

In occasione di una elezione i cittadini elettori si scatenano. E’ il momento della loro grande occasione, loro detengono il voto, il loro prezioso voto, libero, personale e segreto e lo useranno come arma di democratico ricatto. Telefonano o scrivono e propongono gli scambi più improbabili. Chiedono di tutto: un posto di lavoro, una casa, un titolo nobiliare, una comparsata in tv, un biglietto aereo per tornare in patria dal lontano Sud America, un abbonamento annuale al cinema, un permesso per parcheggiare sotto casa e chi più ne ha più ne metta.

Tra i tanti che si rivolgono ad un comitato elettorale ci sono poi i “casi umani” come la mia amica Luciana li chiama. In questo termine non c’è la più piccola ombra di disprezzo, significa solo che quegli altri, quelli del titolo nobiliare per intenderci, non ci sembrano veramente umani. Nell’ultimo comitato elettorale di cui ho fatto parte, sempre per la elezione del sindaco della mia città, ricevevamo e-mail a centinaia ogni giorno e a tutti rispondevamo. Quando Luciana riceveva una mail che le stringeva il cuore perché segnalava una situazione grave, dolorosa, disperata, (e in questi casi le persone non propongono affatto uno scambio voto/aiuto, cercano solo aiuto) me la passava dicendomi- guarda tu, qui c’è un caso umano-. Troppo sensibile per soffrire sul caso umano lasciava che ci soffrissi io. Il caso umano tentavamo di risolverlo, tentavamo tutte le possibili vie e quando dovevamo arrenderci non ci decidevamo ad archiviarlo. Ce lo palleggiavamo di scrivania in scrivania. Lo nascondevamo sotto agli altri casi, per non vederlo, ma ogni tanto risbucava fuori -oh dio, il caso umano!- Da questo punto di vista è atroce far parte di un comitato elettorale, sono troppe le storie dolorose in cui ti imbatti e la sensazione di impotenza può essere terribile. Non si riesce mai a risolverne più di qualcuna e sempre molte meno di quelle che si vorrebbe.

Però in un comitato elettorale si ride anche molto, si scherza, si spettegola, nascono amori, soprattutto si vive in uno stato di accelerazione che scaccia i propri problemi personali. Quando lavoro in un comitato elettorale io mi lascio assorbire totalmente dal mio incarico e mi dimentico di tutti. La mia famiglia diventa una pallida nebulosa molto lontana nello spazio e nel tempo di cui so a malapena che respira da qualche parte, ignoro in che modo si procuri il cibo, se cacci o peschi o viva di accattonaggio.

I comitati elettorali sono popolati di figure particolarissime. Molte solitudini cercano conforto nel clima ricco di varia umanità di un comitato. Persone che vogliono appartenere a qualcosa prendono a frequentare il comitato come se fosse il bar del paese, solo per esserci. I comitati elettorali attirano gli spostati come il miele le mosche. Ci tengo a dire che dico spostati con un certo affetto, considerandomi di mio molto spostata. Può comparire improvvisamente una donna che si dà da fare in giro, entrando ed uscendo dalle stanze con carte in mano che posa prima qua e poi là e nessuno sa chi sia, nessuno ne conosce il nome, nessuno le ha mai affidato il più piccolo incarico. Lei intanto si lamenta-tocca fare tutto a me-. Monopolizza un telefono al quale parla anche in assenza di linea. Quando decide che ne ha abbastanza ti chiede urbanamente se se ne può andare e tu stai al gioco, guardi l’ora e con una certa condiscendenza, le dici-va bene, vai pure- E intanto preghi perché non si faccia più vedere.

Nel mio impegno in un comitato elettorale sono sempre stata disposta a fare di tutto. Non ho mai avuto preclusioni di sorta. Scaricare volantini o scrivere testi per me è esattamente la stessa cosa. È la stessa cosa per molti altri, grazie a dio. Ci sono sì alcune attività che ormai mi stancano e cerco di evitarle ma solo per non offrire al candidato oltre al mio tempo anche la mia vita. Il volantinaggio agli angole delle strade l’ho eliminato dalle mie attività e lo delego ai giovani, ai banchetti sono ancora disposta a stare ma pretendo turni brevi e certi. E generi di conforto. In pratica lavoro all’interno del comitato.
Sei anni fa’ ho passato giornate intere al telefono a convincere i cittadini a recarsi al voto, non a votare per il mio candidato, ma semplicemente a recarsi al voto. Sempre al telefono fungevo da ultima spiaggia per interi quartieri furiosi per la mancanza di illuminazione o per la presenza di motorini abbandonati e intercedevo, con più o meno grazia, presso assessorati o enti municipalizzati vari. Io sono naturalmente sprovvista di diplomazia nella mia vita civile, ma divento subdola, ipocrita, falsa come Giuda quando si tratta di guadagnare un voto. Non mento platealmente, conservo una qualche moralità anche in periodo elettorale, ma altero, eludo, slitto, uso tutta la retorica e la dialettica appresa in una vita di buone letture. Ho una incredibile faccia tosta. Se ne avessi un decimo nella mia vita personale probabilmente la candidata sindaco sarei io.

Infatti, quando si tratta di voti, io divento di una avidità smodata. I voti non mi bastano mai, li voglio tutti fino all’ultimo, non sopporto di perderne neanche uno senza aver prima fatto di tutto per farlo mio. Alle ultime amministrative ricevevamo e-mail di ogni tipo. Ogni tanto comitati cittadini, gruppi di varia natura e origine, presentavano minacciosamente il loro problema al Sindaco e categoricamente ne esigevano subito la soluzione. Io contavo i voti a rischio e cominciavo a rivolgermi ai piani alti con la mia patata bollente. Capitava che loro stessi non sapessero che cosa fare e che mi suggerissero risposte elusive. Quando i cittadini tornavano alla carica con me, io tornavo alla carica a mia volta, e letteralmente non trovavo pace se non riuscivo a risolvere il problema. Quando poi la mia amica Loredana, donna di temperamento senza ulteriori aggettivi, mi diceva -basta! questi rompono per principio- oppure -questi provocano, oppure -questa storia è irrisolvibile -oppure -hanno torto- ancora tentavo di obiettare -ma qui ci sono trecento firme! Quelle trecento firme, quei trecento voti a rischio, erano come altrettante spine nel mio cuore politico. Quando poi Loredana mi chiudeva la bocca con un – e che votino quell’altro!- mi sentivo a lutto. Mi sarei personalmente recata sulla Tiburtina per deviare il percorso del raddoppio di carreggiata onde non lasciar fuori gli isolati di quei cittadini furibondi che minacciavano di negarmi il loro voto.
Per un voto sono capace di qualunque bassezza, siete avvisati.

mercoledì 27 giugno 2007

lingotto

Commentando il discorso di Veltroni al Lingotto, Antonio Di Pietro ha detto: ‘tutte le cose dette da Veltroni sono già nel programma dell’Unione’. E’ grosso modo vero. Peccato che il Governo non si sia ricordato di farle. Comunque, poteva Veltroni dire qualcosa di diverso? Le sue critiche, le sue riserve, le sue idee alternative (certamente ne ha) deve tenersele per sé, perché come lui stesso ha detto ‘il primo compito del PD è sostenere il Governo Prodi’. Io direi che Veltroni ha calato nel suo discorso il massimo del veltronismo possibile. Nei confronti del PD io ho da tempo un pregiudizio sfavorevole.
Divenuto nel corso dell’ultimo anno sempre più sfavorevole. Nei confronti di Veltroni ho invece un pregiudizio favorevole.
Ma i due non si annullano. Il pregiudizio sfavorevole nei confronti del PD resiste. Ma ne seguirò il cammino con un’altra attenzione. Veltroni è intelligente, tenace, esperto. Non è un ipocrita né un furbo. Al discorso sulla presenza paritaria delle donne crede davvero. Anche ai diritti per le ‘persone che si amano e che convivono’ crede davvero. E il tratto di rispetto reciproco e civiltà di rapporti gli appartiene in toto. Lo ha mantenuto in entrambe le campagne elettorali per l’elezione a Sindaco della mia città. Avendovi lavorato come volontaria potrei testimoniarlo. Come pure la testardaggine e il ritmo sfiancante che imprime alla giornata di chi lavora con lui. Ma potrei testimoniare anche piccoli gesti compiuti di slancio e mai voluti portare all’attenzione della stampa, né utilizzati in chiave elettoralistica. Non scriverò un santino per lui. Tutta la retorica sul suo buonismo non mi ha mai vista convinta. Ma è una brava persona che crede in quello che fa. E non è poco.
Walter ha detto: la politica è un viaggio collettivo. Forse non seguiremo la stessa strada ma io gli auguro buon viaggio.
Vorrei solo potergli chiedere: chi sono i laicisti esasperati? Ce l’hai mica con me?

luigi meneghello

Luigi Meneghello è morto ieri.Se volete leggere qualcosa di suo scegliete'Libera nos a Malo'. Se volete ascoltare la sua voce: http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/

professò/su e giù

Sapevano di fumo stantio, di formaggio forte e di umidità rappresa i pullman Zeppieri, erano sporchi, scomodi, vecchi, guidati da autisti sempre scontenti, in perenne conflitto sindacale con una proprietà che li spremeva come limoni.
Ma ci salivo all’alba con un senso di gratitudine. Mi sistemavo in uno dei vecchi sedili sformati e chiudevo gli occhi.
Il sonno arrivava subito e nel tepore di quella umanità stanca sognavo. Mi svegliavo riposata da quel supplemento di notte miracolosamente recuperato e pronta per le mie cinque ore di lezione. Eravamo una piccola comunità noi pendolari sulle strade della Provincia di Roma, ma al mattino ci sentivamo troppo insonnoliti per salutarci e poco disposti alla conversazione. Come saluto un cenno del capo e giù tutti ad appisolarci. Al ritorno io leggevo il giornale, correggevo dei compiti, o semplicemente guardavo passare dietro il finestrino la miracolosa campagna romana. Fu su un pullman Zeppieri andando verso Bellegra nel sessantasette che lessi che era morto Che Guevara, e su un pullman Zeppieri nella primavera del settantaquattro seppi della rivoluzione portoghese dei garofani. Ricordo i titoli e le foto. Il dolore e la gioia. Era molto prima dei riti e molto prima dei cliché. Il dolore e la gioia erano ancora veri, gli slogan non li avevano sommersi. E il Che non era il gadget più venduto del mondo occidentale. Sui pullman Zeppieri in quegli anni era possibile incontrare gli Inti Illimani.
Si sapeva che scendevano da uno dei Castelli Romani per andare negli studi di registrazione. Sedevano in fondo al pullman uno accanto all’altro e ripassavano i loro pezzi. Nessuno ci faceva un gran caso. Quanto a loro sembravano ignorare del tutto di essere diventati il fenomeno musical-politico di quegli anni. Non esisteva il divismo e gli Inti Illimani erano considerati compagni. Una volta anche io li incontrai. Era giugno, si tenevano gli esami di Licenza Media e in fondo al pullman che mi riportava a Roma gli Inti Illimani giocavano con i loro strumenti. Era il 1974, in Germania si giocavano i Mondiali di calcio.
Uno di loro mi chiese il giornale per leggere i commenti alla partita del Cile. Mi sorprese un po’ che tifassero per la loro nazionale. Io sono stata molto sciocca (suppongo di esserlo ancora) e in più li avevamo costretti del tutto arbitrariamente nel ruolo di accaniti oppositori di Pinochet. Così mi aspettavo che tifassero contro il loro paese.
Non ricordo quasi niente di quei mondiali, tranne che l’Italia e il Cile vennero sconfitti contemporaneamente. Se ricordo che fummo buttati fuori entrambi molto presto è solo per via degli Inti Illimani. Nel restituirmi il giornale il più bruttino dei cinque mi disse filosoficamente: non importa, tra quattro anni si rigioca. Riprese in mano il suo strumento a canne accostate e si rimise a suonare senza entusiasmo. Quando scesi al ponte Casilino salutai con un ciao il figlio del sole.
Hasta la proxima -mi rispose.Fui tentata di rispondergli-Hasta la victoria siempre.

Dopo la nascita di mia figlia, la mia giornata si accelerò. Avevo più fretta di tornare a casa. Smisi di prendere i pullman Zeppieri e cominciai a viaggiare con la mia 500. Ero imprudente senza rendermene davvero conto. Ma poi slittai in un giorno di pioggia sulla Casilina e dopo un paio di testa coda mi ritrovai sopra i binari della ferrovia Roma Fiuggi. Il trenino era passato da poco. Non mi feci proprio niente, tranne un morso alla lingua, non so come. Ma fu un’esperienza interessante.

Io Marina, illuminista e razionalista, dichiaro qui ufficialmente che mentre giravo come in un vortice ho davvero “rivisto la mia vita come in un film”. Per dirlo il più chiaramente possibile: davanti ai miei occhi scorsero velocissimamente infiniti fotogrammi che riassumevano la mia intera vita. Proprio come raccontano gli ospiti del Maurizio Costanzo show o di Uno Mattina. Non sento ragioni, che mi crediate o no, non ritratterò. Se gli studiosi del cervello non sono in grado di darne una spiegazione è un problema loro. Io so quel che so.

Una mattina mi fermai a prendere un caffè in un baretto alla Borghesiana. C’erano due, tre autisti Zeppieri. Uno di loro lo conoscevo. Mi disse: glielo pago io il caffè, professoressa, glielo devo-Me lo deve?- Gli infami scommettevano su quanto tempo sarebbe passato prima che mi “scatafasciassi” con la mia 500. Sembra che lui ci sia andato più vicino di tutti.
Mi feci pagare anche il cornetto. Ma soprattutto divenni più prudente. Non proprio quanto avrei dovuto forse, ma la puntualità nella scuola non è un optional. L’insegnante è responsabile penalmente di quanto accade in classe nella propria ora e la persona che sul momento si accolla la classe del ritardatario non per questo si accolla anche la responsabilità penale.
Questa lunga pratica della puntualità mi è rimasta infissa nel cervello come una ossessione.
La mia 500 è presto diventata una piccola corriera. A salire verso i colli portavo qualche collega e a riscendere ne portavo altri, secondo le coincidenze degli orari. Per qualche tempo portai con me al mattino il mio cane Buck. Gli lasciavo il finestrino della macchina aperto e lui gironzolava per la campagna mentre facevo lezione. Quando era stanco saltava in macchina e lì mi aspettava. Poi azzannò un paio di galline e mi fecero capire che non avrebbe avuto vita lunga. Dovetti lasciarlo a casa. Per protesta i primi giorni al mio ritorno mi fece trovare nell’ingresso tutto il trasportabile della casa, asciugamani, scarpe, cuscini, tutto ben bene “spisciazzato”. Ma poiché era un cane tutto sommato corretto sopra ci trascinava anche il rotolo di carta igienica staccato dal bagno con tutto il suo supporto. Per un periodo venne con me una collega di matematica che divenne una mia carissima amica. Era lesbica, il più nascostamente possibile. Nella scuola eravamo in due a saperlo come pure a goderci il racconto delle sue notti burrascose in locali molto off. Infatti, non era solo lesbica, ma anche un po’ troppo audace. Appena saliva in macchina si sistemava il più comodamente possibile per dormire. –Poi ti racconto-mi diceva e cadeva addormentata. Quando in macchina con noi c’era qualche altra collega o, come poteva capitare, la Preside, inforcava, estate o inverno che fosse, degli occhiali nero fumo, stampava un sorriso sulla bocca e fingeva di essere tra noi. Quando, scaricata la collega scendevamo dalla vettura mi chiedeva: si è capito che dormivo? Bhe, devo dire che non si capiva. Riusciva a dormire mantenendo inalterato il sorriso sulle labbra..
Le avventure capitatemi con la mia 500 sono talmente tante che mi è semplicemente impossibile anche solo prendere in considerazione l’idea di separarmene. L’ho vista in pericolo troppe volte e troppe volte ho trepidato per lei. È stata la mia sola automobile e lo resterà. Auto storica, sì. Del resto non lo sono anche io?

martedì 26 giugno 2007

scomparsi e sconosciuti

Pur nel dileggio familiare io seguo sempre le storie di scomparse inesplicabili che ci racconta una trasmissione televisiva.
Ho provato molte volte ma senza successo a spiegare perché ne sono affascinata.
C’è qualcosa nella scomparsa che esercita una sottile attrazione su di me.
Niente di drammatico, piuttosto un brivido di piacere.
Si può scomparire, è questo che mi colpisce favorevolmente.
“Gli scomparsi”, come io chiamo la trasmissione, raccontano una tentazione che mi sembra impossibile non appartenere a ognuno di noi in qualche momento della sua vita. Scomparire. Lasciare tutti a bocca asciutta.
Riprendersi la propria vita, sottrarla a tutti coloro che ci conoscono e consegnarla ad una rassicurante folla di sconosciuti, gente che ignora tutto di noi, che ci guarda con occhi assolutamente vergini.
Gente che non ha niente da chiederci, verso cui non abbiamo nessun debito di affetti, cure, attenzioni, pensieri. Gente che da noi non può rivendicare niente per sé.
Alcune delle scomparse che ci vengono raccontate nascondono delitti orrendi, drammi e tragedie che trovano o non trovano col tempo la loro soluzione. Ma la più parte sono piccole scomparse immotivate e direi banali.
Sono queste le mie preferite. Spesso si tratta di persone che vivevano un qualche disagio. In genere vengono sbrigativamente definiti “depressi”.
E se invece di essere loro i depressi fossero deprimenti i loro congiunti, le mogli, i mariti, i figli, i genitori, i colleghi?
Se invece di un gesto di sconforto e disperazione il loro fosse un gesto vitalissimo di ribellione? L’impeto di chi decide di prendersi cura di sé nel più radicale dei modi, scrollandosi di dosso la pletora di postulanti che si appostano all’angolo delle nostre vite e tendono le loro mani voraci?
Se ci fosse allegria e malizia nel loro scomparire?
La sola ipotesi me li rende simpatici, sono i miei eroi e tifo appassionatamente per loro. Se potessi depisterei tutti i segugi che spietatamente si mettono sulle loro tracce. E con il pensiero seguo i miei beniamini nelle strade nuove che hanno preso. Minaccio ogni tanto mio marito: un giorno ti vuoto il conto corrente e non mi trovi più. Infatti io sarei una “scomparsa” previdente, molto bella-vita e niente randagismo.
Devo riconoscere a onore di mio marito che il brivido che lo coglie non è per il conto corrente. Se potesse mi interdirebbe la visione degli “scomparsi”.
Ritiene che mi suggerisca idee pericolose e mi guarda con un po’ di allarme.

In fondo scomparire è banalmente il desiderio di rinascere, niente di nuovo rispetto al fu Mattia Pascal. Soprattutto liberarsi della personalità che ci si è incrostata addosso nel corso degli anni, quel “noi” da cui è così difficile distaccarsi restando nella cerchia di parenti e amici.
La mirabolante “Second life” di cui i giornali amano parlarci come dell’ultima frontiera della modernità è solo la versione soft di una bella scomparsa. Inventarsi una seconda vita stando al proprio computer non è poi questo atto di rottura. Richiede fantasia ma non coraggio. E poi il mercato della rete è pieno di Provider Full Service di Second Life. Ma chi apre davvero una porta ed esce a piedi verso una vita nuova, quello sì che ha del fegato. Nessuno gli darà “consulenza progettuale”, della sua nuova vita sarà il solo architetto.
Ho scoperto che sono più spesso le donne ad aprire quella porta.
O hanno più coraggio degli uomini o escono da vite più soffocanti.
O entrambe le cose.
Quanto a me, per ora mi guardo “gli scomparsi” in televisione, e se un giorno l’aria si farà davvero troppo poca o il coraggio diventerà più fermo, un passo e via...
Fate il favore: non cercatemi.
Ma soprattutto non compiangetemi. Già da adesso dichiaro ufficialmente che se scomparirò sarà per allegria.



Fa parte dello stesso desiderio di multiple nascite il mio piacere di parlare con sconosciuti.
Non tanto perché io cerchi in loro una rivelazione, un segno, un messaggio.
Naturalmente ogni voce nuova ci dà il suo piccolo contributo di pensiero, riflessione, informazione.
Ma questo non è al cuore del mio interesse. La ragione vera per cui mi piace parlare con gli sconosciuti è che sono io la sconosciuta. Per loro e insieme per me.
Sono io che posso inventarmi ogni volta diversa.
Nessuno mi potrà imputare una contraddizione, uno scarto, una stranezza qualsiasi, rispetto alla mia personalità solita. Voilà, libera.

Ero molto giovane, forse neanche vent’anni e chiacchierai per un’ora con un simpatico signore bolognese, affacciati alla terrazza di Trinità dei Monti.
Perché ricordo quella mattina? Solo perché la ragazza romana che chiacchierava con il bolognese aveva una strepitosa vita bohemienne, anche un po’perigliosa.
Come mi divertii ad inventarmela lì sui due piedi!

donna Clara e Marc'Aurelio

Buon giorno.
Per iniziare la giornata vi propongo un paio di massime di Marc' Aurelio.

Ben di rado si vede un uomo infelice per non aver penetrato l’anima altrui; ma sono fatalmente infelici coloro che non avvertono i moti dell’anima loro.

Dedicate la vostra pausa caffè ad una sbirciatina dalle parti dell'anima vostra e non rompete quella altrui.

Seconda massima:
Scegli le più utili e gradite fra le cose che hai e di esse ricorda come le cercheresti se non le avessi.

Estendete questa massima anche agli esseri umani (sì, si può fare, Marc'Aurelio non protesterà) e rivalutate qualche figura della vostra vita che in genere date per scontata. Se questo non farà impazzire di felicità voi, consolerà almeno un po' loro.

Magari un regalino tornando a casa la sera? un fiore se si tratta di una donna? e se invece è un uomo la prima cravatta pescata al volo da una bancarella? Tanto anche se vi dissanguaste non gli piacerebbe comunque.

Ah, come sono saggia oggi. Mi sento tanto Donna Clara.

lunedì 25 giugno 2007

Marc'Aurelio e il Governo Prodi

Seguo giornalmente il cammino del Governo che ho votato.
Mi sento ribollire.
Allora faccio appello a Marc’Aurelio:

Non sperare in una repubblica come quella di Platone, ma ritienti soddisfatto d’ogni piccolo progresso e rifletti che non è poco l’ottenerlo.
Lo ripeto due, tre volte e poi mi ausculto.
Il ribollire continua.

Allora mi dico che è forse il Governo che ho votato che deve ricorrere a Marc’Aurelio:

Se non sei diritto, raddrizzati!

Manderò un telegramma in tal senso al Presidente del Consiglio.

domenica 24 giugno 2007

vizi capitali/due/lussuria

Simon Blackburn, filosofo, autore del libretto che mi ha aiutata a ripercorrere la storia della Lussuria, mi ha subito conquistata per la sua simpatia. Enuncia in apertura del testo e lo conferma alla fine, di scrivere per reclamare all’umanità il diritto alla Lussuria.


Benché motore della vita, da sempre la Lussuria è coperta di disprezzo, così come si conviene ad un vizio capitale. Filosofi, poeti, pensatori, tutti, attraverso i secoli, hanno scagliato la loro brava pietra contro questo istinto necessario alla specie. Tutti d’accordo, dai mistici del deserto, ai cupi confessori della Roma cattolica, agli amanti cortesi, ai puritani, su su fino al Governo Federale degli Stati Uniti d’ America che investe ogni anno 100 milioni di dollari per un programma di educazione sessuale volto a diffondere la pratica dell’astinenza. Mentre l’amore, cui tutto il mondo tributa il suo plauso, è esaltato in ogni sua forma, la Lussuria, senza la quale anche l’amore sarebbe mutilato, è costantemente disprezzata.
Pitagora, Platone, Ippocrate vedevano il sesso come perdita di energia. Addirittura come causa della calvizie.
Difficile anche il rapporto tra la Lussuria e Aristotele, che guarda al sesso con ostilità e diffidenza. Tranne in tarda età, quando il filosofo si concede l’abbandono alle grazie della schiava Fillide, lasciandosene, si racconta, fanciullescamente usare come cavalcatura. Quanto agli stoici, è superfluo dirlo, tutto ciò che minaccia l’ autocontrollo è loro nemico. L’unica concessione che Seneca fa al piacere è riconoscere che ci è stato dato per propagare la specie. Per fortuna ai filosofi non chiediamo di percorrere le vie che ci indicano. Seneca infatti, a quanto si tramanda, non percorse la via della castità. Me ne compiaccio per lui. I soli che nell’antichità hanno levato le loro voci in difesa della Lussuria sono stati Diogene, Epicuro e Lucrezio.
Diogene era un grande provocatore. Si sa che faceva sesso sulla pubblica via per testimoniarne l’assoluta bontà. Quanto ad Epicuro e Lucrezio mettevano in guardia contro l’amore e raccomandavano di sconfiggerlo con la Lussuria. Per loro infatti l’amore è una specie di follia, travolge l’anima razionale, procura ansia, frenesia e tristezza. Per combatterlo bisogna far ricorso al sesso indiscriminato. Arrivano poi i filosofi cristiani. Nel parlare di sesso Tommaso usa un linguaggio carico di disgusto e spregio. Parla del rapporto coniugale come di ‘immunditia’, ‘macula’, ‘turpitudo’, ‘ignominia’,’ morbus’. Dall’ atto sessuale il suo disgusto si trasferisce immediatamente alle donne: sono loro infatti a sollecitarlo. In quanto ad Agostino è a partire da lui che la chiesa cattolica inizia la sua lunga tradizione di odio per il sesso. Quando è costretto ad ammettere che il sesso esisteva anche nell’Eden (se no, perché il signore si sarebbe dato la pena di creare due creature di sesso diverso?), Agostino afferma che l’attività sessuale tra Adamo ed Eva era priva di partecipazione, casta e indifferente ‘come una stretta di mano’. Si sarebbero così spesso stretti la mano, tanto da avere un considerevole e imprecisato numero di figli, se fosse stata questa pratica noiosa? Comunque praticare il sesso al di fuori dei fini riproduttivi, per il solo piacere di farlo, diviene ufficialmente reato nel 1532, quando l’uso di mezzi contraccettivi è punito nel codice penale di Carlo V con la pena capitale.
Dall’altra parte del mondo invece, in Cina, i taoisti affermavano che l’immortalità si ottiene solo attraverso l’esercizio sessuale. Dottrina da approfondire.

Fin qui abbiamo usato indifferentemente i due termini Lussuria e sesso, eppure le due cose non coincidono del tutto.
Il sesso lo si può fare per diversi motivi che non hanno niente a che vedere con la Lussuria: per soldi, per procreare, per fornire campioni ad analisi mediche, per risolvere problemi lavorativi, per dimostrare a se stessi o all’altro che si è capaci di farlo, per vendetta, per dispetto, per noia... E’ l’essere fine a se stesso che rende l’atto sessuale Lussuria pura. E’ il desiderio. Di più, è il desiderio del desiderio. Per i lussuriosi infatti non vale il mito ricordato da Platone nel Simposio. Ogni essere formava un intero con un altro essere. Zeus spezzò quella unità perché troppo potente. Da allora ciascuna metà, guidata dal desiderio, è alla ricerca della parte che le è stata tagliata. Il desiderio erotico è appunto il “desiderio e il perseguinemto dell’intero”. E’ ragionevole pensare che un Don Giovanni non abbia incontrato nei suoi migliaia di incontri erotici la sua agognata metà? Improbabile. Ma si ostina a cercare perché il piacere per lui non è nell’appagamento ma nel desiderio stesso. Al lussurioso il soddisfacimento non basta. I libertini stra-appagati rimpiangono l’affievolirsi del desiderio, desiderano desiderare.

In questo desiderare indiscriminato (infatti l’amore è individuale ma la Lussuria prende quello che l’accende sul momento), si può incorrere in vari inconvenienti. No, non quelli igienico-sanitari che tutti conosciamo, ma gli stessi che si prendono in ogni frequentazione umana. Ci ricorda Blackburn che ‘un rapporto sessuale è come una conversazione, si corrono gli stessi rischi: si può incontrare il distratto, il solipsista, il noioso...’. E’ per questo che i racconti sul sesso possono diventare occasione di umorismo tragicomico. La vetta in questo senso è stata raggiunta dal mio prediletto Laurence Sterne.
Uno dei rimedi più efficaci che io conosca contro momenti di abbattimento è la rilettura delle prime pagine del Tristram Shandy. Il Gentiluomo vi fa in prima persona la storia del rapporto sessuale dei suoi genitori destinato a portare al suo concepimento.
L’avvicinamento all’atto sessuale è raccontato con miriadi di divagazioni che ci accompagnano fino al rigo assassino: ‘scusa caro-disse mia madre sul più bello-non hai dimenticato di caricare la pendola?’
Ha questo qualcosa a che fare con la Lussuria? Ha molto a che fare. È in casi come questi che mi sento di dire del sesso: Che peccato!


Fin qui il repertorio. Ma della Lussuria che cosa ho da dire io? La prima persona che mi viene in mente alla parola Lussuria è mio padre. A lui si attaglia perfettamente la definizione di grande lussurioso. Non l’ho mai condannato per questo. Del resto ‘condannare’ e ‘mio padre’ sono due termini che in me non trovano accordo. I miei rimproveri andavano alle modalità di gestione della sua Lussuria non alla Lussuria in quanto tale. Secondariamente dai miei ricordi riemergono Tristano, Paride, Achille, e sopra a tutti Didone e Paolo e Francesca. Insomma i lussuriosi che Dante colloca nel quinto girone dell’Inferno. Ammettiamolo, tutti li abbiamo amati, sono stati i nostri eroi, solo di loro non ci siamo dimenticati mentre pian piano e colpevolmente la Commedia scompariva dalla nostra memoria. I lussuriosi ci piacciono, ci piace che dal desìo vengano portati, ci piace che seguano il loro demone fino alle estreme conseguenze, ci piace che siano irragionevoli e che si perdano.
Il lussurioso è in ognuno di noi, se non possiamo agirla personalmente tifiamo per la Lussuria altrui. Paolo e Francesca non si innamorarono, si calamitarono l’un l’altro e tutti comprendiamo la differenza e verso quella differenza siamo indulgenti anche quando fingiamo di condannarla. Da questo punto di vista è più che giusto che Didone sia nel girone dei lussuriosi ed Enea no. Di primo acchitto può sembrare una intollerabile disparità di trattamento, giacché peccarono insieme. Ma Didone fu spinta dal desiderio, Enea dal calcolo politico. Dante ha visto giusto, Didone è una lussuriosa, Enea solo un opportunista.

sabato 23 giugno 2007

Orso e Penelope

Se aveste mai dormito con un gatto
o con un cane adagiato sopra al grembo,
ora conoscereste un altro sonno-
anch'esso animato da sogni
e da fantasmi, ma indenne da mentali
avvitamenti e conseguenti crucci e vacui spasmi-
proteso al cuore originario della vita:
l'uno da cui siamo venuti tutti
e a cui tutti torneremo.
Se aveste mai dormito con un gatto
o con un cane adagiato sopra al grembo,
ora sapreste cos'è la vera pace:
la felicità di assentarsi
dal frastuono e assieme
la prontezza di non mancare
mai all'appuntamento buono.
Se aveste mai dormito con un gatto
o con un cane adagiato sopra al grembo,
ora sapreste che la metamorfosi è possibile-
che uomo e gatto e cane sono
entità volatili e cangianti: nel sonno
condiviso scompaiono le stinte
gerarchie tra cavalieri e fanti.

Franco Marcoaldi
'Animali in versi' Einaudi Editore

venerdì 22 giugno 2007

professò/tempo di esami

Il mio primo anno di insegnamento a Bellegra era iniziato da poco quando arrivò la prima insegnante di ruolo che il paese avesse mai visto. Aveva una quarantina di anni e veniva dalla provincia di Pavia. Era una malvagia spietata odiosa classista. Riteneva che la più severa selezione andasse fatta tra quei giovani pecorari perché non inquinassero il mondo benfunzionante al quale apparteneva. Ci odiammo a pelle prima che a ragion veduta.Si autoproclamò Vicepreside con la maiuscola. In meno di un mese seminò il terrore nella scuola. Ad ogni occasione minacciava di fare un rapporto in Provveditorato contro uno di noi. Avrebbe significato la perdita dell’incarico annuale. Eravamo tutti molto cauti con lei, ma la cautela trova un suo limite naturale nella dignità. Così pur nel rispetto formale, ogni qual volta mi trovassi a dissentire con qualche sua iniziativa lo facevo presente. Il caso volle che a mio parere di condivisibile ci fosse davvero poco e che ci trovassimo da subito ed in ogni circostanza su fronti diversi.Trovava inappropriato che i miei alunni mi dessero del tu. Sosteneva che a lei davano del lei. Semplicemente impossibile. Ignoravano la differenza fra il tu e il lei. Nella realtà poi a lei non si rivolgevano mai. Le dicevano dei sì tremanti e tutto finiva lì. Sosteneva che non sapessi tenere la disciplina. Se c’è una cosa che so fare per istinto è tenere la disciplina. Affidatemi lo spogliatoio della nazionale e vi faccio vedere. Semplicemente i miei alunni non tacevano immobili e quasi finti durante la mia ora di lezione come durante la sua. Prendeva i temi già corretti dal mio cassetto e li supervisionava. Non potendo obiettare sulle correzioni obiettava sui voti. -Sei di manica larga- L’unico che non la temeva era il prete. Una volta lo sorpresi mentre nascostamente le impartiva alle spalle una minuscola benedizione. Gli chiesi se sospettasse in lei la presenza del demonio. Finse di scandalizzarsi ma non negò. Del prete devo dire en passant che in occasione delle elezioni politiche, credo del ‘68 consegnò ad ogni ragazzo i pantaloni di una tuta da ginnastica con indicazione ai loro genitori di votare DC. Il sopra della tuta sarebbe arrivato dopo i risultati. Nonostante questo il prete ed io eravamo grandi amici.

Tornando alla Vicepreside Prof. F. da lei imparai una lezione che non ho mai più dimenticato. Per impartirmela si servì di Bennuti, un mio alunno di terza classe. Bennuti portava come molti altri le pecore al pascolo e veniva quando poteva. Nella stagione della macellazione dei maiali aiutava ad accompagnarli al macello. Le grida si sentivano in tutta la vallata. Gli animali sentivano quello che stava per succedere e l’uno con l’altro si avvisavano. Era atroce. Ma inevitabile. Una volta, di ritorno dal macello, Bennuti si chiuse in bagno e vomitò. Provai a chiedergli, a farlo parlare: -non è niente- disse.
Bennuti aveva 15 anni e una dignità adulta. Era già un uomo responsabile. Orfano di un padre che era stato autista di Zeppieri, i pullman di linea della provincia romana, aiutava come poteva la madre. Aveva bisogno della licenza di scuola media per poter entrare a sua volta alla Zeppieri dove gli avevano promesso un posto di lavoro.
Vi sembra una storia patetica lo so. Ma non posso eliminare le storie vere della vera scuola italiana fine anni ‘60 perché suonano patetiche. Bennuti non sapeva scrivere, non sapeva la storia né la geografia, leggeva malissimo.
Parlava poco, ma ascoltava con una specie di fame tutto quello che veniva detto, i suoi occhi non mi lasciavano un attimo, le sopracciglie perennemente corrugate nello sforzo di capire. Bennuti è rimasto nel mio cuore come una pena e un monito. L'infame F.riuscì a farlo bocciare. Per colpa mia. Io non seppi difenderlo né battermi per lui.
Da tempo avevo cominciato a prepararlo per la prova orale dell’esame. Sapevo che il suo scritto sarebbe stato inesistente.
Se fossi riuscita a fargli superare l’orale nelle mie quattro materie avrei neutralizzato la campagna che da tempo la F. conduceva perché Bennuti venisse bocciato. Già il fatto che fossi riuscita a farlo ammettere agli esami l’aveva portata sull’orlo di una crisi isterica. Il prete era con me. Come pure i colleghi di educazione fisica, musicale e artistica. Con le mie quattro materie avremmo avuto la maggioranza e Bennuti avrebbe avuto la sua Licenza Media.Con questa non avrebbe tentato il concorso di ammissione alla Normale di Pisa, ma solo il corso per meccanici della Zeppieri.
Ma non avevo previsto quanto odio quella donna potesse irraggiare. Quando iniziò l’orale di Bennuti si alzò dal suo posto e venne a mettersi braccia conserte alle mie spalle per accertarsi che rispondesse alle domande.
Intanto stendeva un preverbale in cui appuntava domanda per domanda e risposta per risposta. Naturalmente a Bennuti avevo suggerito le une e le altre, ma per lui parlare era una pena.
La voce gli usciva in un soffio, bassa e soffocata, io ero piegata sul tavolo ma a malapena riuscivo a capire quello che diceva. Intanto lei ci incalzava entrambi: -allora? come hai detto? ripeti- E a me -fagli un’altra domanda. Poi gliene fece alcune lei. Bennuti mi guardava con i grandi occhi attenti cercando di seguire i piccoli suggerimenti che gli porgevo. Più lui riusciva a dire qualche parola più lei incattiviva. Ricordo perfettamente il momento in cui Bennuti si arrese. Non per una domanda o un quesito irresolvibile. Si arrese di fronte alla tenace volontà di quella donna di sconfiggerlo e umiliarlo.
Mi rivolse un lungo sguardo serio e scosse piano il capo. Era un: basta per favore. Da quel momento non disse più una parola. E io? C’era qualcosa che avrei potuto fare e che non seppi fare. Io dovevo alzarmi e rifiutarmi di continuare un esame in quelle condizioni. Chiedere l’intervento del commissario ministeriale e denunciare il clima di autentico terrore e intimidazione che la vicepreside aveva creato. Ma il terrore aveva preso anche me. C’era un odio vero in quella donna, una volontà inflessibile di riportare la sua vittoria su un ragazzino di quindici anni e insieme su di me. Non sono riuscita a ragionare, non sono riuscita ad essere fredda, a decidere in fretta come avrei dovuto. Insomma non ho saputo fare nessuna delle cose che avrei potuto e dovuto fare. Ma soprattutto mi sono fatta spaventare, non ho avuto il coraggio di battermi per il mio alunno. Fu lei stessa a tracciare il giudizio sul verbale. Insufficiente in tutte e quattro le materie. Quel giorno anche io vomitai a scuola. Bennuti fu bocciato. Compì i sedici anni e non tornò mai più a scuola. Non entrò alla Zeppieri. Viveva in campagna. Avrei voluto andare a trovare la madre ma mi vergognavo. Lo avevo spinto io a provare l’esame, io lo avevo convinto che ce la potevamo fare e poi non ero stata capace di fare la mia parte. Il prete mi disse che Bennuti lavorava a giornata nelle vigne del paese. Non ho mai più visto Bennuti. Di tutti gli alunni che ho avuto il suo è il solo nome che ricordo.
Per tutti gli anni scolastici a venire ogni volta che si prospettava una battaglia in seno ai consigli di classe o alle commissioni di esami, ed era tutto un battagliare, io mi dicevo - ricordati di Bennuti- Allora una vera ferocia si impadroniva di me.
Non indietreggiavo di fronte a niente. Se c’era da contrattare contrattavo, da ricattare ricattavo, da mentire mentivo, da blandire blandivo, da insultare insultavo, da minacciare minacciavo. Avrei potuto fare lo spin doctor di un politico.
Ma soprattutto tirai fuori tutto il carattere che non avevo saputo tirare fuori per difendere Bennuti. Vi garantisco che divenni temibile. Nel corso degli anni naturalmente non sono riuscita ad aiutare tutti i ragazzini che avrei voluto aiutare e che lo avrebbero meritato. Molti ne ho visti bocciare ma mai più nessuno, che si trattasse di professori, presidi, vicepresidi, commissari, ha avuto la possibilità di fare ad un mio alunno quello che era stato fatto a Bennuti. Non ne hanno più macellato uno. Quanto a me a scuola non ho mai più vomitato.

giovedì 21 giugno 2007

Irmgard

La mia amica Irmgard, che al coro chiamiamo Ermengarda, (richiamando alla nostra memoria il Manzoni ma sciupando il bellissimo suono del suo nome) a proposito del mio blog, prima di partire per le vacanze, mi ha detto di non trasformarlo da blog di parola a blog di immagini.
Non rinuncerò del tutto a immagini e suoni ma seguirò il suo consiglio. Innanzitutto perché è una donna intelligente, colta e sensibile e poi perché l'espressione blog di parola mi ha definitivamente conquistata. E poi per me è importante imparare a fare, non necessariamente fare. Grazie Irmgard

solstizio d'estate

A proposito di fenomeni astronomici: 21 giugno, solstizio d’estate.
Il sole sembra fermarsi. E’ il giorno più lungo dell’anno e la notte più breve.
Questa sensazione di sospensione dura fino al 24 giugno quando il sole sembra riprendere il suo corso sorgendo gradualmente sempre più a sud.
Da tempi immemorabili questo periodo fra il 21 e il 24 viene festeggiato presso tutte le popolazioni. Sui riti pagani, legati all’acqua e al fuoco, si sono innestati quelli cristiani.
La notte che chiude il periodo solstiziale e che la chiesa cattolica ha dedicato a S. Giovanni Battista, è piena di riti, magie, leggende e scaramanzie.
E’ la notte in cui le streghe si riuniscono per raccogliere erbe.
Fra queste l’ hipericum perforatum che si stringeva in un mazzetto e si portava con sé per tenere lontani gli spiriti maligni.
('Detto erba di S. Giovanni ha dimostrato di avere un’efficacia sia pure modesta e non frutto di suggestioni nelle depressioni subcliniche e nelle distemie. In Germania tende ad essere uno dei farmaci di prima scelta in queste patologie’. G. Jervis 'La depressione' Laterza).
E’ la notte in cui si lasciano all’aperto immersi in acqua iperico, foglie e fiori di lavanda, mentuccia, ruta e rosmarino. Al mattino successivo le donne vi si lavano il volto.Viene considerata un’acqua di salute e di bellezza.
Fino a poco tempo fa’ nella notte di S. Giovanni le nostre campagne brillavano dei grandi fuochi accesi dai contadini. Ne 'La luna e i falò', il suo ultimo libro, li ricorda con nostalgia poetica Cesare Pavese.
Se nessuno di questi riti (tra i tanti che avrei potuto ricordare) ci attira o ci convince godiamoci almeno questi lunghi giorni di
sole prima che le giornate riprendano a declinare. Lo faranno. Impercettibilmente, ma lo faranno.


a ciel sereno

Chiedo scusa. Ho generato in chi mi legge l’errore di credere che io fossi partita per una lunga vacanza estiva. Eccomi invece qui di ritorno dopo sole novantasei ore. Ma c’è un ma. Questa breve passeggiata, un’ora di auto Roma-Anzio, un’ora e quindici di aliscafo Anzio-Ponza, è forse il viaggio più lungo della mia vita, così lungo e difficile che ero certa di non poterlo fare mai più. Dolorosamente certa.
È a Ponza che sperimentai il più stupefacente e caleidoscopico effetto speciale che abbia accompagnato la mia depressione.
Un bellissimo attacco di panico a ciel sereno.

Ponza luglio 1998
Me ne sto sdraiata sulla spiaggia di Frontone, alle spalle le rocce dal bianco al grigio al viola e fin sull’arenile ciottoloso il verde delle tamerici, il giallo dei lentischi. Il mare trasparente di puro azzurro, calmo e luminoso. D’improvviso la terra sussulta sotto di me. Spalanco gli occhi e mi tiro su. Mia sorella chiacchiera con un’amica, due bambini gettano ciottoli nell’acqua, ognuno è tranquillamente intento alle sue occupazioni, chi prende il sole, chi nuota pigramente.
Ma la terra trema violentemente. Che terremoto è questo? L’ epicentro sembra essere sotto il mio corpo e il moto sussultorio interessa non più di un metro quadrato. Quello occupato da me. C’è qualche sismografo in grado di avvertirlo?
O la natura mi fa omaggio di un terremoto personale?? Intanto si è fatto scuro. Di fronte a me la spiaggia di Frontone è come il negativo di una foto. Ma nessuno sembra accorgersene tranne me. La natura mi riserva quest’altro privilegio? Un eclisse di sole che io sola posso percepire? Terremoto ed eclisse insieme tutti e due solo per me? Cavolo, è materia per una pubblicazione. Avvertire subito un geologo e un astronomo. Ma prima e in fretta il mio psichiatra.
Il cuore mi corre nel petto, i battiti sono talmente ravvicinati che mi sembra un unico battito o nessun battito. Che c’é ? mi chiede mia sorella nel vedermi balzare in piedi. Niente-dico-devo andare via. Non riconosco la mia voce: soffocata, quasi impercettibile. Afferro il mio pareo e mi butto verso l’acqua. La spiaggia di Frontone infatti è raggiungibile solo dal mare e di tanto in tanto delle piccole barchette come tanti Caronte vengono a scaricare qualcuno o a caricarlo per riportarlo verso il porto. Fuggirne si può solo dal mare e fuggirne in tale concomitanza di fenomeni mi sembra la cosa più ragionevole. E più urgente. Ma avanzando verso l’acqua il terremoto da sussultorio diventa ondulatorio e come in un’altalena l’intero panorama mi passa davanti dondolando. E’ tutto in bianco e grigio e io spalanco sempre più gli occhi nello sforzo di vedere in quel grigio.Le gambe non mi tengono, così accosciata, aspetto che un Caronte arrivi e quando arriva salgo tentando di mantenere un aspetto il più possibile normale. Mi sistemo a prua sporgendomi come una polena nello sforzo di arrivare prima in porto. Nel frattempo divento sorda e la mia temperatura corporea si abbassa verso lo zero assoluto.Ci saranno quaranta gradi, sono le dodici di un mattino di luglio e io tremo di freddo e batto i denti. Il battere dei miei denti è praticamente tutto quello che sento. Infatti dalla barca allegramente piena di bagnanti mi arrivano pochi attutiti e smorzati suoni. Hanno anche un interessante effetto eco. Interpellate anche un fisico acustico. Ma prima sempre il mio psichiatra, please.
Sbarcata al porto raggiungo la mia stanza in albergo e finalmente mi lascio cadere sul letto. Sfortunatamente il letto non sembra sostenermi come dovrebbe, infatti mi sembra di caderci attraverso. Forse voglio abbandonare l’isola spuntando dalla parte opposta del globo, in Nuova Zelanda credo.
Sono coperta di sudore freddo, tremo, ho la nausea e aspetto che il cuore si spacchi e via.
Il Tavor mi guarda dal comodino e io guardo lui. Lo guardo intensamente tentando come Troisi di convincerlo con le buone a cadere sulla mia lingua. Non saprò mai se ci sarei riuscita perché finalmente mi raggiunge mio marito e mi soccorre.
Per la prima volta oso chiamare a casa il Professore. In un bisbiglio gli comunico che sono sorda muta e cieca, un terremoto alternativamente sussultorio e ondulatorio colpisce l’area di un metro quadrato in cui io mi trovo e intanto un eclisse totale di sole copre il mio orizzonte.
-Attacco di panico a ciel sereno- dice- Sono dispiaciuto per lei. Ma adesso passerà. Il Tavor farà il suo lavoro-.
Infatti: ritornano i colori, ritornano i suoni, il terremoto scema, l’eclisse gradualmente sfuma. Speriamo che i diversi scienziati interessati abbiano fatto in tempo a prendere nota del fenomeno. Infine anche il cuore rallenta la sua corsa.
Ma io continuo a cadere attraverso il letto. La mia sola richiesta è -Portatemi via da quest’isola-.
Per definizione un’isola isola, no? Se ne è prigionieri. Su un’isola non ci sono vie di fuga. L’unica via di fuga è la fuga dall’isola. Non avendo nessuna intenzione di seguirmi attraverso la crosta terrestre, il mantello e il nucleo ferroso per spuntare agli antipodi e trasferirsi in Nuova Zelanda con me, mio marito rimedia due posti sul primo aliscafo e finalmente mi riporta sulla terraferma. Di nome e di fatto.

Da allora la sola parola isola mi copriva di sudore e i suoni tornavano ad allontanarsi.
Ma poiché Ponza era per me la sola idea di mare la lontananza forzata continuava a ad essere la più bruciante di tutte le sconfitte che la malattia mi aveva costretta ad accettare. Sono passati gli anni. Intorno a me molta soddisfazione per i miei miglioramenti.
Soddisfatta anche io. Ma sempre in fondo quella domanda: potrò mai più tornare a Ponza?
Meno di un mese fa’ ho deciso: per San Silverio, il patrono dell’isola, andrò a Ponza.
Non credo ai santi, ma confondermi con la folla esorbitante dei fedeli non può far male e magari mi guadagna una piccola protezione abusiva.
Ecco è così che sono partita per questo viaggio lunghissimo. Ed eccomi qua, sono tornata sana e salva e la terra non ha tremato e il sole non si è oscurato e tutta l’isola era quella che è sempre stata, una promessa mantenuta di bellezza e di serenità.
Nel frattempo ho anche scoperto che la Nuova Zelanda non si trova agli antipodi dell'Italia. Trattasi di un comunissimo errore. Agli antipodi dell'Italia c'è solo oceano. Oceano. Per fortuna mentre tentavo di cadere attraverso il letto io non lo sapevo...


domenica 17 giugno 2007

bagaglio leggero

Zainetto con: un costume, un pareo, un sandalo da geco (per intendersi uno di quei sandali in plastica trasparente che aderiscono agli scogli), maschera e boccaglio (la maschera graduata), un berretto, due libri (uno dei quali da liberare in piazzetta), carta e penna, i-pod.
Benzodiazepine a scelta.
All'isola di Ponza...

sabato 16 giugno 2007

venerdì 15 giugno 2007

lavori in corso

L'invidia mi divorava. Ne stavo crepando. Quindi sono corsa ai ripari.
Ma ho bisogno di un po' di tempo. Non sono un genio dell'HTML.
Non sono un genio tout court.

giovedì 14 giugno 2007

vizi capitali/uno/invidia

Ma sì, togliamoci subito il pensiero e partiamo dall’invidia perché è il vizio che più difficilmente la gente è disposta a confessare. Infatti significherebbe ammettere di essere una persona meschina e gretta. Eppure tutti conosciamo quella piccola fitta pungente. Sul dizionario dei Proverbi italiani (Le Monnier) i proverbi in tal senso si sprecano.
‘Se l’invidia fosse febbre tutto il mondo ce l’avrebbe’
‘Se l’invidia fosse pane nessuno morrebbe di fame’
‘Se l’invidia fosse rogna tutti si gratterebbero’.

Sì lo so questo non è elegante ma i proverbi sono una forma di saggezza popolare.
Persino gli dei secondo i greci potevano essere invidiosi degli uomini.
Se poi sfioriamo il vizio o ci caschiamo dentro con tutte le scarpe dipende dall’intensità e dalla frequenza del nostro invidiare.
Preliminarmente vorrei spendere due parole in difesa degli invidiosi. Già il fatto che il loro 'santo protettore' nonché prototipo sia il povero Caino, universalmente vituperato e passato alla storia come primo assassino con l’aggravante del fratricidio, li rende degni di compassione. A costo di scandalizzarvi, di Caino io penso che avesse perfettamente ragione nel detestare quel melenso di Abele. E che non era Caino ad essere invidioso ma Dio ad essere ingiusto.
Senza contare che Abele si limitava a pascolare il suo gregge, che non è poi questa grande fatica, mentre il povero Caino, zappava la terra, annaffiava, seminava, raccoglieva, potava, buttava sudore dall’alba al tramonto.
Finché non mi si darà una ragione di questa smaccata preferenza di Dio per Abele, la Genesi resterà per me un libro diseducativo.

Secondariamente gli invidiosi sono le prime e spesso le sole vittime del 'malanimo provocato in loro dalla constatazione dell’altrui prosperità, benessere, soddisfazione.(Oli Devoto)
Già i modi di dire relativi all’invidia fanno capire quanto sia scomoda la posizione dell’invidioso.
Non si dice ‘crepare d’invidia’, ‘il dente dell’invidia’, ‘il morso dell’invidia’, ‘verde di invidia’?
E, per tornare ai proverbi, l’annichilente ‘invidia rode se stessa’.
Voglio quindi testimoniare qui la mia personale compassione per l’invidioso.

Dell’invidia molti hanno scritto. Se ne sono occupati Kant, Nietzsche, Kierkegaard, Schopenhauer, Dante- così invidioso dei peccati altrui- e naturalmente Freud.

Vogliamo aprire un capitoletto dedicato all’invidia del pene secondo Freud o restiamo seri?
D’accordo, restiamo seri.

L’autore del libriccino sull’indivia, Joseph Epstein, sostiene che il movimento femminista ‘sia stato costruito su un’invidia impersonale e generalizzata’.
Non crede che il suo motore sia stato un forte senso di ingiustizia, come le femministe sostengono, perché 'invidia e senso di ingiustizia' non sono sempre facilmente distinguibili'.
Dunque: siamo invidiose o patiamo una ingiustizia?
Un criterio per stabilirlo posso offrirglielo io.
Se è disposto da subito, irreversibilmente e senza rimpianto a cedere la sua condizione di maschio in cambio di quella vissuta dalla donna, allora accetto che mi dia della femminista invidiosa, altrimenti taccia: si tenga la sua condizione e anche il suo pene, e taccia.
Naturalmente non c’è alcuna contraddizione rispetto al fatto che io sia comunque felice di appartenere al genere femminile, che considero un più riuscito prodotto della natura.

Ma passiamo ai miei personali morsi di invidia. Io invidio tutti coloro che sanno fare il fischio alla pecorara. Li invidio di invidia vera. Qualcosa nella mia morfologia non funziona perché tento inutilmente da anni di emularli. E’ vero che si diventa verdi di invidia. E’ quello che capita a me se per la strada sento qualcuno che lancia un fischio alla pecorara.
Vedere per credere.

Poi invidio i circa trecento milioni di donne indiane. Loro portano il sari, io no. Loro si avvolgono in sete colorate che lasciano svolare morbidamente e io giro in jeans. Le detesto. Sono cinica lo so, ma se penso ai loro sari penso anche che sono io ad essere nata dalla parte sbagliata del mondo. Per consolarmi debbo ricordarmi che le vedove nella mia parte di mondo non si immolano sulla pira del marito. Tiè!

Poi invidio i tangueri. Li invidio di una invidia feroce. Aspetto sempre che sbaglino un passo, che si calpestino reciprocamente i piedi, che gli si intreccino inestricabilmente le gambe. Se non è invidia questa.

Invidio anche la condizione di ‘primo figlio’ e quella di ‘figlio piccolo’. Un figlio di mezzo è spesso considerato come un intermezzo tra i due figli veri. Un po’ come un sorbetto al limone tra le portate di pesce e quelle di carne. Il sorbetto è fresco e aiuta a digerire ma i piatti forti sono gli altri due.

Poi invidio i bloggers che pirotecnicano i loro blog con foto, musiche, video. Porrò riparo, mi sto già attrezzando, ma intanto li invidio malevolmente.

Sull’invidia non ho altro da dire. Se volete saperne di più:
Joseph Epstein “Invidia “ Raffaello Cortina Editore

mercoledì 13 giugno 2007

bookcrossing che passione

Andato! Ho liberato all’aria aperta il mio primo libro!
È fantastico. Emozionante. E indolore.
Ora sono ufficialmente un bookcrosser.

Il bookcrosser libera libri into the wild. Proprio così, abbandona dei libri. Scriverlo, ma anche solo pensarlo mi procura un brivido. Però il bookcrosser sa come rendere questa atroce pratica umanamente accettabile.

I libri predestinati ad essere liberati infatti sono quelli che il possessore non ama, che considera di troppo ma mai oserebbe gettare via, oppure quelli che ha in doppia copia. Il libro che ho liberato io è un doppione. Regalarmi un libro può essere rischioso. O non mi si conosce abbastanza e allora mi si regalerà un libro che non amerò oppure mi si conosce bene e allora mi si regalerà un libro che probabilmente già ho.
A meno di essere velocissimi e attendere fuori della libreria il giorno di uscita del libro è quasi certo che io lo avrò già acquistato. E forse già letto.

E’ successo così con il libro di Giulio Giorello “Di nessuna Chiesa”. La persona che me l’ha regalato e che fino ad oggi non ne ha sbagliato uno, me lo ha dato mentre già io terminavo di leggere la mia copia. Candidato perfetto per il bookcrossing.
Così l’ho abbandonato sul tavolo di un caffè di una piazza romana. Può sembrare paradossale ma liberare un libro può farti sentire un po' come se lo stessi rubando.
Uscendo dal bar dopo un caffè-alibi, ho posato furtivamente il libro su uno dei tavolini. Mi sentivo un po’ ladra, un po’ spia, un po’ ricercata. Ho attraversata la piazza aspettando di sentirmi richiamare da un cameriere. Invece niente. Tutto liscio. Quando due ore dopo sono ripassata di lì il tavolo era occupato da due ragazze chiaramente in pausa pranzo. Del mio libro non c’era traccia. Chi lo avrà preso? Che cosa ne farà? Lo leggerà?
Forse un giorno sul sito dei bookcrosser, www.bookcrossing.com, mi imbatterò nel mio libro e scoprirò che ha viaggiato nel mondo di mano in mano.
Dal tavolo di un caffè romano, alla panchina di un parco londinese, da una stazione ad un traghetto, alla sala d’attesa di un dentista.
Il bookcrossing crea un’ enorme gigantesca biblioteca circolante, libri che viaggiano da nord a sud, da est ad ovest. Infatti spesso i libri vengono liberati durante un viaggio.
Quale premio attende il bookcrosser? Non solo l’essersi liberato di un libro cui non tiene, in modo fruttuoso, ma anche quello di far circolare un libro che al contrario ama moltissimo. In questo caso ne libererà una copia acquistata appositamente in edizione economica. E’ come gettare un seme, sicuri che germoglierà.

Oltre che liberare i libri io li caccio anche.
Dal sito dell’associazione infatti mi avvisano quando nella mia città sta per essere liberato un libro. Giorno, ora e luogo della liberazione. Potrei appostarmi e attendere di vederlo depositare. Se qualcuno con un’aria un po’ losca e colpevole si avvicinerà sarà il mio bookcrosser.

Il bookcrossing è appassionante come un libro giallo.
Più ancora perché ci si può sentire sia assassino che poliziotto.

professò/spazio in espansione

Uno dei fenomeni che mi ha accompagnata lungo tutto l’arco della mia carriera di insegnante è stata la moltiplicazione degli alunni.
Se c’è una legge di fisica familiare per me, che pure per la fisica sono negata quanto altri mai, è la mirabolante teoria dello spazio in espansione.
Iniziavo l’anno con un numero ics di alunni nella mia classe, in genere fra i 22 e i 24 e lo terminavo con non meno di 30.
Nei primi mesi e fino a dopo le vacanze natalizie mi venivano consegnati alunni provenienti da altre sezioni sulla base di una sola considerazione: i colleghi non li volevano.
Naturalmente nessuno mai aveva il coraggio di una simile dichiarazione. Si preferiva alludere ad una specie di dono, di potere paranormale se non addirittura divino, per cui alunni che incarnavano in toto l’espressione ‘problema grave’, divenivano naturaliter bravi solo perché portati alla mia presenza. Ero considerata un fortunato incrocio tra un esorcista e un domatore.
In linea di principio un nuovo alunno ‘difficile’ mi stava bene. Preferivo di gran lunga occuparmene che pensarlo nelle mani di altri colleghi/e. Già ero meno favorevole al fatto che tutti fingessero di credere che occuparsene non facesse parte del loro lavoro e non divenisse un aggravio del mio.
Comunque se nella scuola c’era una bambina che nessuno mai aveva sentito pronunciare una parola dall’inizio dell’anno, o un ragazzino che batteva regolarmente la testa sul banco, o un altro di cui non si riuscisse a capire se parlasse bergamasco o se attraverso la sua giovane gola il demonio borbottasse maledizioni, o un altro ancora per il quale i compagni erano punching ball, o una ragazzina che bagnava il banco se solo la si chiamava alla lavagna, potevate tranquillamente scommettere che quel bambino e quella bambina sarebbero approdati nella mia classe.
Capitava anche che bambini sistematicamente spediti in corridoio dalla loro insegnante esasperata, chiedessero spontaneamente ospitalità nella mia per tutta l’ora. Per giorni. Finché l’ospite diveniva inquilino.
Confesso che ne ero anche orgogliosa, lo sono tutt’ora e penso che si senta, ma nello stesso tempo ero molto molto arrabbiata con i colleghi che si liberavano di ragazzini e ragazzine come di pacchi ingombranti.
La pagavano alla fine dell’anno quando si tentava di armonizzare il criterio di giudizio fra le varie sezioni e qualcuno si azzardava a dire che i miei alunni abbassavano il livello generale.
Soavemente, ed essere soave non fa parte della mia natura, facevo osservare che i suddetti alunni erano diventati i miei solo perché qualcuno con meno voglia di lavorare me li aveva scaricati.
Per tornare allo spazio in espansione una volta mi fu fatto osservare da un preside che la pressante richiesta che gli proveniva dall’insegnante di lettere di un’altra sezione perché trasferisse nella mia classe due suoi alunni ‘difficili’ era un attestato di stima nei miei confronti e che di ciò avrei dovuto esserle grata.
Fu così che, incontratala nel corridoio, la ringraziai della sua stima nei miei confronti, a quanto pareva incondizionata, e le detti tutta la mia solidarietà per l’evidente disistima che aveva per se stessa.
Aggiunsi anche che la condividevo.

martedì 12 giugno 2007

viziosa

Un paio di anni fa’ La New York Library e la Oxford University Press organizzarono un ciclo di conferenze sul tema dei sette vizi capitali con l’intenzione di riflettere su ognuno di essi.
‘In un’ottica sia storica che contemporanea’ ogni relatore doveva ‘individuare le sfide ideali e concrete che un peccato mortale comporta per la spiritualità, l’etica e la vita quotidiana.’
Dalle conferenze sono nati sette piccoli libri pubblicati in Italia da Raffaello Cortina Editore.
Sono una lettura piacevole e stimolante.


Ma ho scoperto che per me ricordare i sette vizi capitali è un problema.
Me ne manca all’appello sempre uno.
Come per i sette nani.
Infatti al mio primo tentativo di elencarli mi sono accorta che avevo dimenticato la Lussuria. Subito mi sono allarmata. Forse sono una lussuriosa e sto tentando di nascondermelo? Ho ripreso il mio conteggio partendo dalla Lussuria e a questo punto avevo lasciato fuori la Superbia. Ergo sono superba. Sono ripartita ancora e poi ancora e così via. Ogni volta lasciavo fuori, si suppone per un meccanismo di rimozione, uno dei sette vizi capitali. La conclusione è che sono afflitta da tutti e sette. Sembra non esserci peccato capitale dal quale io vada esente.
È quindi stabilito che sono capitalmente viziosa.

A proposito di viziosa mi torna in mente la volta in cui assistetti ad una seduta dell’Assemblea Nazionale a Parigi.

Era il 1987 e Michèle Barzach, Ministre pour la Santé nel governo Chirac, portava in aula un progetto di legge che interveniva sia pure modestamente sulla precedente legge sulle droghe.
La legge in discussione consentiva la vendita libera nelle farmacie di siringhe al fine di evitare la contaminazione dei tossicomani soprattutto con il virus dell'epatite C. Era l’inizio di una sia pur timida politica di riduzione dei rischi in questa materia.
Benché il Governo fosse un Governo di destra e la Ministra tutto tranne un' abolizionista, i deputati della destra stessa oltre agli ultradestri si scagliarono contro il progetto, considerato una specie di via libera all'uso di droghe.
Dal mio posto sui palchi assistetti ad uno scontro infuocato.

Madame la Ministre era in piedi, al centro dell’emiciclo, elegantissima in un tailleur rosso fuoco, e ignorando una gazzarra da stadio, continuava a parlare in difesa della sua proposta.
Intanto intorno a lei i deputati di destra gridavano, lanciavano in aria i loro fogli di appunti, battevano con le mani sui banchi.
Il Presidente dell’Assemblea interruppe due volte la Ministra per ristabilire la calma.
Ma appena lei riprendeva a parlare la gazzarra riprendeva.
Ma non fu questo a colpirmi.
Per me, italiana adusa allo spettacolo delle due Camere del nostro Parlamento tutto ciò era semplice routine.
Fu l’epiteto che ad un certo punto partì da un deputato a colpirmi.
-Vicieuse! Viziosa! Subito ripreso da un altro e da un altro finché un coro di ‘vicieuse!’ coprì la voce della Ministra.
Ecco -mi dissi -trattandosi di una donna sempre lì si va a finire.
La Ministra non parve sconcertata più di tanto. Anche lei si disse evidentemente che sempre lì si andava a parare.
Ma smise di parlare, lasciando sfogare per un po’ i maschi indignati.
Quando riprese a parlare, abbandonò il testo cui fino ad allora si era affidata e si rivolse con grazia ai deputati rabbiosi. -I miei vizi -dichiarò tranquillamente- il Signore li conosce e li custodisce al riparo dei vostri sguardi. I vostri sono pubblici e la Francia intera li vede- Quindi scandì distintamente. -Ces sont l’ agressivité, la vulgaritè et l’imbécilité-

Ciò detto, mentre una specie di insurrezione violenta partiva dai banchi dei deputati incriminati abbassò la voce fin quasi ad un sussurro e riprese a leggere il suo intervento come se in aula fosse sola. Non alzò la testa né la voce fino al termine del suo discorso. Uscì quindi dall’aula sorridente e composta. Fino a me non arrivò ma sono certa che lasciò dietro di sé una scia di delicato profumo francese.
Se avesse aggiunto ‘Vive la France! non avrebbe stonato.


Ai vizi capitali tornerò poi. Oggi mi sento un po' accidiosa.

Intanto voi ripassateveli e guardate un po' onestamente dentro di voi.
Per non farvi impazzzire ve li enumero qui di fila: Accidia, Avarizia, Invidia, Gola, Ira, Lussuria, Superbia.

lunedì 11 giugno 2007

Salto Angel

Sono portatrice di gèni assetati di libertà. Mi sono stati trasmessi da un padre che la sua libertà l’ha usata tutta. Ma poiché la vita di una donna è quella che è, i miei gèni libertari li ho dovuti mettere a cuccia. Per carità, a confronto con molte altre vite di molte altre donne la mia vita non ha subito particolari costrizioni. A parte naturalmente quelle che io stessa le ho inflitto.
Ma se un bicchiere d’acqua basti o no alla nostra sete dipende solo dalla nostra sete. Avendo ereditato la sete di mio padre mi sarei dovuta dissetare al Salto Angel in Venezuela. In Venezuela ci sono stata e proprio con mio padre, ma al Salto Angel non mi ci ha portata. Immagino che ci fosse già stato.

Con il passare degli anni ho sempre più precisamente identificato il campo del pieno affermarsi della mia libertà. Non è vasto eppure è smisurato. Questo campo è quello della mia vita privata. Guai a intralciarmi nei momenti di accudimento della mia vita privata. Se sono a colloquio con me stessa non accetto interferenze. Purtoppo “la vita familiare è un’interferenza nella vita privata”. Lo disse Karl Kraus. Se vi sembra un paradosso i vostri gèni libertari sono fiacchi.

Karl Kraus “Detti e contraddetti”
Adelphi Editore

domenica 10 giugno 2007

un gelato al limone

Il Senatore Buttiglione ha avanzato con la consueta cortesia e proprietà di linguaggio la normalissima richiesta estiva di un gelato.
E noi? Che cosa facciamo noi? Noi lo critichiamo, lo redarguiamo, lo dileggiamo. Alcuni di noi lo insultano. La più parte lo deride.
E tutti giù col solito qualunquismo sulla bella vita dei senatori, sulle spese scandalose del nostro parlamento, e sui costi della politica.
Basta, non se ne può più. Questo è moralismo, è antipolitica!
Non sapete che il bisogno di qualcosa di dolce segnala quello di tenerezza, di affetto, di intimità, diciamolo pure: di amore? Quell’uomo ha solo bisogno di amore.
Buttiglione ha bisogno di amore e noi facciamo del banale moralismo. Vergognamoci!
Piuttosto qualcuno lo avvicini, risponda al desiderio implicito nella sua richiesta.
Come può un intero paese essere così cinico da non rispondere ad una richiesta d’amore?
Che cosa aspettate? Non avete letto?
E’ in attesa di riscontro.

Personalmente non c’è bisogno umano che non mi trovi disposta alla comprensione.
Il mio stesso motto lo dice: nihil humani a me alienum puto.
Purtroppo non ho più l’età per un intervento risolutivo del problema buttiglionesco.
Di conseguenza e a malincuore sono costretta a cedere a qualche giovane donna l’incarico delicato di placare la voglia di tenerezza del filosofo.
No, non sento storie. Poiché va fatto, si faccia.
No, questo sarcasmo non lo posso accettare. Come sarebbe a dire che qui non si tratta di “aliquid humani”? Vergogna, vergogna e ancora vergogna.
Basterebbe il suo solo sorriso ad incantare. E la sua voce? La malia sottile che sprigiona? Come potete essere così insensibili?
Come dite? Buttiglione non è solo in questo bisogno di amore? Qualcun altro si è unito a lui nella richiesta di gelato? La senatrice Albertina Soliani?
Ma allora amiche mie siamo a cavallo! Il vostro intervento non è più richiesto. Rilassatevi, tranquillizzatevi. Andate a prendervi un bel gelato da Giolitti.
Che i due si scambino l’un l’altra quella tenereza di cui con tanto pudore si sono confessati bisognosi. Che copulino infine!

sabato 9 giugno 2007

Bellegra/libero amore e maschere nude

Il collega che insegnava Educazione Musicale a Bellegra era un giovane uomo molto elegante, piccolo, un po’ impettito, ma se snidato pronto a ridere e a scherzare. Era sposato ma aveva una piccola tresca con la collega di lettere di un’altra sezione. Tutti avevamo capito ma loro negavano ostinatamente. Non era questo che mi irritava ma il perbenismo moralista dell’uno e dell’altra. Lei molto puritana, sempre terribilmente giudiziosa e severa nei suoi giudizi morali. Io la salutavo così: -Allora come va “libero amore”?
Ammise che una storia d’amore c’era stata solo quando finì e pianse con noi colleghe. Lui continuò a negare. -Che cosa è successo a T? -ebbe il coraggio di chiedermi -Ha incontrato un figlio di puttana- gli risposi.
Lei abita, come allora, a due passi da casa mia, è nonna ma ogni tanto scherzando la chiamo ancora “libero amore”. Ma adesso lei mi risponde –magari-!

Lui l’ho rincontrato due anni fa’ ad una rassegna per cori. Lessi il suo nome sul programma (direttore di un coro molto importante) e nel grande salone affollato da centinaia di coristi canticchianti mi misi alla sua ricerca chiedendomi se lo avrei riconosciuto dopo trentotto anni esatti.
Non fu difficile, i capelli tutti bianchi, ancora impettito, la stessa eleganza un po’ affettata. Era circondato dai suoi coristi. Mi avvicinai e gli battei sulle spalle-Maestro?-Si girò interrogativo -Le dice niente Bellegra? -Un lungo sguardo e poi -Marina.
Il suo coro fu chiamato sul palco e non potemmo chiacchierare. Ma mentre sfollavamo l’ho rincontrato. Dopo i complimenti- il suo coro aveva vinto la rassegna- e qualche chiacchiera innocente, l’ho preso sottobraccio e- Dai G. adesso me lo puoi dire. E’ vero che avevi una storia con T.?-
Inguaribile, mi ha replicato - Qual’era T.? -Non la ricordo-
-Ma come?-gli faccio-quella che ebbe una storia con un figlio di puttana-.

Questa piccola storia l’ho raccontata perché ieri mattina ho incontrato “libero amore” dal fornaio e lei mi ha chiamata ”maschere nude”.
Già a Bellegra mi chiamava “maschere nude”: un po’ per via della mia tesi di laurea sul teatro di Pirandello, ma molto perché secondo lei non sapevo mentire. Non è vero, io so mentire benissimo, ma non abbastanza bene per lei e soprattutto non abbastanza.
E invece a suo parere mentire era essenziale. Al Preside, al commissario ministeriale al momento degli esami di licenza sul programma svolto, in provveditorato per racimolare punteggio con corsetti vari dove passavamo di sfuggita, a madri e padri minacciando terribili sanzioni se non mandavano i figli a lezione e soprattutto agli alunni. -Solo un po’ -mi diceva-non devono sapere che poi li promuoverai- Figuriamoci, era la prima cosa che dicevo loro.
-Tranquilli, non sono qui per bocciare nessuno di voi. Ma datemi una mano-

Questa mattina quando l’ho rassicurata circa un’operazione chirurgica che io ho già sostenuto e che lei affronterà fra breve -maschere nude!- mi ha detto ridendo.
Vai tranquilla “libero amore” le ho risposto.

venerdì 8 giugno 2007

professò/bellegra/due

A Bellegra ho costruito la mia etica di insegnante riassumibile in un solo articolo: promozione significa promozione sociale.
So che questa corrente di pensiero è molto contestata, soprattutto oggi, ma io mi sento di sostenerla ancora per moltissime situazioni. In ogni caso per la scuola dell’obbligo.
“Scuola dell’obbligo” è un’espressione orrenda che sovverte completamente il senso di una scuola pubblica. E poiché il linguaggio non solo rispecchia ma plasma anche la realtà ha fatto un sacco di danni.
“Scuola del diritto minimo” era l’espressione che usavo allora riferendomi alla Scuola Media. Io ero a quei tempi molto ideologica, come tanti di noi, e se ho poi dovuto riconoscere che le gabbie di una ideologia costringono all’inoperosità tante nostre energie, e impacciano il nostro spirito critico, ancora mi sento di affermare che, tolte le scorie, senza una ideologia di base si è un po’ come una barchetta di carta lanciata su un mare mosso. A me sembra che il nostro presente mi dia ragione.

E’ stata l’ ideologia che ha fatto sì che al momento di diventare di ruolo, dovendo scegliere fra la cattedra di Italiano e Latino ai Licei e quella di Lettere alle Medie, scelsi senza nessuna esitazione la Scuola Media. Non me ne sono mai pentita.
Il fatto è che mi sentivo utile. Pensavo di fare qualche cosa di importante, anzi essenziale per il mio paese.
Il concetto di “mio paese” io me lo sono costruito nei primi due anni di insegnamento a Bellegra. Potrà apparire romantico, enfatico, retorico, bolso, ma quello che io sentivo era esattamente questo: io non stavo andando a Bellegra su un camioncino assieme a delle pecore per portare a casa a fine mese il mio modesto stipendio. Di cui pure avevo bisogno. Io stavo andando ad insegnare le cognizioni di base ai più svantaggiati tra i ragazzini italiani, perché potessero avanzare nella società e la società grazie a loro. Loro erano la mia sola idea di patria. Per loro avrei fatto carte false. E qualche volta le ho fatte.

a colazione con Seneca

Spero che non vi dispiaccia se questa mattina insieme al cornetto e al cappuccino vi servo un po’ di Seneca.
Il fatto è che secondo me qualunque cosa accada bisogna sempre tornare a Seneca.
Eventualmente piangere un po’ ma poi tornare a Seneca.

Sul momento la sua lezione sembra dura. Ma poi piano piano il suo ragionare ti entra dentro. Infatti Seneca non ti chiede di credere, neanche a lui. Ti dice: ragiona, rifletti, domandati, pensa, esamina, osserva.
Hai la tua ragione. Usala. Rendile l’omaggio che merita: usala.

Vita/tempo

La maggior parte dei mortali si lamenta dell’avarizia della natura, perché noi siamo generati per vivere un’età breve, perché gli spazi del tempo che ci è dato precipiterebbero giù...velocemente... in modo travolgente...
Perché ci lamentiamo della natura? Lei si è comportata generosamente. La vita se sai servirtene è lunga.

Non exiguum temporis habemus sed multum perdimus.
Non accipimus brevem vitam sed facimus. Non abbiamo poco tempo, ma molto ne perdiamo. Non riceviamo una vita breve, breve la facciamo noi.

Exigua pars est vitae qua vivimus. Ceterum quidem omnem spatium non vita sed tempus est.
Piccola è la parte di vita in cui viviamo veramente. Tutto lo spazio che rimane non è vera vita ma tempo.


Il problema che Seneca ci lascia davanti, perché Seneca i problemi non ce li risolve ma ce li propone, è quello di trasformare questo tempo che la natura ci ha dato in vita.

Io non posso che rivolgervi il mio augurio: che questa giornata che vi preparate a vivere sia per voi vita e non tempo.

Lucio Anneo Seneca
De brevitate vitae

giovedì 7 giugno 2007

omissione di soccorso

La signora avanza sul grande viale a bordo della sua piccola vettura in una pioggerellina sottile. D’un tratto poco più avanti un motorino slitta sulle rotaie del tram, avanza ancora un po’ zigzagando quindi si rovescia.
Tra le vetture che procedono sul viale nessuna si arresta. Infastiditi gli automobilisti evitano l’ostacolo e passano oltre. La signora accosta e accorre.
Una ragazza si rialza, fortunatamente incolume. Assieme spostano il motorino sul marciapiede. Dai negozi escono diverse persone. Qualcuno porta dell’acqua alla ragazza. Ha i jeans rotti all’altezza del ginocchio, una escoriazione pronunciata. La signora si offre di accompagnarla al vicino ospedale per una medicazione. La ragazza rifiuta. Minimizza. Dal bar accanto telefona perché vengano a prenderla. I curiosi si allontanano. La signora resta a farle compagnia. Prendono insieme un cappuccino.
-È stata la rotaia bagnata che mi ha tradito- sentenzia la ragazza. La signora le fa osservare che se avesse camminato sulla destra e non al centro della strada la rotaia non l’avrebbe tradita.
La signora ha una figlia che guida un motorino e tutte le spericolate manovre dei motorinisti la allarmano. La ragazza ride.
Quando il suo amico arriva la ragazza e la signora si salutano.- Grazie- dice la ragazza- Di niente- dice la signora- e occhio alle rotaie-.


Qualche mese dopo alla signora arriva un plico molto ufficiale in cui la si accusa di omissione di soccorso. Ha investito la ragazza e l’ha poi abbandonata sul ciglio della strada, vi si dice.
Questo è l’inizio di una storia durata anni che ha consentito alla signora di apprendere diverse cose.
Innanzitutto che, per quanto questo possa sembrare incredibile, c’è gente che per farsi ripagare da altrui le spese per un danno al proprio mezzo di locomozione e magari lucrare qualcosina, è pronta a tutto.
In secondo luogo che la pratica di accusare un innocente soccorritore di essere il responsabile del proprio incidente è molto diffusa.
L’avvocato che assistette la signora le raccontò il caso di un suo assistito, il Cardinale M. che, contrariamente all’opinione del proprio autista, fece arrestare la sua Mercedes sulla via del Mare per soccorrere un ciclista scorso a terra. Fu poi accusato da questo di averlo investito. Dove si dimostra che i Cardinali hanno più misericordia ma i loro autisti più lungimiranza.

Per tornare alla nostra storia, alla lunga la verità trionfò, ma prima la signora si vide rinviata a giudizio e quindi processata.
Di fronte all’ inconsistenza dell’accusa fu il Pubblico Ministero stesso che chiese l’assoluzione per la signora.
Ma si dà il caso che in quel periodo della sua vita la signora avesse il più instabile e precario degli equilibri psichici e che al fondo del suo animo giacesse un nucleo inesauribile di senso di colpa.
La signora sapeva di non aver mai investito la ragazza in motorino, e di non averla abbandonata ferita sul ciglio di una strada, ricordava perfettamente tutta la sequenza degli avvenimenti ma contro il senso di colpa non possono niente né i più precisi ricordi, né i più logici ragionamenti.
La signora continuò a sentirsi colpevole.
Neanche l’essere infine assolta le portò un po’ di pace. Gli errori giudiziari esistono, no? Restò ai suoi stessi occhi colpevole di omissione di soccorso per molto, molto tempo. Quando risalì ad una visione più equilibrata della realtà, finalmente la signora si arrabbiò. Si arrabbiò molto. Pensò anche di citare la ragazza per danni psichici.

Da allora la signora non soccorre più nessuno. Feriti lievi o gravi, morenti, rantolanti, esanimi, tutti li aggira elegantemente con la sua vetturetta e prosegue per la sua strada. Aspetta fiduciosa che qualcuno la incrimini per omissione di soccorso.
Se cercate soccorso rivolgetevi altrove. C’è il rischio che la signora lungi dal soccorrervi vi passi sopra. Al vostro posto non conterei neanche sul soccorso del Cardinale. Stando a quanto dichiarò al suo avvocato neanche lui è disposto a porgere l’altra guancia.

senso di colpa

Rimproverami
Nessuna accusa verrà contestata
Tutte da subito
Le accetto come meritate

Rimproverami
Non mi difendo
La colpa è certa
Come albe e tramonti

Rimproverami
Fallo per me
Fallo al mio posto
Toglimi un peso

Se mi rimprovererai
Ascolterò la tua voce
Come fosse la mia voce
Solo più mite e paziente
Meno carceriera e inappellabile

Non c’è -io credo- a Berlino
Un giudice per assolvermi
Né un foro che mi liberi
Da questa mia colpa:
Esistere.
m.p.


Roma 1999

mercoledì 6 giugno 2007

bilico

Cade. Non cade.
Non telefonatemi più. Non lo so. Non lo sa nessuno.
E’ questo il bello di un Governo così parcellizzato. Che nessuno ne conosce la sorte. Essa giace sulle ginocchia di Giove.
O di Mastella. O di Di Pietro. E così via....
Comunque non sulle mie.

audizione

Il mio secondo maestro di voce era un americano, nero, molto bravo, spessissimo impegnato in spettacoli di lirica o in musical. Era molto severo ma sempre cortese. Accettava di dare lezioni private solo dopo audizione.
Un’audizione vocale è peggio di un intervento chirurgico all’addome. In entrambi i casi si tratta di tirare fuori le proprie viscere, solo che in un’ audizione non c’è anestesia. Non ho scelto il paragone a caso: avendo subito sia l’intervento che l’audizione parlo con cognizione di causa. Potete non credermi ma cantare, tirare fuori la propria voce-cantante, implica una totale rinuncia a qualunque forma di riservatezza, bisogna lasciarsi andare senza vergogna. Ad esclusione dei nostri organi interni non abbiamo niente altro così nascosto e intimo come la nostra voce-cantante. Liberarla ed esporla davanti a qualcuno che è totalmente concentrato nell’ascolto è davvero difficile. Più ancora del giudizio che seguirà, è proprio il doversi consegnare con la propria voce nuda che spaventa. Comunque io volevo andare a lezione da T.M. e quindi non avevo scelta. T. faceva accompagnare i suoi allievi da F. un italiano bravo al piano almeno quanto lui come cantante.
Insieme erano una coppia da brivido. F. si mise al piano e iniziammo. Alle audizioni T. non voleva ascoltare l’aspirante allievo in esercizi di agilità, o potenza, no, niente vocalizzi, lui voleva che si cantasse un pezzo. Lo sceglieva lui all’interno del mucchietto di spartiti che portavamo. Scelse per me “Le secret” tratto da “La bonne chanson” una raccolta di poesie di Verlaine musicate da Gabriel Fauré. Musica del primi del ‘900, molto bella, non facile. Controllai rapidamente, sì solo un paio di sol acuti, niente di più alto. Intanto T. stava in piedi e mi girava intorno, verificava tutto, la posizione del corpo, le spalle, la testa, l’appoggio al suolo, si avvicinava a sentire il mio respiro, mi dava minuscole spinte per vedere se ero salda sulle gambe, toccava le braccia, per controllare se erano rilassate, insomma un tormento. La posizione doveva essere insieme salda e rilassata. E quanto alla voce: -questa no- disse imperativo, appena aprii bocca. -Come questa no? Ho solo questa- replicai -Niente affatto. Questa non è la tua voce vera- Feci un nuovo tentativo. -Non ci siamo-insistette.
-Senti, mi dispiace farti perdere del tempo ma la mia voce è questa, se non va non va-Volevo solo fuggire.
Fidati- disse lui-questa è la tua voce pubblica. Io voglio sentire quella privata.
Quando studi a casa ti ascolta qualcuno? -mi chiese. Il mio cane e la mia gatta si allontanavano infastiditi appena iniziavo a cantare, mio marito metteva almeno tre porte tra di noi. Insomma non ero sola ma era come se lo fossi. Eppure io stessa sapevo che se ero perfettamente sola in casa cantavo in tutt’altro modo e mi piaceva molto di più.
-Adesso devi rendere pubblica la tua voce privata- disse fermo.
Confessai che ero troppo agitata e mi vergognavo troppo. Ero pronta a rinunciare alle sue lezioni.
Ma T. era abituato a queste schermaglie, come seppi poi. Vieni con me-disse e mi fece spostare in un piccolo giardinetto interno, una palma circondata di edere e alcune ortensie, su cui si apriva il suo studio. Lui rientrò nella stanza. -Quando sei pronta comincia direttamente- disse. Respirai, respirai e ancora respirai. Mi maledissi. E poi cominciai.
Appena iniziai a cantare, dall’interno partì il suono del piano a sostenermi. Mi rinfrancai. “Le secret” è una bellissima poesia d’amore e la musica di Fauré è bellissima a sua volta e il giardinetto anche mi parve bellissimo e insomma piano piano mi lasciai prendere da tutta quella bellezza, e soprattutto dal piacere di aprire la gola e lasciar uscire la voce, dalla gioia che mi dà cantare. Sapevo che T. era lì a vivisezionare la mia voce ma per la durata del pezzo me ne dimenticai. Quando terminai e rientrai nella stanza T. ridacchiava assieme al suo compagno. Sembra che il sistema del giardinetto sia la loro carta vincente di fronte alle resistenze di noi allievi. Comunque dichiarò che c’era da lavorare all’infinito perché la mia voce si educasse, che sbagliavo tutti i respiri, che i salti di note erano terribili, che i sol erano duri e non so più cos’altro. Però la mia voce privata gli piaceva e mi avrebbe dato lezioni. Con T. ho studiato solo un anno, ma è stato un anno bellissimo.
Quanto alla mia voce privata, ogni tanto non voleva uscire fuori. Allora da sola me ne andavo nel giardinetto e lì la ritrovavo che mi aspettava tra la palma e le ortensie.
Nel coro dove canto ora la mia voce privata non la porto quasi mai. Qualche volta sull’onda dell’entusiasmo per qualche brano che mi piace particolarmente sento che vuole uscire, ma decisa riafferro le mie viscere e le rimetto al loro posto.

Ci tengo a dichiarare che almeno una delle mie gatte attuali adora la mia voce, pubblica o privata che sia. Appena inizio a cantare mi si sistema davanti in una vera e propria posizione di ascolto e non si allontana se non quando ho terminato.
E qualcuno sostiene che gli animali non hanno un’anima!

viva gli sposi

Vestita in un conturbante abito blù Carla fa il suo ingresso nella sala dei matrimoni civili alle Camenee mentre noi le cantiamo “Gli aranci olezzano” dalla Cavalleria Rusticana.
E’ moderatamente emozionata. Lo sposo anche. Sono belli, eleganti e allegri. Noi coristi no.
Chi in pompa magna, chi piùcasualdicosìnonsipuò, chi in sandali, chi in Clark, chi in scollato nero osé, chi in jeans, chi in cravatta rosa. Le cravatte rosa secondo me andrebbero vietate per legge. Il nostro maestro è semplicemente splendido.
La bellissima testa da uccello, il capo perfettamente calvo, la figura elegantissima.
Ce lo contendiamo. Lui si schernisce.
Il dilemma della giornata è stato: piove? non piove? farà freddo? farà caldo? Ogni tanto qualcuno mi telefona: che ti metti?
Li depisto: -in lungo. -In lungo? -Sì, molto molto lungo-Non mi crede nessuno. -Allora che ti metti?-

Siamo un’accozzaglia di stili, ma cantiamo divinamente. È l’entusiasmo di cantare ad un matrimonio invece che ad un funerale, dei pezzi d’amore invece che dei requiem, un ritmo brasilero invece di una fuga di Mozart. Non fraintendetemi noi adoriamo le fughe di Mozart, ma volete metterle con “amar è um deserto e seus temores...
Tanto che la sposa appena sbrigata la faccenda viene a cantare con noi. Lo sposo la segue a ruota.
Sposarsi a cinquant’anni. Incomparabilmente più sciolto.
Una collega di sezione corale, che assiste al suo primo matrimonio civile, mi avvisa: --ho gli occhiali scuri perché ai matrimoni piango sempre. Non meravigliarti.-
Io non piango. Sono molto più sadica: io rido.
In un quarto d’ora siamo entrati ed usciti. Gli ultimi brani li cantiamo sul prato in un’atmosfera goliardica.
Mentre riaccompagno la corista sentimentale alla Metro, commentiamo la cerimonia. Le sfugge dal cuore un sospiro di delusione: -non ho fatto neanche in tempo a piangere-.

martedì 5 giugno 2007

intramuscolo

Memore di essere nell’anno del “ Non ti meravigliare mai” osservo senza battere ciglio quello che accade intorno a me. Avanzo minute proteste, verso politica, società et affini, ma più che altro per tenermi allenata per l’anno prossimo, quando il mio motto sarà diverso e magari potrò o forse dovrò meravigliarmi.
Comunque questa mattina non meravigliarmi è stato davvero difficile.

Autobus. Una povera folle scatenata, molto nota sulla linea del 71, inveiva sempre più violentemente contro un giovane nero già di suo prostrato da pesantissime scarabattole. Sembrava che da un momento all’altro la donna potesse scagliarsi fisicamente contro il malcapitato cui gridava –schiavo, lavami i cessi, tu e le tue lesbiche-e cui si faceva sempre più sotto.
Poi un correttissimo signore, sorridente, tranquillo, per nulla turbato a differenza di tutti noi, le si è avvicinato mentre noi habituées gli facevamo cenno di no con la testa, e le si è rivolto con questa semplice frase: -capisco il suo problema signora e le do un consiglio: dovrebbe imparare a farsi le iniezioni-
Siamo rimasti tutti immobili a guardarlo. Anche la signora. Lui glielo ha ripetuto ancora una volta: -basta che lei impari a farsi le iniezioni signora e tutto andrà a posto-
Bhe, è andato a posto. Lei ha continuato a bofonchiare tra sé e sé, sempre più debolmente, poi ha taciuto. Lei scende sempre alla mia stessa fermata.
Prima di scendere ha fatto un ciao civettuolo con la mano al signore che ha risposto con un sorriso.
Mi sono sentita autorizzata ad una modica dose di meraviglia.

che dire

Che dire di un paese che chiama l'extra-gettito fiscale "tesoretto"?
Giornalisti, uomini politici di ogni tendenza, ministri della repubblica, sindacalisti, industriali....
Fin qui non ho sentito Padoa-Schioppa chiamarlo così.
Se dovesse accadere penso che emigrerò in un paese più serio.

E Brunetto Latini e il suoTesoretto ?

Io Burnetto Latino..
poi vi presento e mando
questo ricco tesoro,
che vale argento ed oro:
sì ch'io non ho trovato
omo di carne nato
che sia degno d'avere,
né quasi di vedere,
lo scritto ch'io vi mostro
in lettere d'inchiostro.

Sotto la pioggia di fuoco del VII cerchio, III girone dell' Inferno, quello dei sodomiti, il grande erudito del XIII secolo, giurista e retore, avrebbe credo ulteriore motivo di ira.

ciao

Angelo mio, m'immaginavo
che volassi in uno spazio
siderale e invece
sei comparso a quattro zampe
sotto forma d'animale.
Ora di me si dice che ho perso
il senno e il senso delle
gerarchie e delle proporzioni.
Ma la tua bestiale incarnazione
conferma solo che la metafisica
dimora non in cielo,
ma all'altezza dei talloni.

Franco Marcoaldi
Animali in versi
Giulio Einaudi Editore

lunedì 4 giugno 2007

professò/bellegra/uno

Poiché la verità va detta fino in fondo: non solo sono stata una insegnante ma sono stata anche una buona insegnante. C'è il rischio che io sia stata addirittura un'ottima insegnante.
Eppure ho iniziato senza nessuna vocazione. Avrei voluto lavorare in un giornale, ma non sapevo da dove cominciare e poi l' insegnamento era il sistema più rapido per diventare economicamente indipendente.
Ma la prima volta che entrai in una classe (Scuola Media di Bellegra, provincia di Roma, un 5 di ottobre) e vidi di fronte a me quei venticinque ragazzini con le loro facce piene di curiosità e aspettativa, mi innamorai della scuola. E di tutti loro. I miei alunni li ho amati tutti, nessuno escluso. Anche quelli che mi erano antipatici. Questo è complicato da spiegare, dovrete credermi sulla parola.
Comunque io li ho amati e loro hanno amato me. Nei ventidue anni in cui ho insegnato ho ricevuto una quantità smisurata di amore. E mi sono divertita pazzamente. Mi sono anche sfiancata di fatica malgrado quello che comunemente si crede degli insegnanti.

La mia prima scuola era a 70 km da Roma e a 500 m. di altitudine, io mi svegliavo all'alba per prendere la corriera delle 5 e 45 da Porta Maggiore. Tre volte a settimana la corriera non arrivava fino a Bellegra. Mi lasciava invece al bivio per il paesino di Roiate, e da lì proseguivo a piedi, su una salita che tagliava le gambe, per un chilometro e settecento metri.
Eravamo in due a venire da Roma in corriera. L’altra era la mia amica Nuccia, compagna di banco al liceo, compagna lungo tutta l’università ed ora collega.
Se il preside era di buon umore incontrandoci mentre arrancavamo ci dava un passaggio, se invece era irritato passava rapido sulla sua alfetta e ci attendeva sulla porta della scuola guardando nervosamente l'orologio. L’alfetta del preside era il sogno proibito che ci accompagnava lungo la salita, non solo perché ci poteva risparmiare quei millesettecento metri da percorrere con ogni tempo, neve non esclusa, ma anche perché conteneva una vaga promessa di caffé. Infatti il nostro preside ne era un adoratore e teneva sempre un pacchetto di caffè macinato di fresco sul cruscotto. Era così che profumava l’auto.

Bellegra era un paese minuscolo con una economia fatta di poche cose.
Poca agricoltura, il terreno era scosceso, allevamento di ovini e un vino molto meno buono di quello di Olevano perché i vigneti ricevevano meno sole.
I miei primi alunni erano un po’ selvatici, “ruspanti” li chiamava Nuccia, ma svegli e curiosi.
Mi portavano dei fossili bellissimi che raccoglievano portando le loro pecore al pascolo. Li ho ancora, forme di pesci, di conchiglie. Ma portavano in classe anche i pugni di ferro. Io non ne avevo mai visto uno e presto ne sequestrai una decina. Anche quelli li ho ancora. Così come ho ancora i pettini intagliati nel legno e poi dipinti che mi regalavano. Esattamente gli stessi che ho poi trovato nelle campagne intorno a Teheràn e se non sapessi la storia di ognuno di loro potrei confonderli.
Nella forra intorno a Bellegra vivevano ancora i gatti selvatici, non gatti fuggiti o spersi e tornati ad una vita vagabonda, no, proprio il felis sylvestris.
I miei alunni tentavano di catturarli, era una delle prove di coraggio per i maschi, ma non mi risulta che ne abbiano mai preso uno.

Da Bellegra veniva il mio cane Buck. Un ragazzino portò a scuola sette cuccioli, affranto dalla minaccia del padre di affogarli.
Ce ne distribuimmo sei fra colleghi e per un po’ di giorni tenemmo nella scuola il settimo nascondendolo al preside. Era tutto un cospirare, tutto un tacito discutere su una possibile soluzione.
Una mattina il preside entrò nello stanzino del bidello mentre questo dava al cucciolo della mollica di pane imbevuta di latte.
-Ma che fai? Questo cane va allattato!- E se lo portò a casa.
Il mio primo preside era un burbero benefico, era umorale, collerico, ma buono come il pane. Con o senza latte.
Aveva perso una figlia molto giovane e disse subito apertamente che io gliela ricordavo. Qualche volta mi trattava proprio come una figlia: -dove va senza cappotto-? ma lei non mangia mai a merenda? -Nelle ore di buco mi lasciava leggere in Presidenza, l'unico ambiente riscaldato; ma qualche altra volta ricordandosi dolorosamente che non ero sua figlia mi aggrediva: -che cosa fa qui? vada da qualche altra parte! Sparisca!

Eravamo tutti insegnanti a tempo determinato. Non potevamo fare più di cinque giorni di assenza per malattia in tutto l’anno scolastico, pena la perdita del posto.
Io non li ho mai utilizzati. Non per moralità ma per puro terrore.
Ogni volta che mi ammalavo pensavo che era meglio tenere i cinque giorni per un male più grave e con qualunque malanno andavo a scuola.
Tutti si andava a scuola comunque, anche in caso di scioperi dei mezzi, frane, terremoti, smottamenti, alluvioni e incursioni di alieni.
Niente mai giustificava una assenza.

E’ così che Nuccia ed io una volta arrivammo a scuola su un camioncino scoperto che trasportava del bestiame. Dietro, assieme al bestiame stesso. Faceva un freddo cane, noi ci tenevamo attaccate ai bordi per non cadere, ma nelle curve il camioncino sbandava facendoci scivolare contro le pecore. Ridemmo fino a sentirci male, ancora oggi quando vogliamo tirarci su reciprocamente basta che una dica all’altra: ti ricordi quella volta a Bellegra sul camioncino...
E’ anche così che una volta arrivai a scuola seduta accanto all'autista del carro funebre che saliva a Bellegra a prendere un morto. Eppure, mai stata viva come a quei tempi.