sabato 26 maggio 2007

professò/tre

Per tornare ai consigli di classe allegrotti che si tenevano a Marino.

Io approfittavo di quell'allegria per estorcere ai miei colleghi, soprattutto quelli di matematica, piccoli decimali di punto in favore dei miei alunni.
I miei rapporti con i colleghi di matematica sono sempre stati critici.
I matematici ritengono che la verità risieda nell'esattezza e spesso è così, ma sembrano ignorare che, ammesso e non concesso che un'età dell'esattezza arrivi mai per noi, l’ adolescenza è per definizione l'età dell'approssimazione.
Inoltre sembra che lo studio della matematica renda i matematici refrattari alla misericordia. La realtà è che erano per lo più uomini e consideravano fallimentare la loro vita lavorativa. Pieni di livore per lo stipendio risibile e l'inesistente prestigio sociale, i matematici scaricavano sugli alunni la loro frustrazione. Naturalmente c'erano delle eccezioni. Me ne viene in mente una, ma forse non fa testo, perché era una donna. Considerava la matematica la più creativa e fantasiosa delle materie e come tale la insegnava.
Se entravo in classe e trovavo i miei alunni ammucchiati uno sull'altro, impegnati accanitamente su fogli e fogli, Bice era passata di lì. Aveva seminato un dubbio e bisognava attendere che quel dubbio venisse sciolto.
Talvolta la dovevo cacciare dall'aula, rivendicando il mio diritto di fare lezione. Se ne andava brontolando: proprio adesso! Bice era sì matematica, ma donna.

Eppure sere fa’ ho sentito un professore universitario di filosofia, che viene tout court chiamato filosofo, e che secondo me si dedica troppo alla politica e troppo poco alla speculazione, dichiarare in televisione senza nessun senso del ridicolo, che la scuola italiana va vieppiù peggio perché vi insegnano sempre meno uomini!
Io ho avuto ottimi colleghi maschi, e straordinarie colleghe donne, oltre ad una pletora di brave persone senza nessun talento per l’insegnamento.
Ho avuto anche come colleghi/e un bel po’ di persone niente affatto brave, persone che volentieri avrei restituito al mercato perché li collocasse altrove.

Quelli che più ho odiato erano quelli che mettevano paura ai miei alunni.
Quelli che me li spaventavano, a cui al cambio dell’ora dovevo consegnarli terrorizzati.
A quelli ho fatto una guerra spietata e non sempre leale.
Appena ricevevo a voce o in qualche tema la notizia del crimine (quel professore ci fa paura), provvedevo a ricollocarlo al suo posto nella immaginazione dei miei alunni.
Se era un uomo, prima di lasciare l’aula tenevo alla classe un discorsetto che suonava più o meno così: “Allora, sta per entrare xy. Non dovete averne paura. Non è un dio, è un uomo come vostro padre.
Quando lo vedete entrare, pensate che muore di sonno perché si è svegliato presto, ed era troppo stanco per lavarsi.
La camicia se l’è dovuta stirare da solo perché la moglie lo ha mandato a quel paese e gli ha detto che se non si lava le ascelle lei la camicia pulita non gliela fa più trovare. (Il particolare delle ascelle lo inserivo perché così con una fava prendevo due piccioni).
Nel pomeriggio deve andare dal dentista ma ne ha una paura terribile perché è un vero fifone, inoltre è preoccupato perché non ha i soldi per arrivare alla fine del mese.
Il figlio più grande fa le medie come voi e va malissimo in matematica.
Quando usciamo da scuola e prendiamo la corriera è talmente stanco che piomba addormentato a bocca aperta. E russa. Credetemi non dovete averne paura. E’ un poveretto.”
I ragazzi mi guardavano ad occhi spalancati e una piccola onda di sollievo cominciava a sollevarsi dalla classe. Quando il collega entrava gli lasciavo una classe in cui il timore cominciava a sfumare nella pietà e talvolta nella derisione.
A lui sorridevo angelica.

Se poi la “cattiva” era una professoressa, poiché come tutte noi poteva essere molto più cattiva di un uomo, e io più cattiva di lei, affondavo davvero il coltello.
La poveretta veniva descritta in tutte le sue miserie, la sua immagine pubblica smontata pezzo a pezzo e l’inflessibile giudice dei miei ragazzi era ridotta nella loro immaginazione ad una creatura degna di compatimento se non di dileggio.
Non che il problema fosse così risolto per sempre, ma per la prima mezz’ora funzionava. Guadagnavo per i miei alunni una mezz’ora di sollievo. Poi i colleghi sadici riassumevano intero il loro potere terrorizzante.
Ma la settimana dopo, implacabile, io ricominciavo, inventando sempre nuove storie e particolari sempre più meschini.
Una sola volta un collega sospettò qualche cosa. -Sai niente chi ha detto in prima che io russo?- Perché tu russi? -Certo che no!- si inalberò lui.- E allora che ti frega?-
Insegnava matematica ma la logica non era il suo forte e la risposta lo azzittì.

La verità è che l’unica ma proprio l’unica cosa che mi vedeva davvero inerme di fronte ai miei alunni, dai quali normalmente esigevo ed ottenevo rispetto, era la loro paura.
Se nel rimproverarli toccavo qualche corda che li intimoriva e me ne accorgevo, ero finita. Ero capace di qualunque cosa pur di scacciare il timore dai loro occhi. Non c’era minaccia che non fossi pronta a rimangiarmi, né spettacolo clownesco al quale non mi abbandonassi volentieri. E finché anche la più piccola ombra di paura non era scomparsa dal loro sguardo non finivo di stare in ansia.
Un alunno di terza, immagino che sarà diventato uno psicologo, scrisse su un tema: la professoressa di lettere ha paura che abbiamo paura. Forma poco sciolta ma concetto chiarissimo. Otto.

2 commenti:

  1. Bellissimo anche questo post! Vorrei che i miei figli incontrassero insegnanti come te.
    Lo faccio leggere subito al grande (14 anni).

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  2. grazie, comincio a confondermi.

    ce ne sono di insegnanti bravi nella scuola, ma non se li fila nessuno

    ciaomarina

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