lunedì 21 maggio 2007

Manfred von Richthofen

Una strada dritta, dissestata e sassosa attraversava quell’unicum desertico che prima si chiamava Iran e poi diventava Afghanistan.
Nessun segno naturale segnava questo passaggio. Deserto piatto prima, deserto piatto dopo. In mezzo una baracchetta, l’ultimo avanposto iraniano nella strada da Mashad a Herat, in Afghanistan.
Da diverse ore correvamo su quella strada nel niente senza incontrare anima viva.
Ci avvicinavamo al posto di confine quando sentimmo dietro di noi il rombo di un motore potente. Ci seguiva una grossa moto che sulla strada stretta e semighiaiosa esitava a superarci. In prossimità della baracchetta la strada si allargava.
Arrestammo la macchina davanti al posto di controllo e mi preparavo a scendere (in quanto parlante “farsi” toccava a me ogni rapporto con le autorità) quando la moto ci aggirò, facendo schizzare sassi intorno a sé e fermandosi a meno di un metro dalla costruzione. Il più strabiliante spettacolo ci folgorò. Erano due uomini, anzi due superuomini, no meglio due supereroi.
Tra loro parlavano italiano con un forte accento lombardo.
Quello alla guida indossava un giubbotto di pelle marrone con le spalle imbottite, un casco in cuoio e grandi occhialoni. Appena lo vidi pensai a Snoopy vestito da Barone Rosso come lo disegnava Schulz. Al collo gli svolazzava una sciarpa. Quello dietro, invece di pantaloni e giaccone portava una tuta scura in pelle e grossi scarponi. La sciarpa regolamentare anche al suo collo. C’erano circa quaranta gradi e io, in previsione dell’incontro con le guardie di frontiera, avevo appena preso un golfetto di cotone da mettere sopra la maglietta scollata che indossavo. Anche tenendo conto che viaggiavano in moto quella tenuta doveva far soffrire non poco i due esploratori.
Ma loro sembravano soddisfatti. Li riconobbi immediatamente come appartenenti a quel tipo umano che interpreta il ruolo di avventuroso in film di cui è protagonista, regista e in quel caso anche costumista. Ma non fu quello che me li fece ferocemente odiare, quanto il fatto che, scesi dalla macchina, si diressero spediti alla costruzione passandoci davanti. O meglio, tecnicamente erano arrivati prima di noi avendoci superati negli ultimi due metri, ma nella realtà fattuale erano dietro di noi.
Di qua e di là il deserto, nessuna meta visibile per ancora molti chilometri, appuntamenti urgenti improbabili. Dove correvano conciati in quel modo? Perché mi stavano passando avanti? Eravamo alla posta?
Balzai fuori dalla macchina come colpita da una scarica elettrica e scavalcandoli piombai nella baracchetta dove due giovani soldati seduti dietro un tavolinetto difendevano il territorio iraniano. Nel mio più veemente e concitato “farsi” li informai che io ero arrivata prima e che quei due stranieri volevano passarmi avanti.
Speravo che Allah riversasse su di loro e le loro famiglie tutte le sue benedizioni e li pregavo di esaminare i miei documenti.
I due soldatini rimasero interdetti da quella mia entrata teatrale ma simpatizzarono subito con me e invitando il Barone Rosso e il suo amico, che intanto si erano ripresi dalla sorpresa, ad aspettare fuori, presero i miei documenti e iniziarono a scriverne i dati sul loro registro. Intanto io li intrattenevo chiacchierando del più e del meno, le condizioni del loro lavoro, la durata dei loro turni, il loro villaggio di origine.
Ce la sbrigammo in pochi minuti ma prima di uscire li avvisai che i due tipi che stavano fuori erano carichi di macchine fotografiche con cui volevano fotografare me e mia figlia e il panorama intorno. Questo delle foto era stato il tormentone per tutto il viaggio da Teheràn a Mashad. Appena tentavamo di farci una foto, dal nulla spuntavano dei soldati che o volevano requisirci le macchine fotografiche o ci costringevano a consegnare i rollini o nella migliore delle ipotesi ci scoraggiavano dal ripetere l’esperienza con modi bruschi. Lo Shah-in-Shah che appariva su tutti i tabloid del mondo odiava che nel suo paese si riprendesse anche il nulla.
Una luce omicida si accese negli occhi dei soldati e mentre uno veniva ad alzare la sbarra che divideva i due paesi, l’altro si avvicinava minaccioso ai poveri lombardi. Ce li lasciammo alle spalle perplessi e ignari. Non sapranno mai che cosa fosse accaduto né perché furono trattenuti tutto quel tempo in quel piccolo ufficietto. Infatti nel posto di frontiera di Herat, che raggiungemmo di lì a poco, caotico, chiassoso e con ritmi lavorativi a dir poco rilassati, restammo per ore senza che i due poveretti comparissero.
Io me li immagino ancora là, quei due connazionali, che tentano di farsi capire in inglese o in francese o in tedesco o in russo o in latino, smontano e rimontano le loro macchine fotografiche, consegnano i loro rollini, e intanto sudano nella loro divisa da pilota da caccia della prima guerra mondiale.
O forse no, forse ho servito loro su un piatto d’argento quell’avventura cui agognavano, forse da anni continuano a raccontare di quella volta che furono bloccati per ore all’avanposto iraniano, tenuti sotto la minaccia delle armi, presi per spie, minacciati e forse anche un po’ torturati, non proprio torturati,ma insomma un pochino sì.......

1 commento:

Non c'è niente di più anonimo di un Anonimo